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La festa non gli parve più quella. Infatti la maggior parte di coloro che non ballavano l’avevano abbandonata; per le finestre spalancate l’aria della notte, entrando con un freddo umido, sbatteva sinistramente le fiamme dei lumi a petrolio, mentre gli ultimi ballerini, i più ostinati, ballavano come trottano i cavalli da vettura poco più discosti dalla stalla anche se sfiniti. Egli non rideva più. Gli sembrò che la gente lo esaminasse, Toto e Ghino erano spariti, nel botteghino vuoto del caffè la Veronica affranta dormigliava sopra una sedia. Nell’insopportabile crescendo di quella oppressione si ricordò l’atroce ingiuria detta nel pomeriggio al padre, ridotto ad uno spettro, spregiato da tutti per le violenze di una volta, e che nullameno lo aveva sempre amato alla propria maniera. La mamma era morta l’anno passato, in una sera di carnevale, mentre egli, Viù, ballava in quello stesso pozzangherone: se ne ricordava benissimo, che erano venuti indarno a chiamarlo, ma sin d’allora anche i peggiori giovinastri del paese lo avevano giudicato e condannato senza appello.

— Vogliamo fare il saltarello? — gli passò innanzi Berta.

— Balla tu l’ultima zucchetta — aggiunse un altro.

— Balliamola, balliamola! — replicò Berta.

— Ti ho detto di no, figlia di beccamorti.

— Tu sei il beccamorti, che uccidi tuo padre.

— Ohè, ohè! — intervenne il padrone — qui si sta allegri. Balli o non balli la zucchetta? Viù scrollò la spalla gobba senza rispondere.

— Che canaglia! — gli disse dietro il padrone.

Ma appena fuori il tormento gli si fece più acuto, avrebbe voluto sapere a qualunque costo come la era andata a finire, e invece appena il pensiero