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Questi gl’indovinò forse nel fondo degli occhietti la sottile canzonatura, e strinse daccapo i pugni; poi vi fu ancora uno scambio lungo, noioso delle solite raccomandazioni, molti già rientrati nella stanza tornarono intorno al tavolo per bere gratis a quella pace, vi ebbero spinte, considerazioni sciocche, complimenti sotto forma d’ingiuria, qualche ingiuria vera fra i pacificatori. Rocco, vessato da tutto quell’intervento, che riduceva a zero la parte così importante avuta nella crisi, se ne andò brontolando, e la pace fu conchiusa finalmente con una terza bottiglia pagata da Santone.

Nullameno questi rimaneva accigliato; Viù invece alzando la voce provocantemente, come un vincitore, aveva già fatto cenno a Toto di ravviare la partita. Santone ricusò brutalmente, ma dopo dieci minuti, bloccato, vinto, giocava nuovamente avendo per compagno lo stesso Viù.

— Asino! — questi gli gridò confidenzialmente alla prima svista: — non vedi che serbando il re di bastoni avremmo fatto l’ultima presa? Tua figlia Santina gioca meglio di te.

— Va dunque a giocare con lei e cavami quattro dita dai...

— Là, là, t’inquieti ancora!

Bevevano già da tre ore. La partita proseguì facendosi mano mano più seria senza attirare altrimenti l’attenzione del pubblico: si sapeva sin troppo che Viù non lasciava passare giorno senza accattare briga, quantunque in fondo fosse un vigliacco e ne buscasse soventi di sonore.

Suo padre, un’altra canaglia, era stato lungo tempo il terrore del paese, poi invecchiando aveva fatto meno paura malgrado l’abitudine delle minacce, e ora diventato idropico per un vizio cardiaco non era più che uno spettro giallo, il quale passava ancora