Oro incenso e mirra/A poppa
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A POPPA
Viveva solo a Manna, piccola città di provincia.
Da molti anni non usciva più di casa che ai bei giorni rifacendo invariabilmente la stessa passeggiata da Porta Santa Cecilia a Porta Maggiore, mentre i fanciulli lo guardavano con occhi curiosi e molte persone si scappellavano senza che egli le conoscesse. Poi il suo unico pronipote, un bimbo, che si era allevato negli ultimi anni, aveva naufragato mozzo di bastimento nelle Indie. Quando il vecchio soldato ricevette la notizia non diede che un crollo, forse il primo di tutta la sua vita; per molti giorni non comparve nella strada, quindi una mattina qualcuno lo aveva veduto dirigersi alla stazione e salire sul primo treno.
Era sempre così vestito, con un cappello a cilindro di felpa lunga, dalle ali molto ricurve, stranissimo al nostro tempo; con un soprabito nero a bavero dritto, chiuso sino al mento, con due file di bottoni metallici, frammezzo ai quali brillava la vecchia croce, e di un paio di pantaloni scuri, con una larga striscia fiorata sulle costole. Era andato alla stazione solo, rasato come al solito: aveva la grande canna di zucchero in mano, non portava seco valigia.
Dopo quella suprema sciagura il suo viso non aveva invecchiato, giacchè a novant’anni non s’invecchia più: solamente i suoi occhi, già sguerniti di palpebre, parevano più fissi, e forse senza quel cravattone nero, a collare, la testa gli sarebbe caduta sul petto.
La stazione era deserta.
Allo sportellino chiese un biglietto per Tolone. L’impiegato, un forestiere giunto da poco in paese, non capì, mise fuori il naso curiosamente, e vedendosi dinanzi quella figura mummificata sorrise.
— Vuole andare in Francia?
— Sì.
— Allora — proseguì l’impiegato colla gentilezza metà orgogliosa e metà servile del proprio ufficio — bisogna prendere la linea di Firenze-Spezia-Genova... — e la spiegazione durò più di un minuto, mentre l’altro, che aveva posato sul davanzale dello sportellino una vecchia moneta da cento lire, appoggiato militarmente sulla canna, come sopra un fucile, sembrava ascoltarlo e non lo ascoltava.
Quando il treno arrivò, il bigliettinaio uscito sotto la tettoia per veder salire quello strano signore si appressò coll’intenzione di aiutarlo. I facchini, che per essere della città, conoscevano tutti il colonnello, parlavano sommessamente fra loro: il vecchio si era arrampicato da solo sul vagone reggendosi vigorosamente allo sportello. Il vagone era vuoto, il treno si fermava cinque minuti. All’ultimo i facchini, gli altri impiegati, il bigliettinaio, il capo stazione, tutta la poca gente di quell’ora si aggruppò in silenzio sotto quel vagone: il vecchio stava in piedi incorniciato dallo sportello nella luce smorta dell’alba, che dava un pallore di ritratto antico alla sua faccia. Poi la locomotiva gettò il solito fischio, e il treno oscillando fece traballare il colonnello: nell’istante medesimo tutto quel crocchio pallido di una indefinibile emozione si traeva macchinalmente il cappello come per un supremo saluto. Parve che il colonnello si rovesciasse; ma improvvisa la sua mano, tagliando coll’antico gesto automatico l’aria fuori dallo sportello, fece un saluto militare, che il treno già in moto interruppe.
La locomotiva fischiava ancora.
Il colonnello sedette nel vagone vuoto colla canna fra le mani e il mento sulla canna.
Così viaggiò più di venti ore: giunse a Tolone.
Nel porto molti bastimenti arrivavano e partivano; gliene fu indicato uno che faceva rotta per il Capo di Buona Speranza. Era un vapore inglese, l’«INFLEXIBLE». Quando il bastimento fu al largo, il colonnello rimasto insensibile al tramestio della partenza andò alla punta di poppa e stette guardando verso la Francia.
Naturalmente egli fu subito una meraviglia a bordo.
I passeggeri, francesi ed inglesi, ammirati della sua alta figura, cui l’abbigliamento e la croce davano quasi un carattere di apparizione, si domandavano sussurrando dove mai quel soldato di quasi un secolo potesse andare. Egli non parlava con nessuno. Il suo occhio fisso sull’infinito del mare pareva inerte, la sua fisonomia era immobile. Ma sebbene il mare fosse agitato, e il vapore avesse un forte rollìo, e molti soffrissero il mal di mare, il suo passo pareva quello di un viaggiatore rotto a tutte le traversate.
All’indomani un’altra curiosità venne a contendergli il primato.
Era un bel giovane biondo, di statura atletica, coi capelli lunghi a riccioli, che contrastavano colla severa eleganza del suo soprabito nero. Il volto illuminato da due grandi occhi azzurri, pieni di riverberi freddi come quelli di un blocco di ghiaccio al sole, era quasi macilento; aveva il mento quadro, il naso aquilino, e una striscia bianca e sottile di cicatrice, che dall’orecchio sinistro gli si perdeva nelle frequenti contrazioni della bocca.
Ma la sua macilenza finiva al viso, sotto aveva un collo da toro e due spalle da Ercole. Al momento d’imbarcarsi nessuno gli aveva badato, il mattino seguente tutti lo ammiravano.
Egli passeggiava sul ponte come assorto in una idea senza accorgersi degli altri, a un tratto s’imbattè nel colonnello.
— Voi foste un soldato di Napoleone I, signore? — gli chiese con moto repentino in eccellente francese.
— Lo sono — ribattè il colonnello con voce lenta e fredda.
Quegli stava per replicare, ma si rattenne: il colonnello passò oltre.
Alcune signore avevano avvertito quello scambio di parole senza intenderle, quindi il colonnello non si vide più per quella giornata. Un’altra mattina comparve all’alba sul ponte, poi si accostò al pilota e gli domandò indicandogli un’isola già oltrepassata:
— Si chiama?
— L’Assunzione.
— Questo — mormorò — sarebbe stato il nome per la sua isola! Tutto quel giorno il tempo fu cattivo, soffiavano molti venti, il mare aveva come dei muggiti d’impazienza, delle onde colleriche, le quali si rompevano schiumando contro la chiglia del vapore. Molti passeggeri divennero inquieti, il cielo era quasi bianco di serenità. Poi venne la sera e il sole sparve improvvisamente all’orizzonte come inghiottito da un vortice.
A mezzanotte il ponte era deserto.
Il colonnello seduto a poppa volgendovi le spalle guardava innanzi a sè nel buio; il vapore ansava, ma sotto il suo rullìo si sentiva sempre il silenzio del mare.
Improvvisamente una figura nera gli si fermò dinanzi, parve attendere un istante, quindi gli sedette vicino.
— Io sono di Mosca — disse poi. — Eravate voi, signore, della Grande Armata contro la Russia?
— Sì.
Il giovane si alzò, gli prese una mano e recandosela repentinamente alle labbra esclamò:
— Permettetemi, permettetemi, signore! Noi, l’ultimo popolo nella storia d’Europa, dobbiamo il nostro attuale risveglio a Napoleone. Voi ci avete invasi, ci avete sconfitti, perchè la civiltà sconfiggerà sempre la barbarie; poi le nostre nevi vi copersero, il nostro ghiaccio vi gelò. Noi v’inseguimmo come lupi, arrivammo sino a Parigi, e Parigi ci rivelò a noi stessi. Allora sentendo di essere barbari cessammo di esserlo. Voi eravate, signore, della grande campagna!
— Sono stato di tutte.
— Tutte! — proruppe guardandolo con ammirazione: — a tutte le battaglie, a tutti gli assedi, da Madrid a Mosca, da San Giovanni d’Acri a Waterloo!
— A tutte — rispose il vecchio con un accento, che sembrava uscire da un sogno.
— Quale epopea e quale grandezza per Napoleone se invece di essere un conquistatore fosse stato un apostolo come la storia gl’imponeva! Ma fu ben punito: Sant’Elena è stata la prigione del tiranno.
— Napoleone non fu mai prigioniero — tuonò il vecchio; — nessuno lo battè mai veramente: solo qualche volta noi ci trovammo in troppo pochi o morimmo in troppi per poter vincere, ecco tutto! Gl’Inglesi, che lo tradirono sulla parola, non osarono tenerlo, e lo misero sopra uno scoglio coll’Oceano per sentinella. Eppure — mormorò con una pausa, quasi parlando coi propri ricordi — gl’Inglesi sono buoni soldati! E la conversazione cadde; ma il giovane, che evidentemente vi si appassionava, tentò di riannodarla.
— Il mondo è mutato: alle battaglie sanguinose stanno per succedere le lotte feconde del lavoro. Tutti i tiranni d’Europa, meno il nostro, hanno dovuto transigere col popolo, la libertà arriva da tutte le parti e scalza il vecchio edificio del privilegio: non più guerre dinastiche, non più oziosi e signori, prepotenti e mezzani. Che tutti lavorino e siano liberi, la donna diventi uguale all’uomo, per unica patria il mondo. Benchè con linguaggio diverso, tutti diremo la stessa parola, c’intenderemo negli scopi e nei mezzi: Napoleone non ha voluto credere al vapore, e oggi il vapore vale più di tutte le sue vittorie.
— Che! — proruppe il vecchio, scagliando sul giovane uno sguardo, di cui il bagliore brillò nelle tenebre. La canna gli tremava nelle mani, parve voler prorompere, poi si rivolse verso il mare con un gran gesto.
La notte era fosca, il mare ascoltava.
— Vi ho offeso? — mormorò umilmente il giovane.
Il vecchio si piegò:
— Siete russo, avete detto: comanda ancora lo czar a Pietroburgo?
— Per poco! — ribattè a denti stretti con un suono che parve di bramito.
— A Parigi che cosa c’è?
— La Repubblica.
— E prima?
— La Comune.
— Che cosa è? Che cosa ha fatto?
— La Comune — replicò l’altro con accento entusiasta — è l’uguaglianza di tutti nel lavoro e nella retribuzione.
— Ne parlavano anche prima di Napoleone: che cosa ha fatto?
— Ha abbattuto la sua colonna — rispose il giovane punto dal freddo di quella indifferenza.
Il vecchio non ebbe che un fremito.
— Nemmeno i vermi avranno rispettato il suo cadavere! L’Europa è dunque come egli l’ha lasciata. Napoleone solo poteva farne un impero; era la sua idea, noi l’abbiamo seguita dappertutto. Io aveva quindici anni quand’egli mi prese nel suo esercito, camminavo quasi nascosto nell’ombra della bandiera. Allora un sergente valeva un re! A Roma abbiamo battuto il papa, alle Piramidi abbiamo sconfitto Maometto, abbiamo trionfato dovunque: egli guardava, noi vincevamo. A Madrid, quando l’imperatore ha fatto scoperchiare la tomba di Carlo V, io ero lì: a Vienna ho visto l’imperatore Francesco seguire Napoleone col cappello in mano, a Berlino pigliammo la spada di Federico, da Mosca ci trasportammo dietro nella ritirata la grande croce d’Ivano il Terribile.
— E la perdeste.
— La buttammo in un lago, Napoleone buttava via tutto, le croci e le corone, i reggimenti e gl’imperi. Che cosa credete che sia un regno? Ci avevano messo dei secoli a farlo, noi lo conquistavamo in una settimana. Noi eravamo la Grande Armata, il resto era il mondo. Se Napoleone non fosse morto giovane, l’avremmo preso tutto, saremmo andati per le Indie e ritornati per l’America. Tutti i popoli ci aspettavano.
— E che cosa avreste recato loro?
Il vecchio sostò, poi guardandolo serenamente rispose:
— Napoleone.
— Comprendo — proseguì l’altro rattenuto un istante da quella immensa parola. — Il vostro è stato un gran sogno, ma la nostra realtà è anche più grande. Voi eravate la gloria e noi siamo la libertà, voi eravate l’esercito e noi siamo la moltitudine: voi siete stati gli ultimi conquistatori della storia. La guerra millenaria dell’umanità condensandosi in uno sforzo supremo ha prodotto le vostre battaglie; ora la guerra dei popoli è conchiusa e comincia quella delle classi: la prima condensò le nazioni, la seconda le dissolverà in un solo popolo. Una volta il soldato si batteva per il generale, domani vincerà per se stesso.
Il vecchio evidentemente affaticato fece uno sforzo.
— Vedete là quella costellazione? Un giorno la chiameranno forse di Napoleone: io ci sono, voi con chi siete?
— Sono nichilista! — Poi abbassando la voce soggiunse: — Noi lavoriamo nel secreto a rovinare il vecchio impero per costruire la giovane Russia, cospiratori nell’ombra, martiri al sole.
— Le vostre armi?
— Tutte quelle che un uomo può usare.
— Avete vinto nessuna battaglia?
— Abbiamo ucciso un imperatore.
— Ma l’impero è rimasto.
E il vecchio non parlò più.
Il mare era buio, le stelle brillavano ancora. Passarono forse due ore senza che i due strani interlocutori, caduti in una meditazione, forse profonda come quel mare, e scintillante di pensieri come il cielo di stelle, parlassero. Il vapore avanzava sempre agitando nell’ombra un pennacchio di fumo.
Poi il vecchio mormorò:
— Sono tutti morti... — e la testa gli ricadde pesantemente sopra le mani congiunte sulla canna, come sotto il peso di quell’enorme poema, del quale era l’ultimo verso, di quei due milioni e mezzo di soldati, ai quali solo era sopravvissuto.
In quel momento l’alba cominciava a spuntare; lontano, in fondo all’orizzonte, una macchia bruna ed immobile poteva essere un’isola.
— Eccola! — esclamò il giovane levandosi.
La faccia del vecchio raggiò.
Il mare mormorava, l’alba cresceva, il vapore rantolava sordamente. Allora il vecchio alzò ambo le mani come invocando e una lagrima, l’ultima, gli scese dagli occhi appannati. L’altro lo guardò trasalendo. Il vecchio soldato si trasfigurava: i primi rossori dell’alba sembravano vampate di cannoni lontani, l’onde avevano dei fremiti di battaglia, la costellazione era scomparsa, quando uno scoppio immenso squarciò l’Oceano e il sole sfolgorò.
— Viva Napoleone! — gridò il vecchio salutando militarmente come se lo pigliasse per il fantasma del morto imperatore.
Il sole saliva sopra Sant’Elena.
— Andate a visitare la sua tomba? — domandò il giovane.
— A morirvi. Egli è stato il primo, io sono l’ultimo.
E fu l’ultima parola.