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scesse, le stringesse la mano e le parlasse con una affabilità schiacciante. Poi la bella straniera sedette avvolgendosi la coda dell’abito attorno alle gambe, simile a un gatto in riposo, e parlò. Era stanca, annojata: aveva fatto una corsa in automobile, era stata ad una udienza particolare del pontefice, e fra mezz’ora doveva recarsi all’ultimo ricevimento d’una gran dama. Non diede uno sguardo a Regina, e dopo un momento parve dimenticarsi d’Arduina, e un poco anche delle altre due signore: parlava quasi fra sè, tutta compresa nella sua bellezza e nel suo splendore, come una stella che scintilla per sè stessa solamente. Da vicino e da lontano tutti la guardavano.
Regina tremava d’umiliazione; si sentiva scomparire entro il suo modesto abito corto, aveva vergogna della sua cravatta; e quando miss le offrì una tazza di thè ella la respinse con un gesto nemico.
Nell’uscire dal Grand Hôtel ella provava nuovamente quel senso d’odio puerile che l’aveva assalita al Costanzi la sera di Santo Stefano.
— Io non so cosa tu vieni a far qui! — disse alla cognata. — Perchè sei così vile? Perchè ascoltavi così servilmente, mentre quella là neanche s’accorgeva di te?
— Ma mi pare che anche tu ascoltavi molto umilmente!
— Io? Io vi avrei prese e strozzate tutte. Dio, come siete sciocche, le donne!
— Ma... Regina! — disse l’altra sbalordita. — Io non ti capisco!
— Lo so! Che cosa puoi capire? Che cosa vai