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Fior d’erba amara,
Per me non torna più la primavera,
Ma tu conserva un fior per la mia bara.
— Ohè, Rocco, bene!
— Non basta, un altro! Lo stornello di Mengo era migliore.
— Un altro, un altro! — gridarono parecchi stringendoglisi intorno, mentre egli guardava sorridente cogli occhi piccini.
Nella stanza non grande il caldo e il puzzo erano opprimenti, quantunque nè la finestra nè la porta a vetri chiudessero troppo bene; su pel camino nella parete di contro saliva il fumo fetido di una aringa riscaldata sulle bracie, e le voci s’incrociavano urlanti, stonate, fra lo scalpiccìo della gente pigiata come ad uno spettacolo. Un grosso lume a petrolio, poco pulito, illuminava abbastanza vivamente la stamberga, dietro la quale in un altro camerino si giocava a tresette.
— Tira via, Rocco.
— Finito! — uno replicò. — È come il gallo de la botte!
Tutti si rivolsero a guardare sulla porta del camerino la grande oleografia, inchiodatavi recentemente dall’ostessa, e che rappresentava una botte con un magnifico gallo sul cocchiume e nel fondo questa scritta: «Quando questo gallo canterà — credenza si farà.»
— Gallo lo sono ancora — ribattè Rocco: — portami una ragazza, tu.
— Tira via dunque.
— Tieni.
— Eh! va là che non trovi altro — disse Mengo.
Quindi le voci crebbero ancora quasi schernendo il vecchio Rocco, ma con una secreta simpatia