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dai gradini a grappoli nel buio del pianerottolo, rumoreggiando.
Dentro, la sala era ancora piena. Tre lumi a petrolio, sospesi ai travicelli del soffitto, la illuminavano vivamente; in fondo, presso una delle finestre spalancate, il palco dell’orchestra non era composto che di una tavola con sopra due sedie, e i suonatori affranti guardavano con occhio vago. Si girava a stento. Quasi tutti gli uomini, specialmente quelli che non ballavano, rimanevano ritti, ammantellati come la domenica in piazza, senza muoversi: molte donne attempate sedevano sopra due panche lungo le pareti, ed erano le mamme delle più giovani venute a ballare, ma nessuno le invitava mai se non per lazzo; in un altro angolo due carabinieri in berretto e mantello vigilavano scuri, seri, quasi inosservati. Ma nonostante le finestre aperte era caldo. Un puzzo di cenci sudanti, di scarpe unte colla grascia, di petrolio, di polvere, di fiati mozzava il respiro; si parlava a gruppetti sogghignando, la maggior parte fumavano. E un altro odore acuto di vino cotto veniva per l’uscio della cucina, ove i ballerini bevevano secondo il solito dopo ogni ballo.
Giga, la bella mora, non aveva voluto a nessun patto discendervi quella volta, benchè fosse anche essa fra quelle scritturate dal padrone per il ballo: paga non ne riceveva come tutte le altre, ma solamente a mezzogiorno e sull’avemaria da mangiare: al resto bisognava pensarci da sè eccitando la baldoria e facendo bere i ballerini, perchè lì appunto stava il guadagno del ballo. Ogni bicchierino costava due soldi e non valeva forse due centesimi, poi vi erano le zucchette di aleatico a quindici, a trenta, magari a cinquanta soldi l’una, giacchè si ballava sempre a sfida. Uno scommetteva di piroet-