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all’uomo, come lo avevano chiamato per dileggio sino dal principio del giuoco per marcare la sua differenza con loro, che non arrivavano ai vent’anni. Viù, il meno giovane, ne aveva appena diciotto.

Ma gli sforzi di Santone per divincolarsi, mentre nessuno ancora era riuscito a trargli di mano il coltello strappato al gobbo, cominciavano ad impensierire la folla sballottata in quello stanzino troppo angusto contro i muri e nell’impossibilità di potere spiegare la propria forza.

— Mi raccomando, mi raccomando! — si udiva la voce acuta di Teresa, la ricca ostessa, alta, grassa, odiosa, quantunque non brutta, per la esosità della avarizia e l’ipocrita servilità, colla quale trattava gli avventori.

— Se non fosse per Santone, avrei piacere — le rispose sprezzantemente Sughetto, un giovane calzolaio — che venissero i carabinieri e vi facessero chiudere l’osteria.

Ma ella si era già cacciata più avanti senza ripugnanza per tutte le mani che la brancicavano, riuscendo finalmente a riunire Rocco e Mengo perchè disarmassero Santone.

— E tu sta zitto — si volse al gobbo.

La raccomandazione era inutile. Quella specie di furore muto, col quale Santone spiegando una forza prodigiosa tentava sempre di svincolarsi dalla folla per piombare sopra di lui, aveva gelato di terrore la fredda malvagità dell’altro. Istintivamente si era ritirato dietro il banco coperto di marmo, sul quale nei giorni di grande cucina, quando s’accendevano anche i fornelli del camerino, la Teresa disponeva i piatti e li barattava; ma appena lì dentro tremò di non poterne più uscire. Rapidamente tentò colla mano destra, senza che al-