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il parini - capitolo xi 109


Il che da Cicerone si riferisce a un sentimento dell’immortalitá degli animi propri, ingenerato da natura nei petti umani. Ma la cagione vera si è che tutti i beni del mondo non prima sono acquistati, che si conoscono indegni delle cure e delle fatiche avute in procacciarli; massimamente la gloria, che fra tutti gli altri, è di maggior prezzo a comperare, e di meno uso a possedere. Ma come, secondo il detto di Simonide36,

La bella speme tutti ci nutrica
di sembianze beate;
onde ciascuno indarno si affatica;
altri l’aurora amica, altri l’etate
o la stagione aspetta;
e nullo in terra il mortal corso affretta,
cui nell’anno avvenir facili e pii
con Pluto gli altri iddíi
la mente non prometta;

cosí, di mano in mano che altri per prova è fatto certo della vanitá della gloria, la speranza, quasi cacciata e inseguita di luogo in luogo, in ultimo non avendo piú dove riposarsi in tutto lo spazio della vita, non perciò vien meno, ma passata di lá dalla stessa morte, si ferma nella posteritá. Perocché l’uomo è sempre inclinato e necessitato a sostenersi del ben futuro, cosí come egli è sempre malissimo soddisfatto del ben presente. Laonde quelli che sono desiderosi di gloria, ottenutala pure in vita, si pascono principalmente di quella che sperano possedere dopo la morte, nel modo stesso che niuno è cosí felice oggi che, disprezzando la vana felicitá presente, non si conforti col pensiero di quella, parimente vana, che egli si promette nell’avvenire. —

capitolo undecimo.

— Ma in fine, che è questo ricorrere che facciamo alla posteritá? Certo la natura dell’immaginazione umana porta che si faccia dei posteri maggior concetto e migliore che non si fa