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chiaia e di tristezza. Regina cercò di scansare la cognata, ma non fece a tempo.

— Son venuta da te; non sei mai in casa, non ti lasci mai vedere! — disse Arduiua. — Che hai? Che fai? Dove eri? Anche la mamma si lamenta... Perchè non fai un figlio?

— Perchè non lo fai tu? Dove vai? Come sei elegante! — disse Regina, beffarda.

— Vado al Grand Hôtel, a trovare una ricchissima miss. Vieni? Merita, sai!

Regina andò: tanto, non sapeva cosa fare.

Il tramonto tingeva d’un rosso aranciato le Terme e gli alberi dei viali: dal giardino veniva un gridìo di bimbi, un cinguettìo d’innumerevoli uccelli che pareva un fruscio d’acque.

E sopra tutte le cose, sopra la vastità chiara della piazza, sopra lo zampillo della fontana che lanciavasi vitreo, poi luminoso, e arrovesciavasi con labbra periate, simile a un vaso enorme di Murano, la scritta d’oro del Grand Hôtel scintillava sulla fronte dell’albergo, a guisa di una epigrafe sull’altezza d’un tempio.

Davanti alle colonne dell’entrata, e nell’atrio, c’era una confusione di carrozze, di servi dal gilè colorato, di signori in cilindro e di signore eleganti. Una vettura di corte, con due cavalli neri lucenti, dominava fra le altre carrozze.

— Ci deve esser la Regina, — disse Arduina. — Aspettiamo un po’.

— Allora addio, — rispose Regina, accennando d’andarsene. — Dove c’è una Regina non può esserci l’altra.

— Ma che presunzione, Dio mio! — gridò l’altra, comicamente disperata. — E vieni dunque!