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— Tienti il tuo danaro — mugghiò Santone, facendo atto di alzarsi per gettarglielo in faccia, se lo avesse deposto sul tavolo.

— E perchè? Hai vinto. Che cosa vuoi di più? Sono io che confesso di aver torto.

— E il coltello?

— Lo hai pure nella tasca: io sono senza, eppure mi rimetto qui a sedere. Se vuoi ammazzarmi ammazzami; che diavolo! tutti possiamo sbagliare una volta, non siamo uomini? Si rinviene, non è vero, Mengo? Ohe, Mengo, canta uno stornello. Cantavi pure di là.

Santone ancora rosso dalla fatica di quella lotta guardava quasi trasognato la disinvoltura del ragazzaccio, che sembrava irriderlo con tutto il corpo: una contorsione antipatica gli faceva infatti piegare la testa sulla spalla gobba con atto sgraziato, mentre la larga bocca sensuale e gli occhi piccoli, cilestri, seguitavano a ridere del loro riso cattivo. Con una mano dalle dita lunghe lunghe aveva posato i danari sulla tavola e li teneva coperti. Santone alto e tarchiato, coi capelli rossi, i baffi ispidi, il naso corto e grosso, sembrava un bufalo; tratto tratto abbassava i sopraccigli villosi saettando in giro sguardi diffidenti.

Viù lo vide tastarsi il coltello nella tasca interna della giubba.

— Così non canti, Mengo? Quella falsa scioltezza impacciava anche gli altri, quando finalmente arrivò Teresa colla bottiglia.

— Un’altra, la mia — ordinò Viù spianandosi meglio sulla sedia.

— Vada, tutto è accomodato. Datevi la mano — insistè due o tre volte Mengo.

— Io sempre — rispose Viù, interrogando l’avversario collo sguardo.