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— Tu sei il vigliacco — replicò l’altro: — va là, questo non ti tornerà a conto.

Un urlo di donna, sottile, disperato, si spense dentro al capanno.

Allora Viù rimasto solo ebbe paura. Benchè la notte fosse buia, si sentì veduto fra quei cespugli: l’aria era pesante, la corrente del fiume scura come l’aria trabalzava rantolando sui sassi, tutto il resto era solitudine. Coll’orecchio teso colse i più piccoli suoni, seguì su per la ripa l’ascensione di Toto, che si separava fuggendo da quel delitto per correre senza dubbio a letto. Nel capanno non si udiva più altro. Santone scambiando la figlia per la Sghemba non si era fatto naturalmente alcun riguardo, mentre l’altra inorridita, inebetita dalla violenza aveva tentato invano di difendersi, poi si era taciuta per una ultima disperata lusinga di non essere così riconosciuta.

— Cercherà di sfuggirgli improvvisamente dal capanno, dopo — pensò Viù.

Ed egli aveva voluto questo per vendetta dello scapaccione toccato come risposta alla coltellata colla quale per poco non aveva aperto un fianco a Santone. Tutto quanto gli restava ancora di meno guasto nella precoce perversità del cuore balzò in sussulto; poi il silenzio dentro il capanno, come se quei due vi fossero morti, gli diè una paura istantanea, pazza, di poter essere anch’egli ucciso.

D’un salto, col medesimo ribrezzo di Toto, si cacciò a caso su per l’erta, ma quando giunse sulla cima era già pentito di aver ceduto a quel moto istintivo; allentò il passo e si dispose a tornare nel pozzangherone.

— Sei stato da Santina? — gli chiese Berta col suo sorriso sfrontato.