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La trascinò con sè, attraverso le vetture e la folla elegante che animava l’atrio, e domandò umilmente a un cameriere se c’era miss Harris.

Il cameriere si chinò un po’ e ascoltò, senza guardare le due signore.

— Miss Harris? Credo: s’accomodi, — rispose distratto, guardando lontano.

Regina ricordò la soggezione che destavano i camerieri di madame Makuline; questo qui non destava solo soggezione, ma anche una specie di timore.

Arduina attirò Regina nella serra, e cominciò a guardarsi attorno con rispettosa ammirazione, mentre la giovine signora taceva, vinta dal sogno che le si svolgeva davanti. Pareva una festa. Una luce strana, d’oro rossastro, calava dalle volte di cristallo; e sui tappeti, fra i palmizi, muovevasi una fantasmagoria di signore che parevano fate, vestite di raso, con lunghe code fruscianti, le mani, le orecchie, il collo brillanti di perle. Un sussurrìo di voci straniere; scoppi di riso confusi coi tintinnii delle tazze di porcellana e d’argento; un palazzo di cristallo, un mondo di gioia, di creature fatate che dimenticavano la realtà della vita, nell’incantesimo di boschetti di palme rosee in una luce di sogno.

— La realtà della vita? — pensò Regina. — Ma non è questa la realtà della vita? È il nostro che è un sogno brutto, la vita di noi piccoli...

Una splendida creatura, con un lungo abito di raso giallo, attraversò la serra, — pare una cometa! — mormorò Regina.

— È miss Harris, — disse Arduina. — Ora verrà.