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Un lampo sprizzò dagli occhi del ragazzaccio, che finse di stringersi nelle spalle con bonomia.

— Ne comprerò un altro.

Santone non rispose, bevvero ancora, quindi sopraggiunsero altri monelli in sudore, perchè uscivano dal ballo. Se ne parlò, si fecero i nomi delle donne che vi pestavano i piedi sino dal mezzogiorno; uno citò Girella, il peggiore ubbriaco del paese che vi ballava colla moglie e la figlia già grandicella, due sgualdrine, facendosi pagare i poncini da tutti; poi un altro si chinò all’orecchio di Viù:

— C’è anche Santina mezzo ubbriaca.

— Oh!

La partita era alla fine.

— Pago io l’ultimo litro — si volse Viù; poi disse: — Andiamo tutti nel pozzangherone.

Così chiamavano in paese la sala dove si ballava.

— E tu non vieni con noi, Santone? Via! balleremo io e te: io farò da donna, andiamo.

«Si scopron le tombe, si levano i morti» — stridè Viù aprendo la marcia a braccio di Santone invano riluttante fra tutti quei ragazzacci, che lo trascinavano quasi a forza cantando e ridendo.

Fuori la notte era buia, ma uno scirocco umido la manteneva così calda che si sarebbe potuto girare senza gabbano; per la larga ed unica strada del paesello i pochi fanali sembravano scavare delle pozzanghere giallastre entro l’oscurità dell’acciottolato, e lontano, dove il paese finiva ad un muraglione poggiato sopra una fila di archi a difesa della ripa contro la corrente del fiume, e i freddi invernali, si udivano i rantoli di un organetto.

Non erano più delle dieci di notte. Tutti coloro che intendevano prendere parte al carnevale ubbriacandosi nelle bettole o ballando nel pozzanghe-