Operette morali (Leopardi - Donati)/Il Parini, ovvero Della Gloria
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Dialogo della Natura e di un Islandese | Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie | ► |
IL PARINI
OVVERO DELLA GLORIA
capitolo primo.
Giuseppe Parini fu alla nostra memoria uno dei pochissimi italiani che all’eccellenza nelle lettere congiunsero la profonditá dei pensieri, e molta notizia ed uso della filosofia presente: cose oramai sí necessarie alle lettere amene, che non si comprenderebbe come queste se ne potessero scompagnare, se di ciò non si vedessero in Italia infiniti esempi. Fu eziandio, come è noto, di singolare innocenza, pietá verso gl’infelici e verso la patria, fede verso gli amici, nobiltá d’animo, e costanza contro le avversitá della natura e della fortuna, che travagliarono tutta la sua vita misera ed umile, finché la morte lo trasse dall’oscuritá. Ebbe parecchi discepoli: ai quali insegnava prima a conoscere gli uomini e le cose loro, e quindi a dilettarli coll’eloquenza e colla poesia. Tra gli altri, a un giovane d’indole e di ardore incredibile ai buoni studi, e di espettazione maravigliosa, venuto non molto prima nella sua disciplina, prese un giorno a parlare in questa sentenza.
— Tu cerchi, o figliuolo, quella gloria che sola, si può dire di tutte le altre, consente oggi di essere còlta da uomini di nascimento privato: cioè quella a cui si viene talora colla sapienza, e cogli studi delle buone dottrine e delle buone lettere. Giá primieramente non ignori che questa gloria, con tutto che dai nostri sommi antenati non fosse negletta, fu però tenuta in piccolo conto per comparazione alle altre: e bene hai veduto in quanti luoghi e con quanta cura Cicerone, suo caldissimo e felicissimo seguace, si scusi co’ suoi cittadini del tempo e dell’opera che egli poneva in procacciarla; ora allegando che gli studi delle lettere e della filosofia non lo rallentavano in modo alcuno alle faccende pubbliche, ora che sforzato dall’iniquitá dei tempi ad astenersi dai negozi maggiori, attendeva in quegli studi a consumare dignitosamente l’ozio suo; e sempre anteponendo alla gloria de’ suoi scritti quella del suo consolato, e delle cose fatte da sé in beneficio della repubblica. E veramente, se il soggetto principale delle lettere è la vita umana, e il primo intento della filosofia l’ordinare le nostre azioni; non è dubbio che l’operare è tanto piú degno e piú nobile del meditare e dello scrivere, quanto è piú nobile il fine che il mezzo, e quanto le cose e i soggetti importano piú che le parole e i ragionamenti. Anzi niun ingegno è creato dalla natura agli studi; né l’uomo nasce a scrivere, ma solo a fare. Perciò veggiamo che i piú degli scrittori eccellenti, e massime de’ poeti illustri, di questa medesima etá; come, a cagione di esempio, Vittorio Alfieri furono da principio inclinati straordinariamente alle grandi azioni: alle quali ripugnando i tempi, e forse anche impediti dalla fortuna propria, si volsero a scrivere cose grandi. Né sono propriamente atti a scriverne quelli che non hanno disposizione e virtú di farne. E puoi facilmente considerare, in Italia, dove quasi tutti sono d’animo alieno dai fatti egregi, quanto pochi acquistino fama durevole colle scritture. Io penso che l’antichitá, specialmente romana o greca, si possa convenevolmente figurare nel modo che fu scolpita in Argo la statua di Telesilla, poetessa, guerriera e salvatrice della patria. La quale statua rappresentavala con un elmo in mano, intenta a mirarlo, con dimostrazione di compiacersene, in atto di volerlosi recare in capo; e a’ piedi alcuni volumi, quasi negletti da lei, come piccola parte della sua gloria1.
Ma tra noi moderni, esclusi comunemente da ogni altro cammino di celebritá, quelli che si pongono per la via degli studi, mostrano nella elezione quella maggiore grandezza d’animo che oggi si può mostrare, e non hanno necessitá di scusarsi colla loro patria. Di maniera che in quanto alla magnanimitá, lodo sommamente il tuo proposito. Ma perciocché questa via, come quella che non è secondo la natura degli uomini, non si può seguire senza pregiudizio del corpo, né senza moltiplicare in diversi modi l’infelicitá naturale del proprio animo; però innanzi ad ogni altra cosa, stimo sia conveniente e dovuto non meno all’ufficio mio, che all’amor grande che tu meriti e che io ti porto, renderti consapevole sí di varie difficoltá che si frappongono al conseguimento della gloria alla quale aspiri, e sí del frutto che ella è per produrti, in caso che tu la conseguisca; secondo che fino a ora ho potuto conoscere coll’esperienza o col discorso: acciocché, misurando teco medesimo, da una parte quanta sia l’importanza e il pregio del fine, e quanta la speranza dell’ottenerlo; dall’altra, i danni, le fatiche e i disagi che porta seco il cercarlo (dei quali ti ragionerò distintamente in altra occasione); tu possa con piena notizia considerare e risolvere se ti sia piú spediente di seguitarlo o di volgerti ad altra via. —
capitolo secondo.
— Potrei qui nel principio distendermi lungamente sopra le emulazioni, le invidie, le censure acerbe, le calunnie, le parzialitá, le pratiche e i maneggi occulti e palesi contro la tua riputazione, e gli altri infiniti ostacoli che la malignitá degli uomini ti opporrá nel cammino che hai cominciato. I quali ostacoli, sempre malagevolissimi a superare, spesso insuperabili, fanno che piú di uno scrittore, non solo in vita, ma eziandio dopo la morte, è frodato al tutto dell’onore che se gli dée. Perché, vissuto senza fama per l’odio o l’invidia altrui, morto si rimane nell’oscuritá per dimenticanza; potendo difficilmente avvenire che la gloria d’alcuno nasca o risorga in tempo che, fuori delle carte per sé immobili e mute, nessuna cosa ne ha cura. Ma le difficoltá che nascono dalla malizia degli uomini, essendone stato scritto abbondantemente da molti, ai quali potrai ricorrere, intendo di lasciarle da parte. Né anche ho in animo di narrare quegl’impedimenti che hanno origine dalla fortuna propria dello scrittore, ed eziandio dal semplice caso, o da leggerissime cagioni: i quali non di rado fanno che alcuni scritti degni di somma lode, e frutto di sudori infiniti, sono perpetuamente esclusi dalla celebritá, o stati pure in luce per breve tempo, cadono e si dileguano interamente dalla memoria degli uomini; dove che altri scritti o inferiori di pregio, o non superiori a quelli, vengono e si conservano in grande onore. Io ti vo’ solamente esporre le difficoltá e gl’impacci che, senza intervento di malvagitá umana, contrastano gagliardamente il premio della gloria, non all’uno o all’altro fuor dell’usato, ma per l’ordinario, alla maggior parte degli scrittori grandi.
Ben sai che niuno si fa degno di questo titolo, né si conduce a gloria stabile e vera, se non per opere eccellenti e perfette, o prossime in qualche modo alla perfezione. Or dunque hai da por mente a una sentenza verissima di un autore nostro lombardo; dico dell’autore del Cortegiano2: la quale è che «rare volte interviene che chi non è assueto a scrivere, per erudito che egli si sia, possa mai conoscer perfettamente le fatiche ed industrie degli scrittori, né gustar la dolcezza ed eccellenza degli stili, e quelle intrinseche avvertenze che spesso si trovano negli antichi». E qui primieramente, pensa quanto piccolo numero di persone sieno assuefatte ed ammaestrate a scrivere; e però da quanto poca parte degli uomini, o presenti o futuri, tu possa in qualunque caso sperare quell’opinione magnifica che ti hai proposto per frutto della tua vita. Oltre di ciò considera quanta sia nelle scritture la forza dello stile; dalle cui virtú principalmente, e dalla cui perfezione, dipende la perpetuitá delle opere che cadono in qualunque modo nel genere delle lettere amene. E spessissimo occorre che se tu spogli del suo stile una scrittura famosa, di cui ti pensavi che quasi tutto il pregio stesse nelle sentenze, tu la riduci in istato che ella ti par cosa di niuna stima. Ora la lingua è tanta parte dello stile, anzi ha tal congiunzione seco, che difficilmente si può considerare l’una di queste due cose disgiunta dall’altra; a ogni poco si confondono insieme ambedue, non solamente nelle parole degli uomini, ma eziandio nell’intelletto; e mille loro qualitá e mille pregi o mancamenti, appena, e forse in niun modo, colla piú sottile e accurata speculazione, si può distinguere e assegnare a quale delle due cose appartengano, per essere quasi comuni e indivise tra l’una e l’altra. Ma certo niuno straniero è, per tornare alle parole del Castiglione, «assueto a scrivere» elegantemente nella tua lingua. Di modo che lo stile, parte sí grande e sí rilevante dello scrivere, è cosa d’inesplicabile difficoltá e fatica, tanto ad apprenderne l’intimo e perfetto artificio, quanto ad esercitarlo, appreso che egli sia; non ha propriamente altri giudici, né altri convenevoli estimatori, ed atti a poter lodarlo secondo il merito, se non coloro che in una sola nazione del mondo hanno uso di scrivere. E verso tutto il resto del genere umano, quelle immense difficoltá e fatiche sostenute circa esso stile, riescono in buona e forse massima parte inutili e sparse al vento. Lascio l’infinita varietá dei giudizi e delle inclinazioni dei letterati; per la quale il numero delle persone atte a sentire le qualitá lodevoli di questo o di quel libro, si riduce ancora a molto meno.
Ma io voglio che tu abbi per indubitato che a conoscere perfettamente i pregi di un’opera perfetta o vicina alla perfezione, e capace veramente dell’immortalitá, non basta essere assuefatto a scrivere, ma bisogna saperlo fare quasi cosí perfettamente come lo scrittore medesimo che hassi a giudicare. Perciocché l’esperienza ti mostrerá che a proporzione che tu verrai conoscendo piú intrinsecamente quelle virtú nelle quali consiste il perfetto scrivere, e le difficoltá infinite che si provano in procacciarle, imparerai meglio il modo di superare le une e di conseguire le altre; in tal guisa che niuno intervallo e niuna differenza sará dal conoscerle all’imparare e possedere il detto modo; anzi saranno l’una e l’altra una cosa sola. Di maniera che l’uomo non giunge a poter discernere e gustare compiutamente l’eccellenza degli scrittori ottimi, prima che egli acquisti la facoltá di poterla rappresentare negli scritti suoi: perché quell’eccellenza non si conosce né gustasi totalmente se non per mezzo dell’uso e dell’esercizio proprio, e quasi, per cosí dire, trasferita in se stesso. E innanzi a quel tempo, niuno per veritá intende che e quale sia propriamente il perfetto scrivere. Ma non intendendo questo, non può né anche avere la debita ammirazione agli scrittori sommi. E la piú parte di quelli che attendono agli studi, scrivendo essi facilmente, e credendosi scriver bene, tengono in veritá per fermo quando anche dicano il contrario, che lo scriver bene sia cosa facile. Or vedi a che si riduca il numero di coloro che dovranno potere ammirarti e saper lodarti degnamente, quando tu con sudori e con disagi incredibili, sarai pure alla fine riuscito a produrre un’opera egregia e perfetta. Io ti so dire (e credi a questa etá canuta) che appena due o tre sono oggi in Italia, che abbiano il modo e l’arte dell’ottimo scrivere. Il qual numero se ti pare eccessivamente piccolo, non hai da pensare contuttociò che egli sia molto maggiore in tempo né in luogo alcuno.
Piú volte io mi maraviglio meco medesimo come ponghiamo caso, Virgilio, esempio supremo di perfezione agli scrittori, sia venuto e mantengasi in questa sommitá di gloria. Perocché, quantunque io presuma poco di me stesso, e creda non poter mai godere e conoscere ciascheduna parte d’ogni suo pregio e d’ogni suo magistero; tuttavia tengo per certo che il massimo numero de’ suoi lettori e lodatori non iscorge ne’ poemi suoi piú che una bellezza per ogni dieci o venti che a me, col molto rileggerli e meditarli, viene pur fatto di scoprirvi. In vero io mi persuado che l’altezza della stima e della riverenza verso gli scrittori sommi, provenga comunemente, in quelli eziandio che li leggono e trattano, piuttosto da consuetudine ciecamente abbracciata che da giudizio proprio e dal conoscere in quelli per veruna guisa un merito tale. E mi ricordo del tempo della mia giovinezza; quando io leggendo i poemi di Virgilio con piena libertá di giudizio da una parte, e nessuna cura dell’autoritá degli altri, il che non è comune a molti; e dall’altra parte con imperizia consueta a quell’etá, ma forse non maggiore di quella che in moltissimi lettori è perpetua; ricusava fra me stesso di concorrere nella sentenza universale; non discoprendo in Virgilio molto maggiori virtú che nei poeti mediocri. Quasi anche mi maraviglio che la fama di Virgilio sia potuta prevalere a quella di Lucano. Vedi che la moltitudine dei lettori, non solo nei secoli di giudizio falso e corrotto, ma in quelli ancora di sane e ben temperate lettere, è molto piú dilettata dalle bellezze grosse e patenti, che dalle delicate e riposte; piú dall’ardire che dalla verecondia; spesso eziandio dall’apparente piú che dal sostanziale; e per l’ordinario piú dal mediocre che dall’ottimo. Leggendo le lettere di un principe, raro veramente d’ingegno, ma usato a riporre nei sali, nelle arguzie, nell’instabilitá, nell’acume quasi tutta l’eccellenza dello scrivere, io m’avveggo manifestissimamente che egli, nell’intimo de’ suoi pensieri, anteponeva l’Euriade all’Eneide; benché non si ardisse a profferire questa sentenza, per solo timore di non offendere le orecchie degli uomini. In fine, io stupisco che il giudizio di pochissimi, ancorché retto, abbia potuto vincere quello d’infiniti, e produrre nell’universale quella consuetudine di stima non meno cieca che giusta. Il che non interviene sempre, ma io reputo che la fama degli scrittori ottimi soglia essere effetto del caso piú che dei meriti loro: come forse ti sará confermato da quello che io sono per dire nel progresso del ragionamento. —
capitolo terzo.
— Si è veduto giá quanto pochi avranno facoltá di ammirarti quando sarai giunto a quell’eccellenza che ti proponi. Ora avverti che piú d’un impedimento si può frapporre anco a questi pochi, che non facciano degno concetto del tuo valore, benché ne veggano i segni. Non è dubbio alcuno che gli scritti eloquenti o poetici, di qualsivoglia sorta, non tanto si giudicano dalle loro qualitá in se medesime, quanto dall’effetto che essi fanno nell’animo di chi legge. In modo che il lettore nel farne giudizio, li considera piú, per cosí dire, in sé proprio, che in loro stessi. Di qui nasce, che gli uomini naturalmente tardi e freddi di cuore e d’immaginazione, ancorché dotati di buon discorso, di molto acume d’ingegno, e di dottrina non mediocre, sono quasi al tutto inabili a sentenziare convenientemente sopra tali scritti; non potendo in parte alcuna immedesimare l’animo proprio con quello dello scrittore; e ordinariamente dentro di sé li disprezzano; perché leggendoli, e conoscendoli ancora per famosissimi, non iscuoprono la causa della loro fama; come quelli a cui non perviene da lettura tale alcun moto, alcun’immagine, e quindi alcun diletto notabile. Ora, a quegli stessi che da natura sono disposti e pronti a ricevere e a rinnovellare in sé qualunque immagine o affetto saputo acconciamente esprimere dagli scrittori, intervengono moltissimi tempi di freddezza, noncuranza, languidezza d’animo, impenetrabilitá, e disposizione tale che, mentre dura, li rende o conformi o simili agli altri detti dianzi; e ciò per diversissime cause, intrinseche o estrinseche, appartenenti allo spirito o al corpo, transitorie o durevoli. In questi cotali tempi, niuno, se ben fosse per altro uno scrittore sommo, è buon giudice degli scrittori che hanno a muovere il cuore o l’immaginativa. Lascio la sazietá dei diletti provati poco prima in altre letture tali; e le passioni, piú o meno forti, che sopravvengono ad ora ad ora; le quali bene spesso tenendo in gran parte occupato l’animo, non lasciano luogo ai movimenti che in altra occasione vi sarebbero eccitati dalle cose lette. Cosí, per le stesse o simili cause, spesse volte veggiamo che quei medesimi luoghi, quegli spettacoli naturali o di qualsivoglia genere, quelle musiche, e cento sí fatte cose, che in altri tempi ci commossero, o sarebbero state atte a commuoverci, se le avessimo vedute o udite; ora vedendole e ascoltandole, non ci commuovono punto, né ci dilettano; e non perciò sono men belle o meno efficaci in sé, che fossero allora.
Ma quando, per qualunque delle dette cagioni, l’uomo è mal disposto agli effetti dell’eloquenza e della poesia, non lascia egli nondimeno né differisce il far giudizio dei libri attenenti all’un genere o all’altro, che gli accade di leggere allora la prima volta. A me interviene non di rado di ripigliare nelle mani Omero o Cicerone o il Petrarca, e non sentirmi muovere da quella lettura in alcun modo. Tuttavia, come giá consapevole e certo della bontá di scrittori tali, sí per la fama antica e sí per l’esperienza delle dolcezze cagionatemi da loro altre volte; non fo per quella presente insipidezza, alcun pensiero contrario alla loro lode. Ma negli scritti che si leggono la prima volta, e che per essere nuovi, non hanno ancora potuto levare il grido, o confermarselo in guisa che non resti luogo a dubitare del loro pregio; niuna cosa vieta che il lettore, giudicandoli dall’effetto che fanno presentemente nell’animo proprio, ed esso animo non trovandosi in disposizione da ricevere i sentimenti e le immagini volute da chi scrisse, faccia piccolo concetto d’autori e d’opere eccellenti. Dal quale non è facile che egli si rimuova poi per altre letture degli stessi libri, fatte in migliori tempi: perché verisimilmente il tedio provato nella prima, lo sconforterá dalle altre; e in ogni modo, chi non sa quello che importino le prime impressioni, e l’essere preoccupato da un giudizio, quantunque falso?
Per lo contrario, trovansi gli animi alcune volte, per una o per altra cagione, in istato di mobilitá, senso, vigore e caldezza tale, o talmente aperti e preparati, che seguono ogni menomo impulso della lettura, sentono vivamente ogni leggero tocco, e coll’occasione di ciò che leggono, creano in sé mille moti e mille immaginazioni, errando talora in un delirio dolcissimo, e quasi rapiti fuori di sé. Da questo facilmente avviene che, guardando ai diletti avuti nella lettura, e confondendo gli effetti della virtú e della disposizione propria con quelli che si appartengono veramente al libro; restino presi di grande amore ed ammirazione verso quello, e ne facciano un concetto molto maggiore del giusto, anche preponendolo ad altri libri piú degni, ma letti in congiuntura meno propizia. Vedi dunque a quanta incertezza è sottoposta la veritá e la rettitudine dei giudizi, anche delle persone idonee, circa gli scritti e gl’ingegni altrui, tolta pure di mezzo qualunque malignitá o favore. La quale incertezza è tale che l’uomo discorda grandemente da se medesimo nell’estimazione di opere di valore uguale, ed anche di un’opera stessa, in diverse etá della vita, in diversi casi, e fino in diverse ore di un giorno. —
capitolo quarto.
— A fine poi che tu non presuma che le predette difficoltá, consistenti nell’animo dei lettori non ben disposto, occorrano rade volte e fuori dell’usato; considera che niuna cosa è maggiormente usata, che il venir mancando nell’uomo coll’andar dell’etá, la disposizione naturale a sentire i diletti dell’eloquenza e della poesia, non meno che dell’altre arti imitative, e di ogni bello mondano. Il quale decadimento dell’animo, prescritto dalla stessa natura alla nostra vita, oggi è tanto maggiore che egli si fosse agli altri tempi, e tanto piú presto incomincia ed ha piú rapido progresso, specialmente negli studiosi, quanto che all’esperienza di ciascheduno, si aggiunge a chi maggiore a chi minor parte della scienza nata dall’uso e dalle speculazioni di tanti secoli passati. Per la qual cosa e per le presenti condizioni del viver civile, si dileguano facilmente dall’immaginazione degli uomini le larve della prima etá, e seco le speranze dall’animo, e colle speranze gran parte dei desiderii, delle passioni, del fervore, della vita, delle facoltá. Onde io piuttosto mi maraviglio che uomini di etá matura, dotti massimamente, e dediti a meditare sopra le cose umane, sieno ancora sottoposti alla virtú dell’eloquenza e della poesia, che non che di quando in quando elle si trovino impedite di fare in quelli alcun effetto. Perciocché abbi per certo, che ad essere gagliardamente mosso dal bello e dal grande immaginato, fa mestieri credere che vi abbia nella vita umana alcun che di grande e di bello vero, e che il poetico del mondo non sia tutto favola. Le quali cose il giovane crede sempre, quando anche sappia il contrario, finché l’esperienza sua propria non sopravviene al sapere; ma elle sono credute difficilmente dopo la trista disciplina dell’uso pratico, massime dove l’esperienza è congiunta coll’abito dello speculare e colla dottrina.
Da questo discorso seguirebbe che generalmente i giovani fossero migliori giudici delle opere indirizzate a destare affetti ed immagini, che non sono gli uomini maturi o vecchi. Ma da altro canto si vede che i giovani, non accostumati alla lettura, cercano in quella un diletto piú che umano, infinito, e di qualitá impossibili; e tale non ve ne trovando, disprezzano gli scrittori: il che anco in altre etá, per simili cause, avviene alcune volte agl’illetterati. Quei giovani poi, che sono dediti alle lettere, antepongono facilmente, come nello scrivere, cosí nel giudicare gli scritti altrui, l’eccessivo al moderato, il superbo o il vezzoso dei modi e degli ornamenti al semplice e al naturale, e le bellezze fallaci alle vere; parte per la poca esperienza, parte per l’impeto dell’etá. Onde i giovani, i quali senza alcun fallo sono la parte degli uomini piú disposta a lodare quello che loro apparisce buono, come piú veraci e candidi, rade volte sono atti a gustare la matura e compiuta bontá delle opere letterarie. Col progresso degli anni, cresce quell’attitudine che vien dall’arte, e decresce la naturale. Nondimeno ambedue sono necessarie all’effetto.
Chiunque poi vive in cittá grande, per molto che egli sia da natura caldo e svegliato di cuore e d’immaginativa, io non so (eccetto se, ad esempio tuo, non trapassa in solitudine il piú del tempo) come possa mai ricevere dalle bellezze o della natura o delle lettere, alcun sentimento tenero o generoso, alcun’immagine sublime o leggiadra. Perciocché poche cose sono tanto contrarie a quello stato dell’animo che ci fa capaci di tali diletti, quanto la conversazione di questi uomini, lo strepito di questi luoghi, lo spettacolo della magnificenza vana, della leggerezza delle menti, della falsitá perpetua, delle cure misere, e dell’ozio piú misero che vi regnano. Quanto al volgo dei letterati, sto per dire che quello delle cittá grandi sappia meno far giudizio dei libri, che non sa quello delle cittá piccole: perché nelle grandi, come le altre cose sono per lo piú false e vane, cosí la letteratura comunemente è falsa e vana, o superficiale. E se gli antichi reputavano gli esercizi delle lettere e delle scienze come riposi e sollazzi in comparazione ai negozi, oggi la piú parte di quelli che nelle cittá grandi fanno professione di studiosi, reputano, ed effettualmente usano, gli studi e lo scrivere come sollazzi e riposi degli altri sollazzi.
Io penso che le opere riguardevoli di pittura, scultura ed architettura, sarebbero godute assai meglio se fossero distribuite per le province, nelle cittá mediocri e piccole, che accumulate, come sono, nelle metropoli; dove gli uomini, parte pieni d’infiniti pensieri, parte occupati in mille spassi, e coll’animo connaturato, o costretto, anche mal suo grado, allo svagamento, alla frivolezza e alla vanitá, rarissime volte sono capaci dei piaceri intimi dello spirito. Oltre che la moltitudine di tante bellezze adunate insieme, distrae l’animo in guisa che, non attendendo a niuna di loro se non poco, non può ricevere un sentimento vivo; o genera tal sazietá, che elle si contemplano colla stessa freddezza interna che si fa qualunque oggetto volgare. Il simile dico della musica: la quale nelle altre cittá non si trova esercitata cosí perfettamente, e con tale apparato, come nelle grandi; dove gli animi sono meno disposti alle commozioni mirabili di quell’arte, e meno, per dir cosí, musicali, che in ogni altro luogo. Ma nondimeno alle arti è necessario il domicilio delle cittá grandi, sí a conseguire, e sí maggiormente a porre in opera la loro perfezione: e non per questo, da altra parte, è men vero che il diletto che elle porgono quivi agli uomini è minore assai che egli non sarebbe altrove. E si può dire che gli artefici, nella solitudine e nel silenzio, procurano con assidue vigilie, industrie e sollecitudini, il diletto di persone, che solite a rivolgersi tra la folla e il romore, non gusteranno se non piccolissima parte del frutto di tante fatiche. La qual sorte degli artefici cade anco per qualche proporzionato modo negli scrittori. —
capitolo quinto.
— Ma ciò sia detto come per incidenza. Ora tornando in via, dico che gli scritti piú vicini alla perfezione, hanno questa proprietá, che ordinariamente alla seconda lettura piacciono piú che alla prima. Il contrario avviene in molti libri composti con arte e diligenza non piú che mediocre, ma non privi però di un qual si sia pregio estrinseco ed apparente; i quali, riletti che sieno, cadono dall’opinione che l’uomo ne avea conceputo alla prima lettura. Ma letti gli uni e gli altri una volta sola, ingannano talora in modo anche i dotti ed esperti, che gli ottimi sono posposti ai mediocri. Ora hai a considerare che oggi, eziandio le persone dedite agli studi per instituto di vita, con molta difficoltá s’inducono a rileggere libri recenti, massime il cui genere abbia per suo proprio fine il diletto. La qual cosa non avveniva agli antichi; atteso la minor copia dei libri. Ma in questo tempo ricco delle scritture lasciateci di mano in mano da tanti secoli, in questo presente numero di nazioni letterate, in questa eccessiva copia di libri prodotti giornalmente da ciascheduna di esse, in tanto scambievole commercio fra tutte loro; oltre a ciò, in tanta moltitudine e varietá delle lingue scritte, antiche e moderne, in tanto numero ed ampiezza di scienze e dottrine di ogni maniera, e queste cosí strettamente connesse e collegate insieme, che lo studioso è necessitato a sforzarsi di abbracciarle tutte, secondo la sua possibilitá; ben vedi che manca il tempo alle prime non che alle seconde letture. Però qualunque giudizio vien fatto dei libri nuovi una volta, difficilmente si muta. Aggiungi che per le stesse cause, anche nel primo leggere i detti libri, massime di genere ameno, pochissimi, e rarissime volte, pongono tanta attenzione e tanto studio, quanto è di bisogno a scoprire la faticosa perfezione, l’arte intima e le virtú modeste e recondite degli scritti. Di modo che in somma oggidí viene a essere peggiore la condizione dei libri perfetti che dei mediocri; le bellezze o doti di una gran parte dei quali, vere o false, sono esposte agli occhi in maniera che, per piccole che sieno, facilmente si scorgono alla prima vista. E possiamo dire con veritá, che oramai l’affaticarsi di scrivere perfettamente, è quasi inutile alla fama. Ma da altra parte, i libri composti, come sono quasi tutti i moderni, frettolosamente, e rimoti da qualunque perfezione, ancorché sieno celebrati per qualche tempo, non possono mancar di perire in breve; come si vede continuamente nell’effetto. Ben è vero che l’uso che oggi si fa dello scrivere è tanto, che eziandio molti scritti degnissimi di memoria, e venuti pure in grido, trasportati indi a poco, e avanti che abbiano potuto (per dir cosí) radicare la propria celebritá, dall’immenso fiume dei libri nuovi che vengono tutto giorno in luce, periscono senz’altra cagione, dando luogo ad altri, degni o indegni, che occupano la fama per breve spazio. Cosí, ad un tempo medesimo, una sola gloria è dato a noi di seguire, delle tante che furono proposte agli antichi; e quella stessa con molta piú difficoltá si consegue oggi, che anticamente.
Solo in questo naufragio continuo e comune non meno degli scritti nobili che de’ plebei, soprannuotano i libri antichi; i quali per la fama giá stabilita e corroborata dalla lunghezza dell’etá, non solo si leggono ancora diligentemente, ma si rileggono e studiano. E nota che un libro moderno, eziandio se di perfezione fosse comparabile agli antichi, diffícilmente o per nessun modo potrebbe, non dico possedere lo stesso grado di gloria, ma recare altrui tanta gioconditá quanta dagli antichi si riceve; e questo per due cagioni. La prima si è, che egli non sarebbe letto con quell’accuratezza e sottilitá che si usa negli scritti celebri da gran tempo, né tornato a leggere se non da pochissimi, né studiato da nessuno; perché non si studiano libri, che non sieno scientifici, insino a tanto che non sono divenuti antichi. L’altra si è, che la fama durevole e universale delle scritture, posto che a principio nascesse non da altra causa che dal merito loro proprio ed estrinseco, ciò non ostante, nata e cresciuta che sia, moltiplica in modo il loro pregio che elle ne divengono assai piú grate a léggere, che non furono per l’addietro; e talvolta la maggior parte del diletto che vi si prova, nasce semplicemente dalla stessa fama. Nel qual proposito mi tornano ora alla mente alcune avvertenze notabili di un filosofo francese3; il quale in sostanza, discorrendo intorno alle origini dei piaceri umani, dice cosí. «Molte cause di godimento compone e crea l’animo stesso nostro a sé proprio, massime collegando tra loro diverse cose. Perciò bene spesso avviene che quello che piacque una volta, piaccia similmente un’altra; solo per essere piaciuta innanzi; congiungendo noi coll’immagine del presente quella del passato. Per modo di esempio, una commediante piaciuta agli spettatori nella scena, piacerá verisimilmente ai medesimi anco nelle sue stanze; perocché sí del suono della sua voce, sí della sua recitazione, sí dell’essere stati presenti agli applausi riportati dalla donna, e in qualche modo eziandio del concetto di principessa aggiunto a quel proprio che le conviene, si comporrá quasi un misto di piú cause, che produrranno un diletto solo. Certo la mente di ciascuno abbonda tutto giorno d’immagini e di considerazioni accessorie alle principali. Di qui nasce che le donne fornite di riputazione grande, e macchiate di qualche difetto piccolo, recano talvolta in onore esso difetto, dando causa agli altri di tenerlo in conto di leggiadria. E veramente il particolare amore che ponghiamo chi ad una chi ad altra donna, è fondato il piú delle volte in sulle sole preoccupazioni che nascono in colei favore o dalla nobiltá del sangue, o dalle ricchezze, o dagli onori che le sono renduti o dalla stima che le è portata da certi»; spesso eziandio dalla fama, vera o falsa, di bellezza o di grazia, e dallo stesso amore avutole prima o di presente da altre persone. E chi non sa che quasi tutti i piaceri vengono piú dalla nostra immaginativa, che dalle proprie qualitá delle cose piacevoli?
Le quali avvertenze quadrando ottimamente agli scritti non meno che alle altre cose, dico che se oggi uscisse alla luce un poema uguale o superiore di pregio intrinseco all’Iliade; letto anche attentissimamente da qualunque piú perfetto giudice di cose poetiche, gli riuscirebbe assai men grato e men dilettevole di quella; e per tanto gli resterebbe in molto minore estimazione: perché le virtú proprie del poema nuovo non sarebbero aiutate dalla fama di ventisette secoli, né da mille memorie e mille rispetti, come sono le virtú dell’Iliade. Similmente dico, che chiunque leggesse accuratamente o la Gerusalemme o il Furioso, ignorando in tutto o in parte la loro celebritá: proverebbe nella lettura molto minor diletto, che gli altri non fanno. Laonde in fine, parlando generalmente, i primi lettori di ciascun’opera egregia, e i contemporanei di chi la scrisse, posto che ella ottenga poi fama nella posteritá, sono quelli che in leggerla godono meno di tutti gli altri: il che risulta in grandissimo pregiudizio degli scrittori. —
capitolo sesto.
— Queste sono in parte le difficoltá che ti contenderanno l’acquisto della gloria appresso agli studiosi, ed agli stessi eccellenti nell’arte dello scrivere e nella dottrina. E quanto a coloro che, se bene bastantemente instrutti di quell’erudizione che oggi è parte, si può dire, necessaria di civiltá, non fanno professione alcuna di studi né di scrivere, e leggono solo per passatempo, ben sai che non sono atti a godere piú che tanto della bontá dei libri: e questo, oltre al detto innanzi, anche per un’altra cagione, che mi resta a dire. Cioè che questi tali non cercano altro in quello che leggono, fuorché il diletto presente. Ma il presente è piccolo e insipido per natura a tutti gli uomini. Onde ogni cosa piú dolce, e come dice Omero,
Venere, il sonno, il canto e le carole
presto e di necessitá vengono a noia, se colla presente occupazione non è congiunta la speranza di qualche diletto o comoditá futura che ne dipenda. Perocché la condizione dell’uomo non è capace di alcun godimento notabile, che non consista sopra tutto nella speranza; la cui forza è tale, che moltissime occupazioni prive per sé di ogni piacere, ed eziandio stucchevoli o faticose, aggiuntavi la speranza di qualche frutto, riescono gratissime e giocondissime, per lunghe che sieno; ed al contrario, le cose che si stimano dilettevoli in sé, disgiunte dalla speranza, vengono in fastidio quasi, per cosí dire, appena gustate. E tanto veggiamo noi che gli studiosi sono come insaziabili della lettura, anco spesse volte aridissima, e provano un perpetuo diletto nei loro studi, continuati per buona parte del giorno; in quanto che nell’una e negli altri, essi hanno sempre dinanzi agli occhi uno scopo collocato nel futuro, e una speranza di progresso e di giovamento, qualunque egli si sia; e che nello stesso leggere che fanno alcune volte quasi per ozio e per trastullo, non lasciano di proporsi, oltre al diletto presente, qualche altra utilitá, piú o meno determinata. Dove che gli altri, non mirando nella lettura ad alcun fine che non si contenga, per dir cosí, nei termini di essa lettura; fino sulle prime carte dei libri piú dilettevoli e piú soavi, dopo un vano piacere, si trovano sazi: sicché sogliono andare nauseosamente errando di libro in libro, e in fine si maravigliano, i piú di loro, come altri possa ricevere dalla lunga lezione un lungo diletto. In tal modo, anche da ciò puoi conoscere che qualunque arte, industria e fatica di chi scrive, è perduta quasi del tutto in quanto a queste tali persone, del numero delle quali generalmente si è la piú parte dei lettori. Ed anche gli studiosi, mutate coll’andare degli anni, come spesso avviene, la materia e la qualitá dei loro studi, appena sopportano la lettura di libri dai quali in altro tempo furono o sarebbero potuti essere dilettati oltre modo; e se bene hanno ancora l’intelligenza e la perizia necessaria a conoscerne il pregio, pure non vi sentono altro che tedio; perché non si aspettano da loro alcuna utilitá. —
capitolo settimo.
— Fin qui si è detto dello scrivere in generale, e certe cose che toccano principalmente alle lettere amene, allo studio delle quali ti veggo inclinato piú che ad alcun altro. Diciamo ora particolarmente della filosofia; non intendendo però di separar quelle da questa; dalla quale pendono totalmente. Penserai forse che derivando la filosofia dalla ragione, di cui l’universale degli uomini inciviliti partecipa forse piú che dell’immaginativa e delle facoltá del cuore; il pregio delle opere filosofiche debba essere conosciuto piú facilmente e da maggior numero di persone, che quello de’ poemi, e degli altri scritti che riguardano al dilettevole e al bello. Ora io, per me, stimo che il proporzionato giudizio e il perfetto senso sia poco meno raro verso quelle che verso queste. Primieramente abbi per cosa certa che a far progressi notabili nella filosofia, non bastano sottilitá d’ingegno, e facoltá grande di ragionare, ma si ricerca eziandio molta forza immaginativa; e che il Descartes, Galileo, il Leibnitz, il Newton, il Vico, in quanto all’innata disposizione dei loro ingegni, sarebbero potuti essere sommi poeti; e per lo contrario Omero, Dante, lo Shakespeare, sommi filosofi. Ma perché questa materia, a dichiararla e trattarla appieno, vorrebbe molte parole, e ci dilungherebbe assai dal nostro proposito; perciò contentandomi pure di questo cenno, e passando innanzi, dico che solo i filosofi possono conoscere perfettamente il pregio, e sentire il diletto, dei libri filosofici. Intendo dire in quanto si è alla sostanza, non a qualsivoglia ornamento che possono avere, o di parole o di stile o d’altro. Dunque, come gli uomini di natura, per modo di dire, impoetica, se bene intendono le parole e il senso, non ricevono i moti e le immagini de’ poemi; cosí bene spesso quelli che non sono dimesticati al meditare e filosofare seco medesimi, o che non sono atti a pensare profondamente, per veri e per accurati che sieno i discorsi e le conclusioni del filosofo, e chiaro il modo che egli usa in espor gli uni e l’altre, intendono le parole e quello che egli vuol dire, ma non la veritá de’ suoi detti. Perocché non avendo la facoltá o l’abito di penetrar coi pensieri nell’intimo delle cose, né di sciôrre e dividere le proprie idee nelle loro menome parti, né di ragunare e stringere insieme un buon numero di esse idee, né di contemplare colla mente in un tratto molti particolari in modo da poterne trarre un generale, né di seguire indefessamente coll’occhio dell’intelletto un lungo ordine di veritá connesse tra loro a mano a mano, né di scoprire le sottili e recondite congiunture che ha ciascuna veritá con cento altre: non possono facilmente, o in maniera alcuna, imitare e reiterare colla mente propria le operazioni fatte, né provare le impressioni provate, da quella del filosofo; unico modo a vedere, comprendere, ed estimare convenientemente tutte le cause che indussero esso filosofo a far questo o quel giudizio, affermare o negare questa o quella cosa, dubitar di tale o di tal altra. Sicché quantunque intendano i suoi concetti, non intendono che sieno veri o probabili; non avendo, e non potendo fare, una quasi esperienza della veritá e della probabilitá loro. Cosa poco diversa da quella che agli uomini naturalmente freddi accade circa le immaginazioni e gli affetti espressi dai poeti. E ben sai che egli è comune al poeta e al filosofo l’internarsi nel profondo degli animi umani, e trarre in luce le loro intime qualitá e varietá, gli andamenti, i moti e i successi occulti, le cause e gli effetti dell’une e degli altri: nelle quali cose, quelli che non sono atti a sentire in sé la corrispondenza de’ pensieri poetici al vero, non sentono anche, e non conoscono, quella dei filosofici.
Dalle dette cause nasce quello che veggiamo tutto dí, che molte opere egregie, ugualmente chiare ed intelligibili a tutti, ciò non ostante, ad alcuni paiono contenere mille veritá certissime; ad altri, mille manifesti errori: onde elle sono impugnate, pubblicamente o privatamente; non solo per malignitá o per interesse o per altre simili cagioni, ma eziandio per imbecillitá di mente, o per incapacitá di sentire e di comprendere la certezza dei loro princípi, la rettitudine delle deduzioni e delle conclusioni, e generalmente la convenienza, l’efficacia e la veritá dei loro discorsi. Spesse volte le piú stupende opere filosofiche sono anche imputate di oscuritá, non per colpa degli scrittori, ma per la profonditá o la novitá dei sentimenti da un lato, e dall’altro l’oscuritá dell’intelletto di chi non li potrebbe comprendere in nessun modo. Considera dunque anche nel genere filosofico quanta difficoltá di aver lode, per dovuta che sia. Perocché non puoi dubitare, se anche io non lo esprimo che il numero dei filosofi veri e profondi, fuori dei quali non è chi sappia far convenevole stima degli altri tali, non sia piccolissimo anche nell’etá presente, benché dedita all’amore della filosofia piú che le passate. Lascio le varie fazioni, o comunque si convenga chiamarle, in cui sono divisi oggi, come sempre furono, quelli che fanno professione di filosofare: ciascuna delle quali nega ordinariamente la debita lode e stima a quei delle altre; non solo per volontá, ma per avere l’intelletto occupato da altri princípi. —
capitolo ottavo.
— Se poi (come non è cosa alcuna che io non mi possa promettere di cotesto ingegno) tu salissi col sapere e colla meditazione a tanta altezza che ti fosse dato, come fu a qualche eletto spirito, di scoprire alcuna principalissima veritá, non solo stata prima incognita in ogni tempo, ma rimota al tutto dell’espettazione degli uomini, e al tutto diversa o contraria alle opinioni presenti, anco dei saggi; non pensar di avere a raccôrre in tua vita da questo discoprimento alcuna lode non volgare. Anzi non ti sará data lode, né anche da’ sapienti (eccettuato forse una loro menoma parte), finché ripetute quelle medesime veritá, ora da uno ora da altro, a poco a poco e con lunghezza di tempo, gli uomini vi si assuefacciano prima gli orecchi e poi l’intelletto. Perocché niuna veritá nuova, e del tutto aliena dai giudizi correnti; quando bene, dal primo che se ne avvide, fosse dimostrata con evidenza e certezza conforme o simile alla geometrica; non fu mai potuta, se pure le dimostrazioni non furono materiali, introdurre e stabilire nel mondo subitamente; ma solo in corso di tempo, mediante la consuetudine e l’esempio: assuefacendosi gli uomini al credere come ad ogni altra cosa; anzi credendo generalmente per assuefazione, non per certezza di prove concepita nell’animo: tantoché in fine essa veritá, cominciata a insegnare ai fanciulli, fu accettata comunemente, ricordata con maraviglia l’ignoranza della medesima, e derise le sentenze diverse o negli antenati o nei presenti. Ma ciò con tanto maggiore difficoltá e lunghezza, quanto queste sí fatte veritá nuove e incredibili, furono maggiori e piú capitali, e quindi sovvertitrici di maggior numero di opinioni radicate negli animi. Né anche gl’intelletti acuti ed esercitati, sentono facilmente tutta l’efficacia delle ragioni che dimostrano simili veritá inaudite, ed eccedenti di troppo spazio i termini delle cognizioni e dell’uso di essi intelletti; massime quando tali ragioni e tali veritá ripugnano alle credenze inveterate nei medesimi. Il Descartes al suo tempo, nella geometria, la quale egli amplificò maravigliosamente, coll’adattarvi l’algebra e cogli altri suoi trovati, non fu né pure inteso, se non da pochissimi. Il simile accadde al Newton. In vero, la condizione degli uomini, disusatamente superiori di sapienza alla propria etá, non è molto diversa da quella dei letterati e dotti che vivono in cittá o province vacue di studi: perocché né questi, come dirò poi, da’ lor cittadini o provinciali, né quelli da’ contemporanei, sono tenuti in quel conto che meriterebbero; anzi spessissime volte sono vilipesi, per la diversitá della vita o delle opinioni loro da quelle degli altri, e per la comune insufficienza a conoscere il pregio delle loro facoltá ed opere.
Non è dubbio che il genere umano a questi tempi, e insino dalla restaurazione della civiltá, non vada procedendo innanzi continuamente nel sapere. Ma il suo procedere è tardo e misurato: laddove gli spiriti sommi e singolari, che si danno alla speculazione di quest’universo, sensibile all’uomo o intelligibile, ed al rintracciamento del vero, camminano, anzi talora corrono, velocemente, e quasi senza misura alcuna. E non per questo è possibile che il mondo, in vederli procedere cosí spediti, affretti il cammino, tanto che giunga con loro o poco piú tardi di loro, colá dove essi per ultimo si rimangono. Anzi non esce del suo passo; e non si conduce alcune volte a questo o a quel termine, se non solamente in ispazio di uno o di piú secoli da poi che qualche alto spirito vi si fu condotto.
È sentimento, si può dire, universale, che il sapere umano debba la maggior parte del suo progresso a quegl’ingegni supremi che sorgono di tempo in tempo, quando uno quando altro, quasi miracoli di natura. Io per lo contrario stimo che esso debba agl’ingegni ordinari il piú, agli straordinari pochissimo. Uno di questi, ponghiamo, fornito che egli ha colla dottrina lo spazio delle conoscenze de’ suoi contemporanei, procede nel sapere, per dir cosí, dieci passi piú innanzi. Ma gli altri uomini, non solo non si dispongono a seguitarlo, anzi il piú delle volte, per tacere il peggio, si ridono del suo progresso. Intanto molti ingegni mediocri, forse in parte aiutandosi dei pensieri e delle scoperte di quel sommo, ma principalmente per mezzo degli studi propri, fanno congiuntamente un passo; nel che per la brevitá dello spazio, cioè per la poca novitá delle sentenze, ed anche per la moltitudine di quelli che ne sono autori, in capo di qualche anno, sono seguitati universalmente. Cosí, procedendo, giusta il consueto, a poco a poco e per opera ed esempio di altri intelletti mediocri, gli uomini compiono finalmente il decimo passo; e le sentenze di quel sommo sono comunemente accettate per vere in tutte le nazioni civili. Ma esso, giá spento da gran tempo, non acquista pure per tal successo una tarda e intempestiva riputazione; parte per essere giá mancata la sua memoria, o perché l’opinione ingiusta avuta di lui mentre visse, confermata dalla lunga consuetudine, prevale a ogni altro rispetto; parte perché gli uomini non sono venuti a questo grado di cognizioni per opera sua; e parte perché giá nel sapere gli sono uguali, presto lo sormonteranno e forse gli sono superiori anche al presente, per essersi potute colla lunghezza del tempo dimostrare e dichiarare meglio le veritá immaginate da lui, ridurre le sue congetture a certezza, dare ordine e forma migliore a’ suoi trovati, e quasi maturarli. Se non che forse qualcuno degli studiosi, riandando le memorie dei tempi addietro, considerate le opinioni di quel grande e messe a riscontro con quelle de’ suoi posteri, si avvede come e quanto egli precorresse il genere umano, e gli porge alcune lodi che levano poco romore e vanno presto in dimenticanza.
Se bene il progresso del sapere umano, come il cadere dei gravi, acquista di momento in momento, maggiore celeritá; nondimeno egli è molto difficile ad avvenire che una medesima generazione d’uomini muti sentenza, o conosca gli errori propri, in guisa che ella creda oggi il contrario di quel che credette in altro tempo. Bensí prepara tali mezzi alla susseguente, che questa poi conosce e crede in molte cose il contrario di quella. Ma come niuno sente il perpetuo moto che ci trasporta in giro insieme colla terra, cosí l’universale degli uomini non si avvede del continuo procedere che fanno le sue conoscenze, né dell’assiduo variare de’ suoi giudizi. E mai non muta opinione in maniera che egli si creda di mutarla. Ma certo non potrebbe fare di non crederlo e di non avvedersene, ogni volta che egli abbracciasse subitamente una sentenza molto aliena da quelle tenute or ora. Per tanto, niuna veritá cosí fatta, salvo che non cada sotto ai sensi, sará mai creduta comunemente dai contemporanei del primo che la conobbe. —
capitolo nono
— Facciamo che, superato ogni ostacolo, aiutato il valore dalla fortuna, abbi conseguito in fatti, non pur celebritá, ma gloria, e non dopo morte ma in vita. Veggiamo che frutto ne ritrarrai. Primieramente quel desiderio degli uomini di vederti e conoscerti di persona, quell’essere mostrato a dito, quell’onore e quella riverenza significata dai presenti cogli atti e colle parole, nelle quali cose consiste la massima utilitá di questa gloria che nasce dagli scritti, parrebbe che piú facilmente ti dovessero intervenire nelle cittá piccole, che nelle grandi; dove gli occhi e gli animi sono distratti e rapiti parte dalla potenza, parte dalla ricchezza, in ultimo dalle arti che servono all’intrattenimento e alla gioconditá della vita inutile. Ma come le cittá piccole mancano per lo piú di mezzi e di sussidi onde altri venga all’eccellenza nelle lettere e nelle dottrine; e come tutto il raro e il pregevole concorre e si aduna nelle cittá grandi; perciò le piccole, di rado abitate dai dotti, e prive ordinariamente di buoni studi, sogliono tenere tanto basso conto, non solo della dottrina e della sapienza, ma della stessa fama che alcuno si ha procacciata con questi mezzi, che l’une e l’altre in quei luoghi non sono pur materia d’invidia. E se per caso qualche persona riguardevole o anche straordinaria d’ingegno e di studi, si trova abitare in luogo piccolo; l’esservi al tutto unica, non tanto non le accresce pregio, ma le nuoce in modo che spesse volte, quando anche famosa al di fuori, ella è, nella consuetudine di quegli uomini, la piú negletta e oscura persona del luogo. Come lá dove l’oro e l’argento fossero ignoti e senza pregio, chiunque essendo privo di ogni altro avere, abbondasse di questi metalli, non sarebbe piú ricco degli altri, anzi poverissimo, e per tale avuto; cosí lá dove l’ingegno e la dottrina non si conoscono, e non conosciute non si apprezzano, quivi se pur vi ha qualcuno che ne abbondi, questi non ha facoltá di soprastare agli altri, e quando non abbia altri beni, è tenuto a vile. E tanto egli è lungi da potere essere onorato in simili luoghi, che bene spesso egli vi è riputato maggiore che non è in fatti, né perciò tenuto in alcuna stima. Al tempo che, giovanetto, io mi riduceva talvolta nel mio piccolo Bosisio; conosciutosi per la terra ch’io soleva attendere agli studi, e mi esercitava alcun poco nello scrivere, i terrazzani mi riputavano poeta, filosofo, fisico, matematico, medico, legista, teologo, e perito di tutte le lingue del mondo; e m’interrogavano, senza fare una menoma differenza, sopra qualunque punto di qual si sia disciplina o favella intervenisse per alcun accidente nel ragionare. E non per questa loro opinione mi stimavano da molto; anzi mi credevano minore assai tutti gli uomini dotti degli altri luoghi. Ma se io li lasciava venire in dubbio che la mia dottrina fosse pure un poco meno smisurata che essi non pensavano, io scadeva ancora moltissimo nel loro concetto, e all’ultimo si persuadevano che essa mia dottrina non si stendesse niente piú che la loro.
Nelle cittá grandi, quanti ostacoli si frappongano, siccome all’acquisto della gloria, cosí a poter godere il frutto dell’acquistata, non ti sará difficile a giudicare dalle cose dette alquanto innanzi. Ora aggiungo che, quantunque nessuna fama sia piú difficile a meritare, che quella di egregio poeta o di scrittore ameno o di filosofo, alle quali tu miri principalmente, nessuna con tutto questo riesce meno fruttuosa a chi la possiede. Non ti sono ignote le querele perpetue, gli antichi e i moderni esempi, della povertá e delle sventure de’ poeti sommi. In Omero, tutto (per cosí dire) è vago e leggiadramente indefinito, siccome nella poesia, cosí nella persona; di cui la patria, la vita, ogni cosa, è come un arcano impenetrabile agli uomini. Solo, in tanta incertezza e ignoranza, si ha da una costantissima tradizione, che Omero fu povero e infelice: quasi che la fama e la memoria dei secoli non abbia voluto lasciar luogo a dubitare che la fortuna degli altri poeti eccellenti non fosse comune al principe della poesia. Ma lasciando degli altri beni, e dicendo solo dell’onore, nessuna fama nell’uso della vita suol essere meno onorevole, e meno utile a esser tenuto da piú degli altri, che sieno le specificate or ora. O che la moltitudine delle persone che le ottengono senza merito, e la stessa immensa difficoltá di meritarle, tolgano pregio e fede a tali riputazioni; o piuttosto perché quasi tutti gli uomini d’ingegno leggermente culto si credono avere essi medesimi, o potere facilmente acquistare, tanta notizia e facoltá sí di lettere amene e sí di filosofia, che non riconoscono per molto superiori a sé quelli che veramente vagliono in queste cose; o parte per l’una, parte per l’altra cagione; certo si è che l’aver nome di mediocre matematico, fisico, filologo, antiquario; di mediocre pittore, scultore, musico; di essere mezzanamente versato anche in una sola lingua antica o pellegrina; è causa di ottenere appresso al comune degli uomini, eziandio nelle cittá migliori, molta piú considerazione e stima, che non si ottiene coll’essere conosciuto e celebrato dai buoni giudici per filosofo o poeta insigne, o per uomo eccellente nell’arte del bello scrivere. Cosí le due parti piú nobili, piú faticose ad acquistare, piú straordinarie, piú stupende; le due sommitá, per cosí dire, dell’arte e della scienza umana; dico la poesia e la filosofia; sono in chi le professa, specialmente oggi, le facoltá piú neglette del mondo; posposte ancora alle arti che si esercitano principalmente colla mano, cosí per altri rispetti, come perché niuno presume né di possedere alcuna di queste non avendola procacciata, né di poterla procacciare senza studio e fatica. In fine, il poeta e il filosofo non hanno in vita altro frutto del loro ingegno, altro premio dei loro studi, se non forse una gloria nata e contenuta fra un piccolissimo numero di persone. Ed anche questa è una delle molte cose nelle quali si conviene colla poesia la filosofía, «povera» anch’essa «e nuda», come canta il Petrarca4, non solo di ogni altro bene, ma di riverenza e di onore. —
capitolo decimo.
— Non potendo nella conversazione degli uomini godere quasi alcun beneficio della tua gloria, la maggiore utilitá che ne ritrarrai, sará di rivolgerla nell’animo e di compiacertene teco stesso nel silenzio della tua solitudine, con pigliarne stimolo e conforto a nuove fatiche, e fartene fondamento a nuove speranze. Perocché la gloria degli scrittori, non solo, come tutti i beni degli uomini, riesce piú grata da lungi che da vicino, ma non è mai, si può dire, presente a chi la possiede, e non si ritrova in nessun luogo.
Dunque per ultimo ricorrerai coll’immaginativa a quello estremo rifugio e conforto degli animi grandi, che è la posteritá. Nel modo che Cicerone, ricco non di una semplice gloria, né questa volgare e tenue, ma di una moltiplice, e disusata, e quanta ad un sommo antico e romano, tra uomini romani e antichi, era conveniente che pervenisse; nondimeno si volge col desiderio alle generazioni future, dicendo, benché sotto altra persona5: «Pensi tu che io mi fossi potuto indurre a prendere e a sostenere tante fatiche il dí e la notte, in cittá e nel campo, se avessi creduto che la mia gloria non fosse per passare i termini della mia vita? Non era molto piú da eleggere un vivere ozioso e tranquillo, senza alcuna fatica, o sollecitudine? Ma l’animo mio, non so come, quasi levato alto il capo, mirava di continuo alla posteritá in modo come se egli, passato che fosse di vita, allora finalmente fosse per vivere». Il che da Cicerone si riferisce a un sentimento dell’immortalitá degli animi propri, ingenerato da natura nei petti umani. Ma la cagione vera si è che tutti i beni del mondo non prima sono acquistati, che si conoscono indegni delle cure e delle fatiche avute in procacciarli; massimamente la gloria, che fra tutti gli altri, è di maggior prezzo a comperare, e di meno uso a possedere. Ma come, secondo il detto di Simonide6,
La bella speme tutti ci nutrica
di sembianze beate;
onde ciascuno indarno si affatica;
altri l’aurora amica, altri l’etate
o la stagione aspetta;
e nullo in terra il mortal corso affretta,
cui nell’anno avvenir facili e pii
con Pluto gli altri iddíi
la mente non prometta;
cosí, di mano in mano che altri per prova è fatto certo della vanitá della gloria, la speranza, quasi cacciata e inseguita di luogo in luogo, in ultimo non avendo piú dove riposarsi in tutto lo spazio della vita, non perciò vien meno, ma passata di lá dalla stessa morte, si ferma nella posteritá. Perocché l’uomo è sempre inclinato e necessitato a sostenersi del ben futuro, cosí come egli è sempre malissimo soddisfatto del ben presente. Laonde quelli che sono desiderosi di gloria, ottenutala pure in vita, si pascono principalmente di quella che sperano possedere dopo la morte, nel modo stesso che niuno è cosí felice oggi che, disprezzando la vana felicitá presente, non si conforti col pensiero di quella, parimente vana, che egli si promette nell’avvenire. —
capitolo undecimo.
— Ma in fine, che è questo ricorrere che facciamo alla posteritá? Certo la natura dell’immaginazione umana porta che si faccia dei posteri maggior concetto e migliore che non si fa dei presenti, né dei passati eziandio; solo perché degli uomini che ancora non sono, non possiamo avere alcuna contezza, né per pratica né per fama. Ma riguardando alla ragione e non all’immaginazione, crediamo noi che in effetto quelli che verranno, abbiano a essere migliori dei presenti? Io credo piuttosto il contrario, ed ho per veridico il proverbio che il mondo invecchia peggiorando. Miglior condizione mi parrebbe quella degli uomini egregi, se potessero appellare ai passati; i quali, a dire di Cicerone7, non furono inferiori di numero a quello che saranno i posteri, e di virtú furono superiori assai. Ma certo il piú valoroso uomo di questo secolo non riceverá dagli antichi alcuna lode. Concedasi che i futuri, in quanto saranno liberi dall’emulazione, dall’invidia, dall’amore e dall’odio, non giá tra se stessi, ma verso noi, sieno per essere piú diritti estimatori delle cose nostre che non sono i contemporanei. Forse anco per gli altri rispetti saranno migliori giudici? Pensiamo noi, per dir solamente di quello che tocca agli studi, che i posteri sieno per avere un maggior numero di poeti eccellenti, di scrittori ottimi, di filosofi veri e profondi? poiché si è veduto che questi soli possono fare degna stima dei loro simili. Ovvero, che il giudizio di questi avrá maggiore efficacia nella moltitudine di allora, che non ha quello dei nostri nella presente? Crediamo che nel comune degli uomini le facoltá del cuore, dell’immaginativa, dell’intelletto, saranno maggiori che non sono oggi?
Nelle lettere amene non veggiamo noi quanti secoli sono stati di sí perverso giudizio che, disprezzata la vera eccellenza dello scrivere, dimenticati o derisi gli ottimi scrittori antichi o nuovi, hanno amato e pregiato costantemente questo o quel modo barbaro; tenendolo eziandio per solo convenevole e naturale; perché qualsivoglia consuetudine, quantunque corrotta e pessima, difficilmente si discerne dalla natura? E ciò non si trova essere avvenuto in secoli e nazioni per altro gentili e nobili? Che certezza abbiamo noi che la posteritá sia per lodar sempre quei modi dello scrivere che noi lodiamo? se pure oggi si lodano quelli che sono lodevoli veramente. Certo i giudizi e le inclinazioni degli uomini circa le bellezze dello scrivere, sono mutabilissime, e varie secondo i tempi, le nature dei luoghi e dei popoli, i costumi, gli usi, le persone. Ora a questa varietá ed incostanza è forza che soggiaccia medesimamente la gloria degli scrittori.
Anche piú varia e mutabile si è la condizione cosí della filosofia come delle altre scienze: se bene al primo aspetto pare il contrario: perché le lettere amene riguardano al bello, che pende in gran parte dalle consuetudini e dalle opinioni; le scienze al vero, ch’è immobile e non patisce cambiamento. Ma come questo vero è celato ai mortali, se non quanto i secoli ne discuoprono a poco a poco; però da una parte, sforzandosi gli uomini di conoscerlo, congetturandolo, abbracciando questa o quella apparenza in sua vece, si dividono in molte opinioni e molte sétte: onde si genera nelle scienze non piccola veritá. Da altra parte, colle nuove notizie e coi nuovi quasi barlumi del vero, che si vengono acquistando di mano in mano, crescono le scienze di continuo: per la qual cosa, e perché vi prevagliono in diversi tempi diverse opinioni, che tengono luogo di certezze, avviene che esse, poco o nulla durando in un medesimo stato, cangiano forma e qualitá di tratto in tratto. Lascio il primo punto, cioè la varietá; che forse non è di minore nocumento alla gloria dei filosofi o degli scienziati appresso ai loro posteri che appresso ai contemporanei. Ma la mutabilitá delle scienze e della filosofia, quanto pensi tu che debba nuocere a questa gloria nella posteritá? Quando per nuove scoperte fatte, o per nuove supposizioni e congetture, lo stato di una o di altra scienza sará notabilmente mutato da quello che egli è nel nostro secolo; in che stima saranno tenuti gli scritti e i pensieri di quegli uomini che oggi in essa scienza hanno maggior lode? Chi legge ora piú le opere di Galileo? Ma certo elle furono al suo tempo mirabilissime; né forse migliori, né piú degne di un intelletto sommo, né piene di maggiori trovati e di concetti piú nobili, si potevano allora scrivere in quelle materie. Nondimeno ogni mediocre fisico o matematico dell’etá presente, si trova essere, nell’una o nell’altra scienza, molto superiore a Galileo. Quanti leggono oggidí gli scritti del cancellier Bacone? chi si cura di quello del Malebranche? E la stessa opera del Locke, se i progressi della scienza, quasi fondata da lui, saranno in futuro cosí rapidi come mostrano dover essere, quanto tempo andrá per le mani degli uomini?
Veramente la stessa forza d’ingegno, la stessa industria e fatica che i filosofi e gli scienziati usano a procurare la propria gloria, coll’andare del tempo sono causa o di spegnerla o di oscurarla. Perocché dall’aumento che essi recano ciascuno alla loro scienza, e per cui vengono in grido, nascono altri aumenti, per li quali il nome e gli scritti loro vanno a poco a poco in disuso. E certo è difficile ai piú degli uomini l’ammirare e venerare in altri una scienza molto inferiore alla propria. Ora chi può dubitare che l’etá prossima non abbia a conoscere la falsitá di moltissime cose affermate oggi o credute da quelli che nel sapere sono primi, e a superare di non piccolo tratto nella notizia del vero l’etá presente? —
capitolo duodecimo.
— Forse in ultimo luogo ricercherai d’intendere il mio parere e consiglio espresso, se a te, per tuo meglio, si convenga piú di proseguire o di omettere il cammino di questa gloria, sí povera di utilitá, sí difficile e incerta non meno a ritenere che a conseguire, simile all’ombra che, quando tu l’abbi tra le mani, non puoi né sentirla, né fermarla che non si fugga. Dirò brevemente, senz’alcuna dissimulazione, il mio parere. Io stimo che cotesta tua maravigliosa acutezza e forza d’intendimento, cotesta nobiltá, caldezza e feconditá di cuore e d’immaginativa, sieno di tutte le qualitá che la sorte dispensa agli animi umani, le piú dannose e lacrimevoli a chi le riceve. Ma ricevute che sono, con difficoltá si fugge il loro danno: e da altra parte, a questi tempi, quasi l’unica utilitá che elle possono dare, si è questa gloria che talvolta se ne ritrae con applicarle alle lettere e alle dottrine. Dunque, come fanno quei poveri che, essendo per alcun accidente manchevoli o mal disposti di qualche loro membro, s’ingegnano di volgere questo loro infortunio al maggior profitto che possono, giovandosi di quello a muovere per mezzo della misericordia la liberalitá degli uomini; cosí la mia sentenza è, che tu debba industriarti di ricavare a ogni modo da coteste tue qualitá quel solo bene, quantunque piccolo e incerto, che sono atte a produrre. Comunemente elle sono avute per benefizi e doni della natura, e invidiate spesso da chi ne è privo, ai passati o ai presenti che le sortirono. Cosa non meno contraria al retto senso che se qualche uomo sano invidiasse a quei miseri che io diceva, le calamitá del loro corpo; quasi che il danno di quelle fosse da eleggere volentieri, per conto dell’infelice guadagno che partoriscono. Gli altri attendono a operare, per quanto concedono i tempi, e a godere, quanto comporta questa condizione mortale. Gli scrittori grandi, incapaci, per natura o per abito, di molti piaceri umani; privi di altri molti per volontá; non di rado negletti nel consorzio degli uomini, se non forse dai pochi che seguono i medesimi studi, hanno per destino di condurre una vita simile alla morte, e vivere, se pur l’ottengono, dopo sepolti. Ma il nostro fato, dove che egli ci tragga, è da seguire con animo forte e grande; la qual cosa è richiesta massime alla tua virtú, e di quelli che ti somigliano.
Note
- ↑ [p. 234 modifica]Pag. 84, l. terzultima: della sua gloria... Pausania, lib. 2, cap. 20, p. 157.
- ↑ [p. 234 modifica]Pag. 86, l. 21: del Cortegiano... Lib. 1, ed. di Milano 1803, vol. 1, p. 79.
- ↑ [p. 230 modifica]
- ↑ [p. 234 modifica]Pag. 108, l. 8: come canta il Petrarca... Povera e nuda vai, filosofia. Petrarca, parte 4, son. 1. La gola ’l sonno.
- ↑ [p. 234 modifica]Pag. 108, l. 8: come canta il Petrarca... Povera e nuda vai, filosofia. Petrarca, parte 4, son. 1. La gola ’l sonno.
- ↑ [p. 234 modifica]ibid. l. 28: benché sotto altra persona... De Senect., cap. 23.
- ↑ [p. 234 modifica]Pag. 110, l. 9: a dire di Cicerone... Somn. Scip., cap. 7.