Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Parte I - Capitolo III | Parte I - Capitolo V | ► |
IV.
La sera di Natale Regina volle andare a letto presto, accusando un malore che diede da pensare alla signora Anna, ma non convinse affatto Antonio. Egli conosceva o credeva di conoscere il male sottile che rodeva sua moglie; ne sapeva anche il nome: la nostalgia; e lasciava al tempo l’incarico di guarirlo.
Appena a letto, Regina cominciò a pensare e ricordare. Il Natale a Roma! Rivedeva i carri di polli vivi che giravano per la città: le signore passavano rapide, con involti in mano; i grassi pizzicagnoli guardavano, dall’interno dei loro nauseabondi negozi, con aria di imperatori romani; Sua Eccellenza un Sottosegretario di Stato stava fermo davanti a una vetrina del Dagnino, col viso terribilmente perplesso.
Fra la serva, la signora Anna e Gaspare era scoppiata una vera lite a proposito di certi cappelletti: Marina aveva scese e risalite per lo meno venti volte le scale; ogni volta rientrava con involti, ma dimenticava sempre qualche cosa. Per tutta l'ora della colazione e del pranzo i tre fratelli, la madre e la serva avevano discusso su roba da mangiare.
Ebbene, tutto ciò aveva prodotto in Regina una specie d’indigestione. Sola nel gran letto duro, gelata, rannicchiata, ella sentiva una pesantezza, un umidore, una tristezza indicibili. Le pareva d’essere una piccola chiocciola che sente cader la pioggia sul suo guscio. E pensava sempre al focolare lontano, alla notte grigia illuminata dalla neve. Oltre le voci e le risate che vibravano nel salotto da pranzo, oltre il lugubre stridore dei tram, oltre il romorio della città mangiona, salivano i fischi dei treni nella stazione: qualcuno rideva, qualcuno piangeva; uno, sottile e tenero, pareva la voce di un bambino che domandasse qualche cosa; un altro descriveva un zig-zirg iridato sul cielo nero; un altro rideva di Regina: — Partire? Partire! Sta fresca! Ci sei venuta e ci resti; addio — .
Ella si stizziva. Se la prendeva con Sua Eccellenza, quella che guardava le vetrine del Dagnino accomodandosi gli occhiali d’oro, poi si domandava chi era la gente sconosciuta che rideva e giocava nel salotto da pranzo.
Benchè fosse stizzito, Antonio si coricò presto. Ella finse di dormire. Egli la toccò piano piano, e sentendola gelata le si mise vicino per scaldarla. Ella sentì il profumo speciale, indefinibile, che esalava sempre dai capelli di lui, e s’intenerì ma non aperse gli occhi. Le ore passarono: la città tacque, si addormentò come un bimbo ingordo al quale si son promesse tante leccornie. Regina non poteva dormire, ma sentiva un dolce tepore: la chiocciolina s’era affacciata alla finestrina del guscio e vedeva il sole brillare sull’erba. Suoni melodiosi di campane tremolavano e vibravano nella notte tranquilla: uno pareva venisse dal di là di un fiume, grave, sonoro, nostalgico.
Regina ricordò certi versi del Prati, che non le erano mai venuti in mente. Donde sorgevano? Forse dal fondo dell’incosciente, rievocati dal canto nostalgico delle campane, in quel primo Natale d’esilio:
Sognar le verdi mie primavere, |
Ella li ripetè parecchie volte fra sè, con monotona cantilena: e finì d’addormentarsi. Sognò di trovarsi a casa sua: la sorellina suonava «Stefánia» sul mandolino, del quale Regina rivedeva distintamente l’intarsio raffigurante un trovadore con la mandola; il gattino nero stava ad ascoltare un po’ annoiato, sbadigliando forzatamente; fuori cadeva la sera d’un grigio violaceo, vellutata e silenziosa. Ma ad un tratto un viso perplesso, con due occhiali che parevan di ghiaccio, apparve dietro i vetri. Regina rise tanto forte che Antonio si svegliò.
— Che hai?
— Sua Eccellenza... — diss’ella in sogno.
*
— Stanotte ridevi: ora piangi! Si può sapere che hai? — domandò Antonio la mattina dopo, svegliandosi e accorgendosi che Regina piangeva.
— Nulla.
— Nulla! — egli disse adirato. — Tu piangi! perchè piangi? Io non ne posso più, sai! Perchè mi tormenti così?
Ella gli prese una mano e se la passò sugli occhi: egli s’intenerì.
— Ma che hai? Ma che hai, dimmelo; dimmelo, Regina, Regina? — le chiese con dolcezza e con angoscia.
— Non l’ho con te! — ella disse, nascondendogli il viso sul petto. — L’ho con me stessa... non so perchè! Non so vincere il passato... la nostalgia... ed ho paura dell’avvenire...
Anch’egli provò un misterioso senso di paura.
— Perchè hai paura dell’avvenire?
— Perchè siamo poveri... e Roma è orribile pei poveri...
— No, non siamo poveri, Regina! — egli esclamò, sempre più spaventato. — Eppoi, non ci amiamo?
— Amare... vegetare! — ella disse. — Non basta, non basta!
— Ma tu lo sapevi!
— Lo sapevo e lo so. E l’ho con me stessa che non so vincere l’avversione che la nostra vita borghese mi desta.
— Ma lassù, dopo tutto, che vita facevi?
— Ah, Antonio; sognavo!
Antonio capì tutto lo strazio di questo grido, e cercò di sopire per il momento il male di lei, somministrandole, come a certi malati, un calmante innocuo.
— Senti, — le disse, — è la nostalgia che ti opprime. Vedrai che col tempo ti abituerai a tutto. Sì, la nostra vita è meschina; ma credi tu che i ricchi sieno felici?
— Ma non è la ricchezza che io vorrei!
— Ma che cosa dunque? Sono forse volgare io? Sono stupido? E dopo tutto è con me che tu devi vivere! Sii ragionevole. Ti formerai l’ambiente che vorrai. Intanto, per guarire dalla nostalgia, puoi sempre che vuoi andare al tuo paese. Il calmante produsse l’effetto desiderato, Regina sollevò il viso raggiante.
— In primavera? — chiese con impeto.
— Ma sempre che vorrai! Il tempo, intanto...
*
Il tempo aumentò il male di Regina.
La notte di Santo Stefano Antonio la condusse al Costanzi.
Ella mise la sua più bella camicetta, i suoi migliori gioielli, e andò a teatro decisa di non meravigliarsi di niente, tanto più che aveva già veduto il teatro di Parma. Il Costanzi era una magnificenza, uno scrigno enorme dove brillavano, sulla crema venus delle spalle femminili, perle meravigliose. Anche la platea era uno splendore, un campo di fiori enormi cosparsi d’una magnifica rugiada di gemme e di lustrini.
Benchè avesse già visto il teatro di Parma, Regina provò da principio un vago sbalordimento. I suoi occhi miopi si socchiusero, offesi dalla luce ardente, e qualche cosa di simile avvenne anche nell’anima sua. Sollevò il binoccolo e guardò in un palco dove vide una signora, brutta ma elegantissima, che le parve tinta, coi capelli falsi e gli occhi cerchiati con artificio: eppure la invidiò egualmente. Guardò intorno: a poco a poco la sua invidia crebbe, straripò, diventò odio. Ella desiderò che il teatro s’incendiasse; poi s’accorse che una signora, vicina a lei, vestita modestamente, guardava ai palchi come guardava lei, forse con la stessa invidia criminosa in cuore, ed ebbe vergogna di sè stessa. Abbassò il binoccolo e d’allora in poi non guardò più in alto. Ma davanti a sè vedeva nelle ultime poltrone una fila di signore e di uomini eleganti che guardavano sempre e soltanto ai palchi. Alle sedie. Pareva che, per la gente seduta nelle poltrone, la gente delle sedie fosse d’una razza inferiore, o, peggio, che neppure ci fosse.
— Siamo nulla! Siamo i microbi che riempiono il vuoto! — pensò Regina. Ma ad un tratto si accorse di una cosa strana. Anche lei provava per la gente delle sedie e delle gallerie lo stesso disprezzo indifferente che dovevano provare le persone delle poltrone e dei palchi.
Antonio credeva ch’ella godesse la musica e lo spettacolo come li godeva lui: ogni tanto le stringeva la mano e le diceva qualche cosa gentile.
— Ti dài un’aria da regina, stasera, coi tuoi gioielli! — le disse, fra le altre cose.
— Una regina in esilio! — ella rispose.