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rone, erano già rincasati; dai vetri dei due caffè ancora aperti si vedeva qualche coppia ostinata in una ultima partita a carte entro la luce nebbiosa: quindi un sordo rumore di battenti percossi avvertì la comitiva che anche la Teresa chiudeva l’osteria.
Un centinaio di passi più innanzi, dalle due larghe finestre, al primo piano, di una casetta tutta nera uscivano con un gran lume le battute asmatiche di una polka, che un organetto suonava appoggiandosi sui bassi di un violoncello.
— Senti Caputo come raschia! — osservò Toto spiccando un salto per arrivare primo lassù.
La combriccola invece si arrestò un momento al portone aperto; nel muro di contro, alla stessa altezza, si vedevano passare gesticolando delle grandi ombre entro una specie di vano luminoso, e sparire istantaneamente nell’oscurità della parete; sopra al portone e giù per l’andito nero che si apriva più basso della strada rintronavano le battute di tutti quei piedi, la maggior parte colle scarpe imbullettate, così che i muri ne tremavano; mentre uno strido rauco o un colpo di tacco più violento tentavano di affrettare ancora quel galoppo rovinoso.
— E forza... dalli, dalli dunque! — urlarono cinque o sei voci.
Allora l’organetto, come preso anch’esso nella vertigine della ronda, strinse così freneticamente il tempo che le note stesse sembrarono pestarsi l’una l’altra come i piedi che, non trovando più il terreno sotto, si ammaccavano balzelloni fra il polverìo rosso dell’ammattonato e il vapore di tutti quegli aliti. Infatti dalle finestre spalancate usciva come una nebbia.
— Ballano, ballano! — disse Santone con un