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V.
Più tardi, ricordando il romanzo del suo primo anno di matrimonio, Regina lo divideva in tanti piccoli capitoli, e fra gli altri dava molta importanza al capitolo della sua prima visita alla principessa Makuline.
Era una sera ai primi di gennaio, velata e tiepida. In piazza dell’Indipendenza Regina e Arduina si fermarono un momento per aspettare Massimo, che doveva raggiungerle.
Antonio non le accompagnava, perchè in quelle sere rimaneva al Ministero fin quasi alle nove, compilando dei lavori straordinari.
La piazza era deserta, illuminata da un chiarore giallognolo di luna velata: gli alberi nudi svanivano nell’aria un po’ vaporosa, e le fiammelle gialle e immobili dei fanali parevano lontane lontane. Regina, ferma nel mezzo della piazza, provò una impressione dolce, di silenzio, di solitudine, di immensità; per la prima volta dacchè era a Roma trovò da ammirare qualche cosa.
— Andiamo, — disse Massimo arrivando di corsa, e agitando un paio di guanti nuovi. — Tre e cinquanta! Se stasera madame non mi dà qualche speranza, guai a lei!
— Tu saresti capace di sposarla! — disse Regina con un gesto di ripugnanza.
— Lo volesse! — gridò Arduina.
— Sta zitta! Lo volessi io! — disse il giovane. — Non sono da vendere, io!
Si fermarono davanti al piccolo cancello del giardino della principessa, e Massimo disse:
— Qui entreranno gli amanti di madame!
Poi suonarono alla porta del villino, o dei villini, giacchè erano due, piccoli ma eleganti, uniti da una terrazza aerea, una specie di giardino pensile.
— Sembran due fratellini che si dieno la mano, — disse Regina, sospirando.
Un domestico in frak aperse le porte lucenti, e Regina vide due lupi enormi, che parevan vivi, in agguato sul tappeto rosso dell’ingresso. Le sale erano eccessivamente riscaldate: dai folti tappeti, dalle pelli d’orso stese davanti ai divani larghi e bassi, coperti di pellicce, esalava come un caldo alito di belva addormentata al sole; qualche cosa di selvaggio e di voluttuoso che faceva male.
Da lunghi vasi di metallo sorgevano rami di piante agresti punteggiati di bacche rosse.
La principessa, vestita d’un ricco abito di velluto nero goffamente guarnito di merletti bianchi, discorreva con due vecchie signore, raccontando in francese un’avventura accaduta a sua zia, moglie dell’amico di George Sand.
— In quel tempo mia zia era la donna più elegante di Parigi; George descrisse una sua toeletta nel Marquis de Villemer...
Oltre le due vecchie signore, un vecchio signore sbarbato e calvo, col cranio lucente come una scodella di porcellana rosea, ascoltava pacificamente sprofondato in una poltrona.
Marianna, in abito rosa scollato, corse incontro ai nuovi venuti coi suoi rapidi passi di topo, e guardò Regina: aveva gli occhi lustri.
— Avete un buonissimo ciero, madame: niente di nuovo?
— Cosa vuole che ci sia di nuovo?
Marianna le toccò il fianco con un dito e si mise a ridere: Regina ebbe l’impressione che il topo, quella sera, avesse bevuto, e sentì rinascere il misterioso disgusto fisico che la principessa e la ragazza le destavano. Sul principio madame badò poco ai Venutelli. Arrivava altra gente. Quasi tutte vecchie signore straniere, con abiti d’una freschezza e di un’eleganza molto discutibili. Arduina trovò subito da discorrere con un signore dai grandi occhi rotondi e il naso rincagnato su un muso enorme: Massimo era scomparso, e Marianna, ogni tanto, appariva e scompariva, volteggiante, sgusciante, stridente. Regina si trovò fra una grossa signora la quale le disse qualche parola senza guardarla, e il vecchio signore calvo che non apriva bocca.
Ben presto ella si annoiò: si vide trascurata, dimenticata, fra tutto quel vecchiume pelato e grasso, fra tutti quei vecchi abiti di seta che non frusciavano più. Che noia! Era questo il mondo dei ricchi, il regno incantato che la faceva spasimare?
— Regina non ci torna più, qui! — pensò.
A un tratto vide Arduina che le sorrideva di lontano, e la chiamava con un cenno della testa; ma in quel momento la principessa le si avvicinò e le porse con un gesto familiare e affettuoso la piccola mano rifulgente.
— Vuol venire a prendere una tazza di thè?
Regina balzò in piedi, commossa per tanta attenzione.
— Come sta suo marito? — le chiese la principessa, passando con lei nel salotto da pranzo.
— Bene, grazie, — disse piano Regina arrossendo. — Non è venuto perchè...
— Scusi?...
Dopo la principessa venivano tutti i vecchi signori e le vecchie signore, che si disposero intorno alla sala, dov’era apparecchiato un sontuoso buffet.
Marianna cominciò a correre di qua e di là distribuendo il thè.
— Volete aiutarmi? — chiese passando davanti a Regina. — Sembrate una signorina; venite con me.
Regina s’avvicinò al tavolo, ma non sapeva come fare: rovesciò una bottiglia e arrossì fino alle lagrime.
— Ecco, — le disse Marianna, mettendole un piattino fra le mani, — portate questo dolce a quel signore che sembra un cane.
— Quale? parli piano!
— Quello che sta vicino a vostra cognata. È uno scrittore...
Regina attraversò la sala timidamente, col piattino fra le mani, immaginandosi che tutti la guardassero, ma felice d’andar ad offrire una fetta di torta ad uno scrittore.
— Oh, signorina!... — esclamò questo, inchinandosi, quando Regina gli offerse il piattino.
— Signore! — disse Arduina. — È mia cognata!
— Complimenti e condoglianze! — disse l’altro con insolenza. — Fra tutti questi secoli (girò attorno i grandi occhi rotondi) ella sembra una bambina.
— Perchè condoglianze? — chiese Arduina.
— Perchè è sua cognata!
Regina s’accorse subito che lo scrittore era molto insolente, e giudicò opportuno tornare verso il tavolo. Marianna era lontana; Regina prese timidamente un altro piattino e lo portò a Massimo che se ne stava vicino alla porta, anch’egli dimenticato e trascurato.
— Oh, fai da padrona? — egli disse a Regina. — Portami anche un bicchierino di quel vino, vedi, di quella bottiglia lunga, dal collo dorato; quella che è sull’angolo della tavola. Va. Bevine anche te.
Regina andò, ma trovò la principessa che versava appunto il vino della bottiglia lunga dal collo dorato.
— Massimo vorrebbe un bicchierino di quello, — mormorò ingenuamente.
— Scusi?...
La principessa, meno male, non intese.
Regina prese un calice ricolmo e lo portò al cognato; un profumo squisito esalava dal calice come da un fiore.
— È Porto, sai! — disse Massimo, con vera riconoscenza. — Grazie, cognatina: tu mi hai salvato. È il vino degli dèi moderni.
— Sei allegro stasera!
— Sta zitta! Mi secco. Andiamocene via: piantiamo qui Arduina. Chi è quel muso di cane che le sta vicino?
— È uno scrittore.
— Non lo conosco, — disse l’altro, mangiando e bevendo. — Quanta gentaglia! Tutta gentaglia!
— È vero! — disse Regina. — Ci siamo anche noi!
— Noi c’infischiamo di loro! Noi siamo giovani e possiamo diventar ricchi: loro son ricchi, ma non potranno mai ridiventar giovani!
— Ma guarda! Forse hai ragione!
— Portami un altro bicchierino di Porto, allora! — disse Massimo supplichevole.
— Oh, questo poi no!
Le vecchie signore e i vecchi signori, eccitati dolcemente dal thè e dai vini, alzavano la voce, si muovevano, si aggruppavano e si sparpagliavano qua e là.
Nella confusione Regina si trovò ancora vicina alla principessa.
— Ma lei non ha preso niente, intanto! — disse madame — venga con me: un bicchierino di Porto? Come sta suo marito?
— E due! — pensò Regina; poi gridò: — Benissimo! Grazie.
— Hanno poi cambiato casa? Come si trova lei? Ecco, beva: un dolce? Oggi la torta è buona. Oh, monsieur Massimo, vuole ancora una tazza di thè? No? Un bicchierino di Porto? Mi dica: anche lei è al Ministero del Tesoro?
— No; alla Guerra, madame.
Appena vide madame discorrere coi Venutelli, Marianna sporse il visino inquieto dietro la spalla di Regina, e ancora una volta parve a questa che la ragazza sorvegliasse un po’ troppo la principessa.
— Ho un affare fastidioso, — disse madame lentamente: — della rendita esigibile a Milano, che vorrei riscuotere a Roma: mi dicono occorra una domanda al Ministero del Tesoro: bisogna che monsieur Antonio passi domani da me.
— Glielo dirò subito, — esclamò Regina.
Marianna disse qualche cosa in russo, rivolgendosi a madame con aria quasi di comando; la principessa risposte con la sua fredda calma abituale, ma subito si allontanò.
— Ora devo compensarvi dell’aiuto che mi avete dato, — disse Marianna a Regina, versandole un bicchierino di liquore bianco. — Bevete. — No.
— È vodka... Le signore russe si ubbriacano con questo liquore. Vedete come bevo io, — ella continuò, sollevando il piccolo calice e guardandovi dentro. — Oh, mi piace tanto bere: e quando ho bevuto mi accade il contrario di tutti gli altri: non dico più la verità.
— Non mi pare, — osservò Massimo. — È questo il vodka? È cattivo.
— Oh, oggi non ho bevuto! — disse Marianna.
Rise e bevette: poi avvicinò il calice, alle labbra di Regina e la costrinse a bere il liquore.
— Ora andiamo a disturbare l’idillio del cane e del gatto, — disse, avviandosi al salotto attiguo, dove Arduina e lo scrittore chiacchieravano eternamente, soli, seduti in un angolo, sotto una pianta dalle bacche rosse. Regina e Marianna sedettero in faccia a loro, su un divano di pelliccia, e Massimo rimase in piedi.
Nell’altro salotto una vecchia signora suonava: «Se a te, o cara...».
Regina provò una dolcezza inesprimibile: la musica dolce e appassionata, il calore del divano, la cui pelliccia tiepida destava il desiderio di accarezzarla come quella di un gatto morbido, il profumo indefinibile che gravava nell’aria e sopratutto il vodka che le pulsava alla gola e alle ginocchia, le davano un principio d’ebbrezza voluttuosa.
Anche Arduina era eccitata: parlava ad alta voce, con lo stesso tono che Regina aveva notato nella cugina Claretta quando questa parlava in presenza di uomini, e pareva non riconoscesse più i cognati. — Che cosa ha quella sciocca? — si domandò.
Le sembrò che Marianna indovinasse il suo pensiero perchè le disse piano:
— Filano...
Regina rise, con un riso vago, incosciente; ma subito dopo inorridì.
— È possibile? — mormorò.
— Tutto è possibile, — disse il topo. — Voi siete tanto ingenua ancora! Ma vedrete, col tempo, che tutto è possibile!
*
L’indomani Antonio disse a Regina che la principessa, presso la quale s’era recato per l’affare del trasferimento della rendita, li invitava a pranzo per la domenica seguente.
Regina accettò a malincuore: e dopo quella, tutte le volte che madame Makuline si degnò invitarla.
I pranzi erano magnifici, serviti da camerieri solenni; ma Regina ci si annoiava e al ritorno diventava d’un umore terribile: e Antonio diceva che i camerieri gli davano una soggezione tale da guastargli poi la digestione. Gli invitati di madame erano sempre vecchi signori stranieri e mediocri poeti e sconosciuti artisti italiani: la conversazione era in apparenza interessante, poichè si parlava di letteratura, di arte, di teatri, di attualità palpitanti; ma Regina osservava che tutti esprimevano idee comuni, idee vecchie, niente affatto corrispondenti alle idee che a lei scintillavano nella mente. E si annoiava; ma tornata all’ambiente di casa Venutelli pensava con rancore ai salotti della principessa, ove i camerieri passavano e servivano muti e automatici come macchine; ove tutto era bellezza, mollezza, splendore, e la luce stessa s’accendeva quasi per incanto.
Un giorno Antonio la condusse da un tappezziere, ed ella scelse i mobili per l’appartamentino di via Massimo d’Azeglio.
— Domenica andremo nell’appartamento e stabiliremo come collocare la roba, — le disse Antonio, ed ella cominciò a pensare alla fatica ed alle seccature che l’aspettavano.
— Pensare che avrò da combattere con la serva! — diceva a se stessa con terrore.
La domenica mattina si recarono nell’appartamento. Era agli ultimi di gennaio, una mattina pura e dolce; si sentiva già la primavera.
Regina salì di corsa i cento e più gradini, e quando arrivò, ansante e sudata, davanti alla porta del piccolo appartamento, si divertì a suonare il campanello.
— Drin, drin, drin!... Chi ci sta? Il signor Nessuno. Che piacere andar a stare col signor Nessuno!
Antonio aprì con una certa aria di mistero ed entrò per il primo: appena dentro si volse e cominciò a fare dei grandi inchini davanti a Regina.
Ella si guardò attorno meravigliata, poi disse con lievissima ironia:
— Io credevo che queste cose accadessero soltanto nei romanzi!
L’appartamento era completamente all’ordine: le cortine velavano le finestre socchiuse, il letto matrimoniale biancheggiava fra due tappeti dove due cani gialli correvano con due pernici in bocca. Anche nella cucina non mancava niente,
Antonio s’affacciò alla finestra lasciando a Regina il tempo di rimettersi dalla sorpresa: ella si sdegnò contro sè stessa perchè s’accorse di non provare tutta l’emozione che lo sposo doveva giustamente pretendere da lei, ma capì quello che doveva fare. Pensò:
— Devo abbracciarlo e dirgli: come sei buono!
E lo abbracciò e gli disse:
— Coma sei buono!
Vide i begli occhi di lui riempirsi d’una gioia infantile, e allora s’intenerì davvero.
— Antonio! — gli disse. — Sei davvero buono, e io sono tanto cattiva! Ma d’ora in avanti sarò buona, davvero davvero!
E per otto o quindici giorni fu davvero buona, docile ed anche allegra. Ebbe un gran da fare nel mettere la roba nei cassetti e i vestiti negli armadi; nel rimuovere qualche mobile e qualche quadro; non aveva mai lavorato tanto in vita sua! La prima notte che dormì nel nuovo letto morbido, fra le lenzuola fini del suo corredo, le parve di essersi tolta da un incubo e di cominciare una vita nuova. Provava una dolcezza da convalescente.
Veniva il bel tempo: il cielo di Roma era alto e puro, nell’aria passavano fragranze primaverili: i rumori della città arrivavano all’appartamentino come il fragore d’una cascata lontana, che dava dolcezze sonnolente. Nel giardinetto di sotto, rigato di sole e d’ombra, una piccola fontana gettava un uncino d’acqua in una minuscola vasca virgolata di pesciolini rossi; fiorivano le roselline d’ogni mese; due gattini bianchi si rincorrevano tra i viali da burla; pareva che il giardinetto fosse stato fatto apposta per le due graziose bestioline.
Regina passò varî giorni felici. Riposta la roba nei cassetti e negli armadi, non ebbe più da far nulla. La domestica, il cui pensiero le aveva destato tanto orrore, accudiva a tutto, era silenziosa, educata, ed anche elegante. Costava un tantino, ma lo meritava.
Regina si seccava alquanto solo quando doveva pensare a far la lista della spesa, che consegnava ogni sera alla ragazza; ma poi si abituò anche a questo e ricominciò ad annoiarsi.
Stava lunghi quarti d’ora davanti allo specchio, lavandosi, pettinandosi in varî modi, raschiandosi i denti, raschiandosi e spazzolandosi le unghie; si guardava di profilo, da una parte e dall’altra, s’incipriava, cominciava a usare la crema venus, si stringeva molto nel busto. Ma poi, o nello stesso tempo, pensava:
— Sei sciocca, Regina! Perchè fai tutto questo? A che serve? — e si disgustava forte contro sè stessa.
Poche persone venivano a trovarla; e fra le altre la zia Clara e Claretta: la zia Clara, invidiosissima delle conoscenze nobili di Arduina, raccontava una infinità di ricevimenti e di pranzi fantastici ai quali aveva preso parte.
— E non faccio per dire, Claretta...
Claretta si guardava in tutti gli specchi, frugava nella toeletta di Regina, passava come un vento scompigliando tutto l’appartamentino: Regina odiava la madre, la figlia e tutta la parentela, compresa Arduina che tuttavia la conduceva di qua e di là presso varie contesse e marchese, dove c’erano altre marchese e altre contesse.
— È spaventevole il numero delle contesse che s’incontrano a Roma! — diceva Regina ad Antonio.
Ella un po’ si divertiva, un, po’ si annoiava; non si offendeva se quelle signore non le restituivano la visita; e non si meravigliava più delle cose orrende che qua e là, in quasi tutti i salotti, si dicevano sul conto delle persone più note del mondo letterario e del mondo politico, ed anche del mondo privato!
— Tutto è possibile, — diceva Marianna; — e specialmente è possibile che le cose che si dicono siano calunnie.
*
Al cominciare della primavera Regina ebbe una recrudescenza di nostalgia e di scontento. Nell’appartamentino cominciava a far caldo. Ella stava lunghe ore alla finestra, con l’inquietudine nervosa dell’uccello non ancora abituato alla gabbia. Dal «giardinetto dei gattini» saliva un odore di erba umida che le dava spasimi di nostalgia. Qualche volta ella guardava giù con l’occhialetto, e vedeva un giovane, basso, calvo, pallido e paffuto, vestito con estrema eleganza, passeggiare intorno alla vasca verdolina, sulla quale la fontana piangeva di noia. Anche il giovine s’annoiava. Regina ricordava d’aver veduto quel signore, dal viso gonfio e giallo come un’albicocca non ancora ben matura, la sera di Santo Stefano, in un palco del Costanzi, e di averlo avvolto nel suo odio incendiario. Ora anch’egli s’annoiava. S’annoiava perchè scendeva in giardino, o scendeva in giardino perchè s’annoiava? Talvolta si fermava e tormentava i pesciolini della vasca, che pareva avessero un pazzo terrore del suo bastoncino; poi sbadigliava e, con la stessa distrazione crudele con cui perseguitava i pesciolini, batteva il bastone sui fiori, sulle glicine che impallidivano sui muri, sulle roselline, sulle margherite innocenti.
— Egli ha voglia di percuotere qualcuno, — pensava Regina, e s’accorgeva che anch’ella avrebbe volentieri tormentato qualcosa o qualcuno.
Nei giorni di pioggia, — frequenti e noiosissimi, — ella diventava triste fino all’ipocondria: un solo pensiero la confortava: il ritorno al suo paese. Contava i giorni e le ore; ricordi strani, rimembranze infantili, immagini lontane, le passavano nella mente come nuvole in un cielo triste. Piccoli particolari della sua vita passata le destavano tenerezze struggenti: ricordava nitidamente tutte le più umili persone del suo paese, tutti i cantucci del bosco e della sua casa; e con strana insistenza certe piccole cose che, vedendole nella realtà, non la avevano mai tanto colpita. Ricordava, per esempio, una vecchia ruota di pietra, d’un molino distrutto, abbandonata sul pendìo dell’argine: il ricordo della ruota grigia, che pareva riposasse dal suo lungo lavoro, in riva al fiume col quale aveva per anni ed anni lottato, commuoveva Regina fino alle lagrime.
Spesso ella cercava di analizzare la sua nostalgia, domandandosi perchè ricordava la ruota di pietra, il vecchio scoparo cieco, il portiner1 quasi centenario dalle mani enormi pelose, le bimbe ritte presso il fosso verde intente a far treccioline di paglia, le chioccioline striscianti sulle foglie dei platani.
— Sono una sciocca! — pensava; ma mentre pensava così, sentiva improvvisamente un impeto di gioia all’idea di poter presto rivedere la ruota di pietra, il portiner, le bimbe, il fosso, le chioccioline.
E fuori pioveva, pioveva: Roma affogava nel fango e nella tristezza, e Regina sentiva desiderî di fanciullo feroce: che su Roma cadesse in eterno una pioggia di fango, costringendo la gente ad andarsene, ad emigrare! Ella tornerebbe lassù, verso i grandi orizzonti, verso le acque pure del fiume natìo; ella rinascerebbe, ritornerebbe ad essere Regina, uccello libero e vivo.
Antonio usciva e rientrava e la trovava sempre assorta nel suo sopore nostalgico, indifferente a tutto ciò che la circondava.
— Usciamo, Regina.
— No.
— Usciamo, che ti fa bene.
— Io sto benissimo.
— Non è vero. Sei sempre cupa. E tu non mi vuoi bene, ecco!
— Sì, e non ti voglio bene! Che colpa ne ho io?
Qualche volta, infatti, le pareva di avvolgere anche Antonio nell’odio collettivo ch’ella nutriva contro tutto ciò che rappresentava la città. In quei momenti egli le appariva come un personaggio secondario, sbiadito e privo di vita, fra tutti gli altri personaggi inutili che svanivano nel quadro velato di pioggia, ove ella sola, col suo egoismo e il suo orgoglio, giganteggiava.
*
Ma la primavera calda e luminosa arrivò davvero: una torma d’uomini, di donne, di fanciulli carichi di fiori, si sparse per le vie, nei cui sfondi gli occhi miopi di Regina vedevano dei laghi metallici.
Gruppi di donne, ai cui volti la luminosità dell’aria e gli abiti chiari davano una freschezza primaverile, scendevano per via Nazionale, per il Corso, per via del Tritone, nelle sere fragranti inondate di pulviscoli d’oro; passavano carrozze ricolme di rose; anche le automobili rosse volavano urlando come giovani mostri ebbri di luce, inghirlandati di fiori.
Regina andava, andava, al braccio di Antonio, o raramente sola; sola fra la turba, sola nell’onda di tutte quelle donne liete, delle quali invidiava e disprezzava l’incoscienza; fra i crocchi ridenti di amiche, di sorelle, di compagne, alle quali per niente al mondo, nonostante il senso amaro di solitudine che la opprimeva, si sarebbe accompagnata.
Un giorno, mentre risaliva per piazza Termini, ella vide Arduina col famoso abito di seta nera che le formava sulle spalle rughe di vecchiaia e di tristezza. Regina cercò di scansare la cognata, ma non fece a tempo.
— Son venuta da te; non sei mai in casa, non ti lasci mai vedere! — disse Arduiua. — Che hai? Che fai? Dove eri? Anche la mamma si lamenta... Perchè non fai un figlio?
— Perchè non lo fai tu? Dove vai? Come sei elegante! — disse Regina, beffarda.
— Vado al Grand Hôtel, a trovare una ricchissima miss. Vieni? Merita, sai!
Regina andò: tanto, non sapeva cosa fare.
Il tramonto tingeva d’un rosso aranciato le Terme e gli alberi dei viali: dal giardino veniva un gridìo di bimbi, un cinguettìo d’innumerevoli uccelli che pareva un fruscio d’acque.
E sopra tutte le cose, sopra la vastità chiara della piazza, sopra lo zampillo della fontana che lanciavasi vitreo, poi luminoso, e arrovesciavasi con labbra periate, simile a un vaso enorme di Murano, la scritta d’oro del Grand Hôtel scintillava sulla fronte dell’albergo, a guisa di una epigrafe sull’altezza d’un tempio.
Davanti alle colonne dell’entrata, e nell’atrio, c’era una confusione di carrozze, di servi dal gilè colorato, di signori in cilindro e di signore eleganti. Una vettura di corte, con due cavalli neri lucenti, dominava fra le altre carrozze.
— Ci deve esser la Regina, — disse Arduina. — Aspettiamo un po’.
— Allora addio, — rispose Regina, accennando d’andarsene. — Dove c’è una Regina non può esserci l’altra.
— Ma che presunzione, Dio mio! — gridò l’altra, comicamente disperata. — E vieni dunque! La trascinò con sè, attraverso le vetture e la folla elegante che animava l’atrio, e domandò umilmente a un cameriere se c’era miss Harris.
Il cameriere si chinò un po’ e ascoltò, senza guardare le due signore.
— Miss Harris? Credo: s’accomodi, — rispose distratto, guardando lontano.
Regina ricordò la soggezione che destavano i camerieri di madame Makuline; questo qui non destava solo soggezione, ma anche una specie di timore.
Arduina attirò Regina nella serra, e cominciò a guardarsi attorno con rispettosa ammirazione, mentre la giovine signora taceva, vinta dal sogno che le si svolgeva davanti. Pareva una festa. Una luce strana, d’oro rossastro, calava dalle volte di cristallo; e sui tappeti, fra i palmizi, muovevasi una fantasmagoria di signore che parevano fate, vestite di raso, con lunghe code fruscianti, le mani, le orecchie, il collo brillanti di perle. Un sussurrìo di voci straniere; scoppi di riso confusi coi tintinnii delle tazze di porcellana e d’argento; un palazzo di cristallo, un mondo di gioia, di creature fatate che dimenticavano la realtà della vita, nell’incantesimo di boschetti di palme rosee in una luce di sogno.
— La realtà della vita? — pensò Regina. — Ma non è questa la realtà della vita? È il nostro che è un sogno brutto, la vita di noi piccoli...
Una splendida creatura, con un lungo abito di raso giallo, attraversò la serra, — pare una cometa! — mormorò Regina.
— È miss Harris, — disse Arduina. — Ora verrà. Regina non aveva mai immaginato potessero esistere creature così belle e luminose; guardò miss Harris, che s’era fermata in fondo alla serra con due signore vestite di nero, e i suoi occhi diventarono selvaggi.
In quel momento, dal fondo della serra, salì una musica lenta e voluttuosa che coprì le voci, le risate, i tintinnii vibranti delle tazze: miss Harris s’avvicinò. Regina provava una sensazione di dolore quasi fisico, una tristezza ardente: quella luce rossa di tramonto, quei palmizi che davano l’illusione di un paesaggio orientale, il caldo, i profumi, la musica, la figura abbagliante della ricca straniera, le davano una specie di nostalgia, il ricordo atavico d’un mondo meraviglioso, ove tutto era piacere, e dal quale ella era stata esiliata.
Ah, in quel momento ella comprese la natura del male, come ella lo chiamava, che le rodeva le viscere. Ah, questo male non era il rimpianto e la nostalgia della patria e del passato: era la morte dei sogni che avevano riempito il passato, e avevano profumato l’aria da lei respirata, i luoghi dove aveva vissuto, i sentieri che aveva attraversato: sogni dei quali ella non aveva colpa, perchè nati con lei, trasfusi nel suo sangue, dal sangue della sua razza dominatrice.
Miss Harris s’avvicinò all’angolo ove sedevano le due piccole borghesi, trascinandosi dietro la lunga coda luminosa con una eleganza svogliata che aveva qualche cosa di felino. Le due signore straniere l’accompagnavano e parlavano con lei un francese incomprensibile.
Bisognò che Arduina s’alzasse e sorridesse molto umilmente perchè miss Harris la riconoscesse, le stringesse la mano e le parlasse con una affabilità schiacciante. Poi la bella straniera sedette avvolgendosi la coda dell’abito attorno alle gambe, simile a un gatto in riposo, e parlò. Era stanca, annojata: aveva fatto una corsa in automobile, era stata ad una udienza particolare del pontefice, e fra mezz’ora doveva recarsi all’ultimo ricevimento d’una gran dama. Non diede uno sguardo a Regina, e dopo un momento parve dimenticarsi d’Arduina, e un poco anche delle altre due signore: parlava quasi fra sè, tutta compresa nella sua bellezza e nel suo splendore, come una stella che scintilla per sè stessa solamente. Da vicino e da lontano tutti la guardavano.
Regina tremava d’umiliazione; si sentiva scomparire entro il suo modesto abito corto, aveva vergogna della sua cravatta; e quando miss le offrì una tazza di thè ella la respinse con un gesto nemico.
Nell’uscire dal Grand Hôtel ella provava nuovamente quel senso d’odio puerile che l’aveva assalita al Costanzi la sera di Santo Stefano.
— Io non so cosa tu vieni a far qui! — disse alla cognata. — Perchè sei così vile? Perchè ascoltavi così servilmente, mentre quella là neanche s’accorgeva di te?
— Ma mi pare che anche tu ascoltavi molto umilmente!
— Io? Io vi avrei prese e strozzate tutte. Dio, come siete sciocche, le donne!
— Ma... Regina! — disse l’altra sbalordita. — Io non ti capisco!
— Lo so! Che cosa puoi capire? Che cosa vai tu a fare in certi posti? Che bisogno hai tu di quella gente? Non capisci che loro sono i padroni del mondo, e noi siamo gli schiavi?
— Ma noi siamo intelligenti! Noi siamo i padroni dell’avvenire. Non senti tu il rumore dei nostri zoccoli che salgono, e delle loro scarpine che scendono?
— Noi! Tu? — disse Regina, puntandole il dito in viso, con supremo disprezzo.
— Bada, una carrozza! — gridò l’altra, tirandola indietro.
— Vedi? ci schiacciano! Che cosa è l’intelligenza? Esiste l’intelligenza? Che cosa è davanti a una coda di raso?
— Ah, tu invidii le code di raso? — disse l’altra, ridendo, senza alcuna malignità.
— E va! Sei una sciocca! — gridò Regina, arrabbiata.
— Grazie! — rispose l’altra, senza offendersi.
Rientrata a casa. Regina si buttò sull’ottomana dell’anticamera e rimase là quasi un’ora battendo il piede a tempo col palpito ritmico della pendola, che pareva il cuore del piccolo appartamento.
Ella sentiva un’onda di dolore umiliante coprirle il cuore. Ah, anche Arduina, la scema, aveva indovinato il suo male!
La luce del giorno moriva nella camera attigua, mentre nella saletta da pranzo, che dava sul cortile, gravava già un’ombra livida di crepuscolo. Dagli usci spalancati scorreva una fascia di luce tenue sulla corsia dell’anticamera, nei cui angoli s’addensava sempre più la penombra. E Regina pensava: — La penombra! Che orribile cosa la penombra! Ma perchè orribile? No; è qualcosa di peggio: è nojosa, è schiacciante. Meglio mille volte l’ombra, l’oscurità completa. Nell’ombra il dolore, la disperazione, la ribellione: ancora tutto ciò è vita; mentre nella penombra tutto è noia, miseria, agonia. Meglio essere mendicanti che piccoli borghesi: il mendicante può urlare, può sputare in viso ai felici della terra: il piccolo borghese tace; egli è un’anima morta, egli non può, non deve parlare. Che cosa vuole? Non ha già il tanto che un giorno avranno tutti? La sua quota è già fatta. Se egli chiede di più lo trattano da ambizioso, da egoista, da invidioso. Anche gli scemi lo trattano così!
— Le code di raso! I vestiboli verdi e ardenti come giardini allagati di sole, le automobili simili a draghi volanti! E i giardini, i bei giardini «intraveduti dai cancelli», i villini rosei nascosti sotto i tre pini, come sotto grandi ombrelli di merletto verde! Tutto ciò dovrebbe essere la realtà d’un giorno, della dimane che ci hanno promesso e che non arriva ancora! Invece tutto ciò sparirà; il mondo è piccolo e non può essere diviso che in due parti: il giorno e la notte, la luce e l’ombra. Un giorno, invece, tutto sarà penombra: tutti saranno come noi, tutti vivranno in piccoli appartamenti bui, con scale interminabili, e le strade saranno tutte polverose, percorse da tram puzzolenti, da torme di donnine borghesi che scenderanno a piedi, vestite con falsa eleganza, con gioielli di latta, con ventagli di carta, liete d’una commiserevole letizia. Nell’aria passerà la fragranza di violette immonde, portate da mani sudicie: tut-to sarà noja, miseria; i mendicanti non avranno raggiunto il sogno che li rendeva felici; coloro che furono figli di ricchi vivranno di nostalgia, ricordando il sogno che fu la loro realtà. A che vivere allora? Perchè vivo io ora?
Ma ad un tratto ricordò una, due, tre figure eguali, tre figure di vecchio, in un luogo melanconico, che sorridevano e si guardavano con pietà beffarda, come tre amici che si capiscono senza parlare. — Lavorarci Lavorare! Ecco il segreto della vita! — La voce del vecchio senatore risuonava ancora entro il cuore di Regina. Ella aveva saputo una storia: la moglie del senatore, una donna bella, giovine, brillante, si era suicidata e nessuno mai ne aveva conosciuto il motivo.
— Lavorare! Ecco il segreto. Chissà che il vecchio senatore, parlando delle donne lavoratrici, non pensasse a sua moglie, la quale non aveva mai lavorato? Lavorare! Ecco il segreto del mondo avvenire! Tutti saranno felici perchè tutti lavoreranno. No, io non rappresento il mondo avvenire come stupidamente pretendo: io rappresento ancora il mondo presente, presentissimo! Io sono il parassita per eccellenza; io vivo sul lavoro di mio marito, e sfrutto anche la sua anima, perchè egli mi ama, — troppo mi ama! — ed io non lo rendo felice. Perchè vivo io? A che servo? A che sono utile? Non sono buona neanche a far dei figli, e... non ne desidero affatto! Non saprei allevarli. E poi, perchè farli nascere? Non era meglio ch’io non fossi nata? A che serve la vita?
Ah, le pareva di avere anche l’anima avvolta dall’ombra che le si addensava intorno. Ma intanto pensava alle sere luminose in riva al suo gran fiume, e rivedeva l’aperto orizzonte, il cielo colorato di viole e di gerani, gli sfondi infiniti delle acque, dei boschi, della pianura.
Ella passava lungo l’argine, riflettendo negli occhi il tenero splendore dell’acqua di un lilla roseo, del cielo che ardeva dietro i boschi, dell’erba tiepida che copriva gli argini. I piccoli salici giovani si curvavano a bere l’acqua luminosa e pareva bevessero, bevessero, arsi da una sete inestinguibile. Ella passava: e come i giovani salici beveva, beveva nel fiume luminoso dei sogni.
Che orizzonti senza confine, che profondità d’acque, che teneri gridi lontani, condotti dalle onde, smorzati dalla sera! Erano i gridi degli uccelli del bosco? Erano i gridi, le voci di un mondo lontano? Era il picchio che batteva sul pioppo? Oh, no; era il piede di lei che batteva il pavimento, era la pendola che palpitava indifferente nella penombra del salottino, era il canarino recluso che gemeva di nostalgia nella finestra sopra il lurido abisso del cortile...
Regina balzò in piedi con un movimento ribelle e disperato, soffocata da un senso di rabbia. Pensava: — Appena torna glielo dico, glielo grido: perchè mi hai tolto di là? Perchè mi hai portato qui? Che cosa faccio io qui? Io me ne vado, io voglio aria, voglio luce. Tu non potevi darmi neanche aria, neanche luce, e non me lo dicevi! Che ne sapevo io che il mondo fosse così? Porta via tutti questi gingilli, questi stracci, io non li voglio; io voglio solo aria, aria, aria! Io soffoco, vi odio, vi odio tutti, io maledico la città, gli uomini che hanno fabbricato, il destino che ci toglie persino la vista del cielo...
Entrò nella camera, e andò automaticamente a guardarsi nello specchio: all’ultimo barlume di luce vide i suoi bei capelli lucenti, i denti lucenti, le unghie lucenti. La sua pelle finissima, plasmata d’un lievissimo strato di crema venus, aveva quasi la stessa delicatezza diafana della pelle di miss Harris. La sua rabbia aumentò.
Ella s’avvicinò alla toeletta, prese il vasetto della crema e lo scaraventò al muro; il vasetto rimbalzò sul letto senza rompersi. Ella andò, lo prese e lo rimise a posto.
— No! no! no! — singhiozzò, buttandosi sul letto. — Io glielo dico: vedi cosa divento io? Vedi cosa mi fate diventare? Oggi la lordura sul viso, domani la lordura sull’anima. Io me ne vado. Io me ne vado, e me ne vado! Io voglio tornare a casa mia. Tu non sei niente per me! Sì, glielo dico appena ritorna!
*
Quando egli tornò la trovò seduta tranquillamente davanti al tavolino, occupata a redigere la listina della spesa per l’indomani. Era tardi; i lumi accesi, la tavola apparecchiata. La serva preparava la cena; il piccolo appartamento era tutto invaso dal dispettoso eppure allegro friggìo della padella e da un odore di carciofi fritti; dalla finestra aperta sul giardino penetrava invece la fragranza del lauro e dell’erba.
Latte |
0,20 |
Pane |
0,20 |
Vino |
1,10 |
Carne |
1,00 |
Farina |
0,50 |
Uova |
0,50 |
Insalata |
0,05 |
Burro |
0,60 |
Asparagi |
0,50 |
L. | 4,65 |
Antonio s’avvicinò al tavolino, si curvò e guardò il pezzo di carta su cui Regina scriveva.
— Regina, sono stato qui alle sei, ma non c’eri.
— Sono uscita.
— Senti. La principessa mi ha mandato un bigliettino all’ufficio, perchè andassi da lei alle sei e mezzo, e ci sono stato.
— Cosa vuole?
— Nientemeno... ma ora comincia a seccarmi... vuole che sorvegli un signore che giuoca alla Borsa per conto suo.
Regina sollevò gli occhi, e s’accorse che Antonio era sudato e un po’ pallido.
— Alla Borsa? Com’è?
— Com’è? Te lo spiegherò poi. Ma io... quella donna è seccante, ora.
— Ma se ti compensa, — disse Regina. — E sai giocare alla Borsa, tu?
— Magari potessi! — egli esclamò, buttando il cappello sul letto. — Avessi i denari inutili di madame! la non si tratta di giocare: dovrei consultare i listini di borsa e verificare le operazioni di borsa compiute dal cavalier R. per conto di madame; rivedere le distinte delle operazioni giornaliere, assumere informazioni presso gli agenti di cambio, e, in una parola, esercitare un rigoroso controllo su tutta l’amministrazione del cavaliere.
— Ma, — insistè Regina, — ti compenserebbe bene, madame?
— Scusi? — egli disse, imitando la voce e l’atto della principessa.
— Come ti compenserebbe? — gridò Regina.
— Con qualche altro centinaio di lire: è avara, lo sai!
— È pronto, signora! — annunziò la serva, con la sua compitezza elegante.
Durante il pasto, Antonio spiegò a Regina le operazion di borsa, e di altre speculazioni finanziarie, parlandone con un certo piacere. Ed ella pareva interessarsi al discorso di lui; ma mentre ascoltava, i suoi occhi splendevano della luce vaga d’un pensiero molto lontano dalle cose che Antonio diceva. A un tratto, però, ella si animò e i suoi occhi tornarono nel mondo che li circondava.
— Se tu diventassi proprio l’uomo di fiducia, «il segretario» di madame! — ella esclamò. — Ricordo un sogno fatto la prima notte che l’abbiamo incontrata da Arduina: ella era morta e aveva fatto testamento in nostro favore.
— Sarebbe facile, — disse Antonio.
— Il testamento? — chiese ella ridendo.
— No, va là; ottenere l’amministrazione; ma bisognerebbe adulare, leccare, strisciare molto, prima, ed anche intrigare, tanto più che oltre il cav. R., madame ha altre persone di fiducia: bisognerebbe scavalcare tutti, intrigando. Ora ciò a me ripugna.
— Anche a me! — disse Regina, irrigidendosi.
S’alzò e andò ad affacciarsi alla finestra sul giardino. Antonio la seguì. La notte era tiepida, voluttuosa; l’odore del lauro saliva sempre più dolce e penetrante; striscie di luce gialla si stendevano come tappeti sui piccoli viali del giardino. Regina guardò giù, poi sollevò gli occhi verso il cielo d’un nero azzurrognolo, e sospirò soffocando il sospiro in un piccolo sbadiglio.
— Dopo tutto, non siamo felici? — domandò Antonio, proseguendo un suo interno ragionamento. — Che cosa ci manca?
— Nulla e tutto!
— Cosa ci manca, dico io? — ripetè Antonio, rivolgendo la domanda più a sè stesso che a sua moglie.
— Si vede l’Orsa? — ella chiese, guardando in alto, e fingendo di non aver udito la domanda di lui.
Anch’egli guardò.
— No.
— Vedi, dunque, che qualche cosa ci manca! Non si vedono neanche le stelle!
— Cosa vuoi fartene delle stelle? Lasciale dove sono, che non ci servono a niente! Se ti mancasse davvero qualche cosa non penseresti alle stelle.
— Vuol dire allora che manca questo! — ella disse, toccandosi la fronte.
— Mi pare di sì!
— A te però! — ella rispose, pronta.
— Ora ti prendo e ti butto giù dalla finestra, perchè mi hai insultato! — egli scherzò, afferrandola alla vita. — Se mi manca il cervello, sei tu che me lo fai perdere con le tue stravaganze.
Note
- ↑ Il barcajuolo che fa tragittare il fiume ai passeggieri.