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carattere impetuoso ma buono, glielo aveva di buona grazia restituito.

— Tienilo, è di buona guerra. Una carogna come lui non paga la carica.

— Adesso sei tu che torni a soffiare — disse qualcuno.

— No.

— Andiamo, via, bisogna fare la pace: quello che è stato è stato. Che diavolo! Viva il carnevale...

Quindi le voci alzandosi e spezzandosi tutte in una volta ruppero la tensione della scena; oramai tutto era sedato, Santone ricadde sulla panca fra Mengo e Rocco, Toto e Ghino senza avere ancora parlato rimettevano a posto il tavolo, mentre la Teresa scopando i frantumi più grossi dei vetri brontolava già:

— Li paghi tu, Santone, i rotti: il litro e tre bicchieri.

— Due: vedete pure che questo è intatto — intervenne Ghino.

— Va da Dio a farteli pagare.

— No, sono io che li ho rovesciati — si fece avanti Viù con voce conciliante, benchè non fosse vero.

— Allora se paghi tu, paga subito, altrimenti non ti credo — si volse l’ostessa.

— Ecco.

E con un pugno di soldi nella mano sinistra tornò presso il tavolo. Non pareva più quello: colla prontezza odiosamente scaltra che lo distingueva, appena convinto di averla scappata bella voleva la rivincita.

— Gran cosa! ecco qua, nove soldi in tutto, ma io avevo perso anche la partita: noi stavamo per quattordici punti e gli altri per due. Pago io la bottiglia.