Nanà/Parte prima/I
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I.
Alle nove il teatro delle Varietà era tuttavia vuoto. Alcune persone soltanto, nel palchettone ed all’orchestra, aspettavano, disseminate fra i seggioloni di velluto granata, nella scarsa luce della lumiera tenuta a mezza fiamma. Un’ombra oscurava la gran macchia color porpora del sipario, nessun rumore veniva dalla scena, i lumi della ribalta spenti, i leggii dei suonatori in disordine; solo in alto, nella terza galleria, intorno alla rotonda della volta, dove donne e puttini ignudi prendevano il volo in un cielo reso verdognolo dal gas — chiamate e risate uscivano da un continuo sussurrio di voci, e delle teste coperte di berretti e di cuffie, spiccavano le une sulle altre, scaglionate sotto i fori rotondi, incorniciati d’oro. Di tempo in tempo, appariva una guardiana, affaccendata, coi biglietti in mano, spingendosi davanti un uomo ed una signora, che sedevano, l’uomo in giubba a coda di rondine, la donna, attilatina ed aggraziata, volgendo attorno una lenta guardata. Due giovinotti apparvero nelle poltrone vicine all’orchestra. Stettero ritti, dando le spalle alla scena, guardando. — Non te lo dicevo io, Ettore! sclamò il più vecchio, un pezzo di giovinotto dai baffettini neri, giungiamo troppo presto. Mi potevi lasciar finire lo sigaro.
Una delle guardiane passava.
— Oh! signor Fauchery, disse con accento di dimestichezza al giovinotto, non si comincierà che fra mezz’ora.
— Allora perchè mettono le nove sull’avviso interrogò Ettore, la cui lunga faccia scarna prese una espressione di dispetto. Stamane Clarissa, che fa una parte nella commedia, m’ha giurato, che alle nove in punto si alzerebbe il sipario.
Per un momento si tacquero, alzando il capo investigando l’ombra dei palchi.
Ma la carta verde di cui erano tappezzati, li faceva ancora più bui.
Giù, sotto la galleria, le baignoires erano immerse in assolute tenebri.
Nei palchi di prima fila non c’era che una massiccia signora accasciata sul velluto della ribalta.
A destra ed a sinistra fra le alte colonne, i palchi di proscenio coi loro cortinaggi a lunghe frange, rimanevano vuoti. Il teatro bianco e oro, con tocchi di verde languido, impallidiva nella luce delle corte fiammelle della sua gran lumiera di cristallo che pareva lo riempisse di finissimo polverio.
— Hai avuto il proscenio per Lucia? domandò Ettore.
— Si, rispose Fauchery, ma non senza fatica.... Oh! non c’è pericolo che Lucia venga troppo presto, lei.
Soffocò un lieve sbadiglio, poi, dopo una pausa:
Puoi dire di essere fortunato, tu che non hai ancora veduto nessuna prima rappresentazione! La Bionda Venere sarà l’avvenimento di quest’anno. Ne parlano da sei mesi. Ah! caro mio! una musica chic! Bordenave, che sa il suo conto, ha serbato questo boccone per l’Esposizione.
Ettore ascoltava religiosamente; poi domandò:
— E Nana, la nuova stella che deve far da Venere, la conosci?
— Ah, benone! eccoci da capo? esclamo Fauchery, levando al cielo le braccia. Da questa mattina in poi, mi si tormenta a morte con Nana. Ho incontrato una ventina di persone e tutte: Nana di qua, Nana di là! So assai, io! conosco forse tutte le ragazze di Parigi! Nana è un’invenzione di Bordenave. Dev’essere qualche cosa di buono!
Si chetò. Ma il vuoto della sala, la fioca luce della lumiera, quel raccoglimento da chiesa, pieno di voci bisbiglianti e quello sbatacchiar di porte, lo irritava.
— Ah! no, disse d’un tratto, qui si ammuffisce. Me ne vo.... Troveremo forse Bordenave da basso. Ci darà dei ragguagli. Giù nel gran atrio, lastricato di marmo, dove c’era il controllo, il pubblico cominciava a mostrarsi. Dai tre cancelli aperti, si vedeva passare la vita ardente dei Boulevards, fiammeggianti e brulicanti in quella tiepida e stellata sera d’aprile.
- Rimbombi di carrozze che morivano all’improvviso, sportelli che si richiudevano rumorosamente e spettatori che entravano a piccoli crocchi, fermandosi dove si consegnavano i biglietti, salendo in fondo la doppia scala, ove le donne si indugiavano, dondolandosi. Alla luce cruda del gas, sulla scialba nudità di quell’atrio di cui una gretta decorazione, stile impero, faceva un peristilio da tempio di cartone, grandi avvisi gialli si distendevano impudentemente, portanti il nome di Nanà in grosse lettere nere. Degli uomini, afferrati quasi da quegli avvisi, si arrestavano a leggerli; altri ritti, discorrevano sbarrando le porte, mentre vicino all’ufficio dei biglietti, un uomo tarchiato, dalla larga faccia sbarbata di fresco, rispondeva brutalmente alle persone che insistevano per aver posti. Ei ripeteva: — Ma se vi dico che non c’è più niente! Tutto è affittato da quindici giorni.
— Ecco Bordenave, disse Fauchery che scendeva le scale. Ma il direttore l’aveva veduto.
— Eh! siete carino, voi! gli grido da lontano. È così, eh, che me l’avete fatto l’articolo..... Ho aperto il Figaro stamane..... Nulla!.....
— Un momento! rispose Fauchery. Devo pur vederla la vostra Nana prima di parlarne.... D’altronde non ho promesso nulla.
Poi, per tagliar corto, presento suo cugino, il signor Ettore della Faloise, un giovine che veniva a compiere la sua educazione a Parigi.
Il direttore pesò il giovinotto con un’occhiata. Ma Ettore l’esaminava con commozione. Era dunque quello, il noto Bordenave, il famoso espositore di donne che le trattava da guardaciurma, quel cervello da cui eruttava sempre qualche nuova réclame, quell’omaccio che gridava, sputava, si picchiava le coscie, cinico, con uno spirito da gendarme! Ettore stimò dover cercare una frase amabile.
— Il vostro teatro.... cominciò, con vocina melata.
Bordenave l’interruppe tranquillamente, con una parola cruda da uomo che ama le situazioni chiare:
— Dite: il mio postribolo.
Allora Fauchery diè una risatina di approvazione, mentre La Faloise col suo complimento nella strozza, urtato, si studiava di aver l’aria d’aggradir la parola. Il direttore s’era scagliato a dare una stretta di mano ad un critico drammatico i cui articoli avevano grande influenza. Quando tornò. La Faloise si rimetteva. Aveva paura di passare per provinciale, se restava lì inebetito.
— Dicono, ricominciò, volendo assolutamente trovare qualcosa, che Nana ha una voce deliziosa.
— Lei! esclamò il direttore stringendosi nelle spalle. Una vera cagna.
Il giovinotto s’affrettò a soggiungere:
— In ogni modo è ottima attrice.
— Che! Un fantoccio! Non sa dove mettere mani e piedi.
La Faloise arrossì leggermente. Non ci capiva più nulla; allora balbettò:
— Per niente al mondo avrei voluto perder questa serata. Sapeva che il vostro teatro....
— Dite il mio postribolo, interruppe di nuovo Bordenave con la fredda ostinazione d’un uomo convinto.
Fauchery, il quale, molto pacato, guardava le donne che entravano, venne in aiuto al cugino, quando lo vide a bocca aperta, in dubbio se dovesse ridere od andare in collera.
— Eh! via, contentalo, chiama il suo teatro come vuol lui. E voi, caro, non ci trattate da gonzi. Se la vostra Nana non canta e non recita, farete un fiasco, ecco tutto. Gli è, del resto, quello che temo.
— Un fiasco, un fiasco! sbraitò il direttore, la cui faccia si faceva paonazza. Occorre forse che una femmina sappia cantare e recitare? Ah! bimbo mio, sei troppo stupido... Nana ha qualcos’altro, per bacco, qualcosa che tien luogo di tutto. L’ho annasata io e ti dico che quel gualcosa in lei è ben sviluppato, oppure il mio naso è quello d’un imbecille.
Vedrai, vedrai, non farà che mostrarsi, e tutto il pubblico metterà fuori tanto di lingua.
Aveva levato in aria le sue manaccie che tremavano d’entusiasmo, e, dopo essersi così sfogato, abbassaya la voce, borbottando fra sè.
— Oh! l’andrà lontano, per Dio! se andrà lontano.... Ha una carnagione! ah! una carnagione!
Poi, siccome Fauchery l’interrogava, acconsentì a dar alcuni ragguagli con una erudità di espressioni che mettevano in imbarazzo Ettore della Faloise. Aveva conosciuto Nana e voleva farla conoscere. Cercava appunto una Venere. Lui, non si teneva per un pezzo l’impaccio di una donna: preferiva farne profittar subito il pubblico.
Ma aveva in gran trambusto nella sua baracca, in cui la venuta di quella ragazza metteva la rivoluzione. Rosa Mignon, la sua stella — una graziosa attrice, un’adorabile cantante, — minacciava ogni giorno di lasciarlo in asso, furibonda, perché indovinava una rivale. E quando era venuto il momento di far gli avvisi, che casa del diavolo, Dio buono! Finalmente s’era deciso a mettere i nomi delle due attrici in lettere d’ugual grandezza. Non voleva esser seccato. Quando una di quelle donnette come le chiamava, Simona o Clarissa, non arava diritto, lui le allungava un ceffone od un calcio.
Altrimenti non c’era verso di viver con quella genia. Ne vendeva, sapeva quanto valevano.
– To! disse interrompendosi, guardate mò, Mignon con Steiner, sempre insieme. Sapete che Steiner comincia ad esser sazio di Rosa, perciò il marito non se ne spicca un momento, avendo paura che batta il tacco.
Sul marciapiedi, la fila dei lumi che fiammeggiavan nella cornice del teatro, gettava un’onda di vivida luce. Due alberelli, spiccavano distinti, nel loro verde crudo; una colonna biancheggiava, così vivamente illuminata, che da lontano vi si leggevano gli avvisi come pieno giorno, e al di là l’ombra più densa della via si punteggiava di fuoco, nell'ondulazione d'una folla sempre mobile. Molti uomini non entravano subito, restavano fuori a ciarlare, terminando un sigaro, sotto la luce dell’entrata, che dava alle loro faccie un pallore tivido e disegnava sull'asfalto le loro brevi ombre nere. Mignòn, un pezzo d’uomo alto e grosso, con una zucca quadra da Ercole da fiera, s’apriva un varco fra i crocchi, trascinandosi 1 braccio il banchiere Steiner, piccin piccino, col ventre già grosso, la faccia tonda, incorniciata da una barba grigiastra.
— E così? disse Bordenave al banchiere, l’avete incontrata ieri nel mio gabinetto.
— Ah! era lei, esclamò Steiner. Me lo ero immaginato. Ma essa entrava mentre io usciva; l’ho appena intravveduta.
Mignon ascoltava, coll'occhio basso, facendo girar nervosamente un grosso diamante al mignolo. Aveva capito che si trattava di Nana. Poi, siccome Bordenave faceva della sua esordiente un ritratto che metteva le fiamme negli occhi del banchiere, intervenne.
— Eh! via, caro, smettete: è una buona da niente. Il pubblico le darà il benservito.... Steiner, ragazzo mio, sapete che mia moglie vi aspetta nel suo camerino.
Voleva riprenderlo, ma Steiner non sapeva staccarsi da Bordenave. Attorno a loro i crocchi erano più fitti, la folla si pigiava al controllo, nell'aria saliva un rumor di voci, in cui il nome di Nana risuonava colla chiarezza vivace e virante delle sue due sillabe. Gli uomini che si piantavano davanti agli avvisi lo leggevano forte quel nome: altri lo pronunziavano, passando, con tono interrogativo; mentre le donne inquiete, sorridenti, lo ripetevano piano con voce di meraviglia. Nessuno conosceva Nana. Donde usciva Nana? E circolavano storielle, facezie, mormorate di orecchio in orecchio. Era una carezza quel nome, un vezzeggiativo la cui famigliarità si adattava a tutte le bocche. Solamente nel pronunziarlo, la folla si faceva allegra, bonaria. Una febbre di curiosità spingeva tutta quella gente; era la febbre della curiosità parigina che ha la violenza d’un accesso di pazzia.
Si voleva veder Nana.
Una signora s’ebbe strappato lo strascico del vestito; un signore smarrì il cappello. Ah! volete saper troppo; grido Bordenave, che una ventina d’uomini assediavano di domande. La vedrete. Io me la batto.... Lassù hanno bisogno di me.
Sparve, felice d’aver eccitato il suo pubblico.
Mignon faceva spalluccie, rammentando a Steiner che Rosa l’aspettava per avere il suo parere sul costume che portava nel primo atto.
Non è Lucia quella che scende di carrozza? domandò Faloise a Fauchery.
Era infatti Lucia Stewart, una donnina brutta, sui quarant’anni, col collo troppo lungo, la faccia magra, tirata, la bocca dalle grosse labbra, ma così viva, così aggraziata, che aveva un gran fascino,
Conduceva seco Carolina Héquet una bellezza pura e fredda, colla madre, donna dignitosissima e dell’aspetto d’un animale impagliato.
— Vieni con noi, t’ho serbato un posto, disse a Fauchery.
― Ah! quanto a questo poi no: per nop veder niente! rispose lui: ho la mia poltrona: la preferisco.
Lucia andò in collera. Non osava forse mostrarsi con lei? Poi calmata ad un tratto, saltando ad altro argomento:
— Perché non mi hai detto che conosci Nana?
— Nana? non l’ho mai veduta.
— Davvero? Mi hanno giurato che l’avevi avuta.
Fauchery si diè a ridere.
Ma davanti a loro, Mignon, con un dito sulle labbra faceva cenno di star zitti. E, ad una domanda di Lucia, le addito un giovine che passava, mormorando:
— Il ganzo di Nana.
Tutti lo guardarono: era piacente. Fauchery lo riconobbe si chiamava Daguenet; un ragazzo che s’era mangiato trecento mila lire colle donne, e che ora giuocava alla Borsa per pagare a quando a quando un mazzo di fiori o una cena a qualche bella. Lucia trovo che aveva begli occhi.
Ah! ecco Bianca! grido d’un tratto; è lei che mi aveva detto che avevi avuto Nana.
Bianca di Sivry, una ragazzotta bionda, il cui bel viso si veniva guastando per grassezza, arrivava insieme ad un uomo segaligno, molto distinto, accuratissimo nel vestire. _ — Il conte Saverio di Vandeuvres, bisbiglio Fauchery all’orecchio di La Faloise.
Il conte scambiò un lieve cenno di saluto col giornalista, mentre una viva spiegazione aveva luogo tra Lucia e Bianca.
Esse chiudevano il varco con gli strascichi carichi di svolazzi, l’uno azzurro, l’altro roseo, ed il nome di Nana suonava sulle loro labbra così rapido e così stridulo che tutti le stavano ascoltando. Il conte di Vandeuvres, condusse seco Bianca.
Ma ora, come un eco, il nome di Nana suonava ai quattro angoli dell’atrio, in tono più alto, coll’espressione d’un desiderio avvivato dal ritardo.
Non si cominciava, dunque? Gli uomini tiravano fuori l’orologio, i tardivi balzavano giù dalle carozze prima che fossero fermate, i crocchi lasciavano il marciapiede su cui i viandanti passavano lentamente attraversando lo sprazzo di luce rimasto vuoto, allungando il collo per gettar un’occhiata nell’atrio.
Un biricchino che giungeva fischiando tra i denti, si piantò davanti ad uno degli avvisi a fianco della porta, poi, ingrossando la voce:
— Ohè, Nana! si diede a gridare; e continuò la sua strada, tutto dinoccolato, strascinando le ciabatte.
Scoppiò una risata. Alcune persone ammodo si diedero a ripetere: Nana! Ohè, Nana!
Si soffocava in quella pigiatura. Allo sportello dei biglietti era scoppiato un diverbio, e a poco a poco ingigantiva il clamore formato da un rumoreggiare di veci che chiamavano Nana, volevano Nana, in preda ad uno di quegli assalti d’imbecillaggine e di sensualismo brutale che invadono talvolta e trascorrono sulle masse.
In quel punto, frammezzo al rumore, s’udì il suono d’un campanello.
Un grido solo si intese che si propagò fino alla strada:
— Hanno dato il segnale! Hanno dato il segnale! E cominciò un serra serra; ognuno si slanciava verso l’ingresso:
Ai controllori toccò di far miracoli.
Steiner non aveva voluto salire a veder il costume di Rosa; La Faloise, al primo segnale, aveva squarciato la folla trascinandosi dietro Fauchery e protestando di non voler perdere la sinfonia.
Questa smania del pubblico irritò Lucia Stewart. Che razza di villani eran mai tutti costoro che urtavano e spingevano in tal modo le donne! e volle rimaner l’ultima, con Carolina Héquèt e sua madre.
Il vestibolo era rimasto vuoto; in fondo il boulevard continuava a rumoreggiare.
— Pazienza ci f osse sempre da divertirsi ai loro spettacoli, ripeteva Lucia salendo la scala.
Nella platea, La Faloise e Fauchery, in piedi davanti la loro poltrona, s’eran rimessi a guardare.
L’aula risplendeva. Alte fiammelle di gas facevano brillare il gran lampadario di un fuoco giallo e color di rosa che pareva spandesse una pioggia di luce su tutta la platea. Il velluto granata dei sedili si chiazzava di rosso, le dorature rilucevano, e gli adornamenti di color verde pallido ne smorzavano l’effetto. I lumi della ribalta, rialzati, inondavano di luce i prosceni e il telone, i cui panneggiamenti pesanti di color porpora e d’oro arieggiavano il fasto d’un palazzo incantato, fasto che faceva a pugni colla cornice scrostata, in cui i crepacci lasciavano vedere il gesso sotto le dorature.
Faceva già caldo. I suonatori raccolti davanti i loro leggii accordavano gli strumenti, e i trilli leggeri del flauto, i sospiri repressi del corno, le note tenute del violoncello, traversavano lo spazio frammezzo al grande brulichio di tutta quella folla pigiata. Tutti parlavano, si urtavano, si facevan largo, si mettevano a posto; e la marea pei corridoi era sì forte, che da ogni porta pareva uscisse un getto continuo di gente.
Eran dei segni, dei richiami, dei fruscii di stoffa, una sfilata di vesti e di acconciature, frammezzate dal nero di una giubba o di un soprabito mascolino.
Tuttavia le file delle poltrone si popolavano a poco a poco; qua un abbigliamento chiaro spiccava, là una testa aristocratica s’abbassava facendo luccicare i gioielli adornanti l’altissima acconciatura.
Da un palco sporgeva una spalla nuda e rotonda di una bianchezza leggermente dorata, con riflessi morbidi di seta.
Altre signore tranquille, agitavano languidamente i ventagli, seguendo con lo sguardo gli ondeggiamenti della folla; mentre dalle sedie d’orchestra, gli eleganti, col panciotto sparato fino alla cintola e una cardenia all’occhiello, puntavano sulla folla, colle dita inguantate, i loro binoccoli.
Allora i due cugini si diedero a cercare delle conoscenze fra la folla.
Mignon e Steiner erano insieme in una baignoire, appoggiati al davanzale, l’uno accanto all’altro. Bianca di Sivry sembrava riempiere da sola puo dei proscenii della prima fila a sinistra. Ma La Faloise s’interessò sopratutto di Daguenet, il quale occupava una poltrona d’orchestra, due file davanti la sua. Vicino a lui un giovinetto diciasettenne al massimo, che pareva fuggito allora di collegio, spalancava i suoi grandi occhi da cherubino.
Fanchery ebbe un sorriso guardandolo.
— Ma dimmi un po’, chiese ad un tratto La Faloise, chi è quella figura là in alto nel palchettone? Quella che ha con sé una ragazza vestita di celeste.
Egli indicava una donna grassa; strozzata nel busto, una ex-bionda divenuta bianca e ritinta di giallo, la cui faccia rotonda, arrossata dal belletto, si gonfiava sotto una vera pioggia di riccioli da bambina.
— È Gaga, rispose Fanchery.
E, siccome questo nome pareva intontire il cugino, soggiunse:
— Non conosci Gaga? Ella ha fatto la delizia dei primi anni del regno di Luigi Filippo. Ora la si strascina sempre dietro sua figlia.
La Faloise non degnò d’uno sguardo la ragazza.
La vista di Gaga lo impressionava, e i suoi occhi non potevano staccarsi da lei; la trovava ancora assai piacente, ma non osò esprimere il suo parere.
In quella il direttore d’orchestra levava in alto la bacchetta, e i suonatori davano principio alla sinfonia.
Il pubblico continuava ad entrare, l’agitazione e il fracasso crescevano. Fra quel pubblico speciale delle prime rappresentazioni, il quale non si muta mai, vi erano dei cantucci più intimi, dove gli assidui si ritrovavano sorridendo; costoro tenevano il cappello in testa, comodi e famigliari quasi fossero in casa propria, e scambiandosi dei saluti.
Parigi era là, la Parigi delle lettere, della ricchezza e del piacere; molti giornalisti, qualche scrittore e qualche artista, enoi di Borsa e di sport, e più cortigiane che donne oneste; una strana miscela, ove figuravano tutti gli ingegni e tutti i vizi, ove la medesima stanchezza e la medesima febbre si leggevano su tutti i volti.
Fanchery, a cui il cugino faceva mille interrogazioni, gli indicò i palchetti dei giornalisti, quelli dei circoli, gli disse il nome di qualche critico drammatico, uno magro secco, colle labbra sottili e maligne, e un altro grosso, dal fare bonario, il quale si piegava sulla spalla della sua vicina, una ingenua ch’egli accarezzava con uno sguardo tenero e paterno.
- Ma s’interruppe, vedendo La Faloise salutare delle persone che occupavano un palchetto di fondo. Parve stupito.
— Come! domandò, conosci il conte Muffat di Benville?...
— Oh! da molto tempo, rispose Ettore. I Muffat possedevano vicino a noi. Vado spesso in casa loro.... Il conte ha con sè sua moglie e suo suocero, il marchese di Chouard.
E, vanitoso, compiacendosi dell’attenzione del cugino, proseguì insistendo sui particolari: il marchese era consigliere di Stato, il conte era stato testè nominato ciambellano dell’imperatrice. Fauchery aveva preso il canocchiale e guardava la contessa, una bruna dalla carnagione fresca, grassoccia, con degli occhi neri bellissimi.
— Mi presenterai durante uno degli intervalli, finì a dire. Mi sono già incontrato altre volte col conte, ma vorrei andare ai loro martedì.
Un energico zittìo partì dalle gallerie superiori. La sinfonia era cominciata, ma si entrava tutt’ora. Gli usci dei palchi sbattevano, dei tardivi costringevano intere file di spettatori ad alzarsi, dei vocioni si bisticciavano negli anditi. Ed il rumore delle conversazioni non cessava, simile al pippiar d’uno stormo di passere chiaccherine quando cade il sale. Era una confusione, un intrecciamento di teste e di braccia che s’agitavano, gli uni sedendo e studiando di accomodarsi, altri ostinandosi a star in piedi per gettar attorno un’ultima occhiata. Il grido: seduti! seduti! uscì violento dalle profondità buie della platea. Un fremito era corso: finalmente la si conoscerebbe quella famosa Nanà, di cui Parigi s’occupava da otto giorni.
A poco a poco, però, le conversazioni cadevano, illanguidite in un mormorio di voci sommesse. Ed, in mezzo a quel bisbiglio languido, spirante, a quei sospiri morenti, l’orchestra rompeva in noticine briose d’un valzer, il cui ritmo plebeo pareva una risata biricchina. Il pubblico, sollecitato, sorrideva già. Ma la claque, dai primi sedili della platea, applaudì con furore.
Il sipario si alzava.
— Tò, disse La Faloise il quale ciarlava sempre, c’è un signore con Lucia.
Guardava il proscenio di destra, ove Carolina e Lucia sedevano sul davanti. Nel fondo si scorgeva la faccia rispettabile della madre di Carolina ed il profilo d’un giovinotto alto, dalla bella capigliatura bionda, dal vestir attillato.
— Ma guarda, ripeteva La Faloise con insistenza, c’è un signore,
Fauchery sì decise a puntar il binoccolo sul proscenio. Ma sì rivolse bentosto.
— Oh! E' Labordette, mormorò con voce noncurante, come se la presenza di quel signore dovesse esser per tutti la cosa più ovvia ed indifferente,
Dietro di loro gridarono: Silenzio.
Dovettero tacere. In quel punto la sala era colpita da immobilità, un tappeto di teste ritto ed attente saliva dall’orchestra al loggione.
Il primo atto della Bionda Venere, seguiva nell’Olimpo, un Olimpo di cartone, con nubi per quinte, ed a destra il trono di Giove. Venivano primi Iride e Ganimede, aiutati da uno stormo di servi celesti che cantavano un coro, preparando i sedili pel consiglio degli Dei.
Di nuovo gli applausi solitari della claque scattarono: il pubblico, cui la cosa giungeva nuova, aspettava. Tuttavia La Faloise aveva applaudita Clarissa Besnus, una delle donnine di Bordenave, che faceva da Iride, vestita di azzurro pallido, con una gran cintura di sette colori annodata alla vita.
— Si leva la camicia, sai per mettere quella roba, disse a Fauchery in modo da essere udito. L’abbiam provata stamane e la si vedeva la camicia nella schiena e sotto le braccia.
Ma un lieve fremito agitò il teatro. Rosa Mignon era entrata, vestita da Diana! Benché non avesse né le forme né il viso adatti per quella parte — scarna e bruna com’era, d’un adorabile bruttezza da monello parigino — parve graziosissima come una ironia quasi del personaggio.
La sua prima aria, scritta su parole tanto stupide da far piangere — i lamenti riguardo a Marte, che era in procinto di piantarla per Venere — quell’aria la cantò con una riserbatezza pudica così piena di sottintesi salaci, che il pubblico si animò. Il marito e Steiner, nello stesso palco, cuciti l’uno all’altro, ridevano con compiacenza. E tutto il teatro scoppiò quando Prulliére, l’artista prediletto apparve vestito _da Marte, un Marte da strapazzo, impennacchiato di una gigantesca piuma, strascicando uno spadone, che gli arrivava alla spalla. Lui, mo’, era sazio di Diana: faceva troppo la schifiltosa. Allora Diana giurava di sorvegliarlo e di vendicarsi.
Il duetto si chiudeva con gorgheggi buffi che Prullière eseguì molto grottescamente con voce da miccio aizzato. Aveva una burlesca millanteria da primo attor giovine, fiero de’ suoi trionfi amorosi, e cacciava fuori due occhi da spaccamonte che facevano scoppiar stridule risate di donna nei palchi. Poi il pubblico si rifece freddo, le scene che seguirono parvero insopportabili. Il vecchio Bosc che rappresentava un Giove imbecille, il capo schiacciato sotto un’enorme corona, riuscì appena a rasserenare il pubblico per un momento, quand’ebbe una lite domestica con Giunone riguardo al conto della cuoca. Lo sfilar degli Deî, Nettuno, Plutone, Minerva e gli altri fa lì lì per mandare tutto a rotoli. Il pubblico si faceva impaziente, un mormorio di cattivo augurio cresceva lentamente, gli spettatori perdevano la curiosità e guardavano intorno. Lucia rideva con Labordette, scambiando cenni e saluti da tutte le parti. Il conte di Vandeuvres sporgeva il capo dietro le larghe spalle di Bianca, mentre Fauchery, con la coda dell’occhio esaminava i Muffat, il conte molto grave; come se non intendesse, la contessa sorridente, astratta, gli occhi nel vuoto, fantasticando. Ma improvvisamente in quel malessere, gli applausi della claque scoppiarono con la regolarità d’un fuoco di pelottone. Tutti si voltarono verso la scena. Era finalmente Nana? Come la si faceva aspettare quella Nana! Era invece una deputazione di mortali introdotti da Iride e Ganimede, rispettabili galantuomini, tutti mariti beffati, i quali venivano a presentare al Signore dell’Olimpo una supplica contro Venere, la quale infiammava le loro mogli di soverchi ardori. Il loro coro, su di un motivo piagnucoloso ed ingenuo, rotto da silenzi pieni di confessioni, divertì molto. Una parola fe’ il giro della sala:
«Il coro dei Cornuti, il coro dei Cornuti» e la parola restò: si chiese il bis. Le teste dei coristi erano buffe, si trovava la loro faccia adatta alle parte, quella in ispecie d’un grassoccio che pareva una luna piena. Si cercava Venere per mari e monti quando ecco capitar Vulcano, furibondo, in cerca della moglie che aveva dormito fuor di casa e dietro cui correva da due giorni. Il coro ripigliava, implorando Vulcano, il Dio dei Cornuti. Il personaggio di Vulcano, era rappresentato da Fontan, un comico brillante, di un talento originale, da trivio, in costume di fabbro campagnuolo, un gran parruccone al vento, le braccia nude tatuate con cuori trapassati da freccie.
Ad una donna scappò detto fortissimo: oh! com’è brutto! e tutti risero applaudendo.
Venne poi una scena che parve interminabile: Giove non la finiva più coll’adunar il consiglio degli Dei, per sottomettergli la supplica dei mariti ingannati. E Nana non compariva mai. La serbavano dunque per l’ultime scene! Un’aspettazione sì prolungata alla fine cominciava ad irritare il pubblico. I mormorii ricominciavano.
— La va male, diceva Mignon raggiante, a Steiner. Una bella mistificazione, vedrete?
In quel punto le nubi in fondo si aprirono e Venere parve. Nana, altissima e molto in carne pei suoi diciott'anni, nella sua bianca tunica da Dea, i lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle, scese verso la ribalta con placida disinvoltura sorridendo al pubblico e prese a cantar la sua aria:
Quando alla sera Venere gironza....
Non aveva finito il primo verso, che in platea tutti si guardarono. Era uno scherzo od una scommessa di Bordenave? Non si era mai udita voce più stonata e peggio educata. Il direttore diceva bene: era una cagna. E non sapeva nemmeno star in scena, spingeva avanti le mani, dondolando tutto il corpo in un modo che sulle prime venne trovato poco decente e meno grazioso.
Dalla platea sorgevano già degli oh! Si zittiva, quando si levò nella prima fila di poltrone una voce fina come quella di un galletto che muti penne, gridando convinta:
— Molto chic!
Tatto il teatro guardò. Era il cherubino, il collegiale scappato dai banchi, coi suoi begli occhi sbarrati, la sua faccia bionda infiammata dalla vista di Nana. Quando vide tutti voltarsi a guardarlo, diventò rosso rosso per aver parlato così forte senza addarsene. Daguenet, il suo vicino l’esaminava sorridendo, il pubblico rideva, come disarmato, non pensando più a zittire, mentre i giovinetti in guanti bianchi, sedotti anch’essi dalle forme di Nana, andavano in brodo di giuggiole, ed applaudivano.
— Bene, benissimo! brava!
Nana, pertanto, vedendo il pubblico ridere, si era messa ridere anche lei. L’allegria raddoppiò. Era strana, al postutto, quella bella ragazza. Il ridere le apriva un gioiello di pozzettina nel mento. Aspettava, punto impacciata, mettendosi tosto in dimestichezza col pubblico, sembrando dir ella stessa con l’ammiccare degli occhi che non aveva un quattrino di talento, ma che non importava punto, che qualcos’altro ce l’aveva. E dopo aver fatto al direttore on cenno che significava: Súv via, galantuomo! - cominciò la seconda strofa. — A mezzanotte è Venere che passa....
Era sempre la stessa voce acre, ma ora solleticava talmente il pubblico, che a volte gli dava un lieve fremito.
Nana rideva tuttavia, d’un riso che le rischiarava il rosso bocchino e metteva un raggio nei suoi occhioni, d’un celestrino chiarissimo.
A certi versi un po’ arrischiati, una bramosia le arricciava il nasino, le cui pinne rosse si agitavano, mentre una fiamma le passava sulle guancie. Continuava a dondolarsi, non sapendo far altro. Ed il pubblico non trovava più che quel dondolio fosse brutto; anzi, tutti gli uomini puntavanle addosso i loro binoccoli.
Mentre Nana finiva la strofa, la voce le venne meno del tutto e capì che non potrebbe finire. Allora, senza mettersi in pena, diede una mossa d’anche che disegnò una rotondità sotto alla tunica sottile, mentre, col busto piegato, il petto indietro, stendeva le braccia.
Scoppiarono gli applausi. Lei subito, s’era voltata, risalendo la scena, facendo vedere la nuca ove un’infinità di cappelli rossi le facevano quasi un vello di bestia. Gli applausi divennero frenetici.
La fine dell’atto fu fredda. Vulcano voleva picchiare Venere; gli Dei tenevano consiglio e decidevano che farebbero un’inchiesta sulla terra prima di soddisfar i mariti beffati. Fu allora che Diana sorprendendo tenere parole fra Venere è Marte giurava, di non perderli di vista durante il viaggio.
V’era anche una scena in cui l’Amore, rappresentato da una monelluccia di dodici anni, rispondeva a tutte le domande:
— Sì, mamma.... No, mamma, con voce piagnucolosa e le dita nel naso.
Quindi Giove, colla severità d’un maestro di scuola incollerito, chiudeva Amore in uno stambugio oscuro e gli dava a coniugare venti volte il verbo amare.
Meglio gustato fa il finale, un coro che le masse e l’orchestra eseguirono brillantemente. Ma, calata la tela, la clague tentò invano una chiamata, tutti erano già in piedi e si affollavano verso le porte.
Scalpicciavano, si spingevano, pigiati tra le file di poltrone, scambiando le proprie impressioni. La stessa parola correva su tutte le bocche.
— La è roba da cretini.
Un critico diceva che ci vorrebbero di molti tagli. Ma la commedia premeva poco: sì parlava sopratutto di Nana. Fauchery e La Faloise, usciti pei primi, s’incontrarono nell’andito delle poltrone con Steiner e Mignon.
Si soffocava in quel corritoio, stretto e basso come una galleria di miniera, rischiarato da malti becchi del gas. Stettero un momento appiè della scala di destra protetti dalla sbarra che faceva risvolta.
Gli spettatori degli ultimi posti scendevano con un incessante rumore di scarponi; l’onda delle giubbe nere passava, mentre una guardiana faceva ogni sforzo possibile per proteggere dagli urti una seggiola su cui aveva ammucchiati i pastrani.
— Ma la conosco, gridò Steiner, appena vide Fauchery. Senza dubbio l’ho veduta in qualche luogo.... Al Casino, credo... l’han raccolta da terra tant’era ubbriaca.
— Io non so più bene dove, disse Fauchery, ma pare anche a me di averla incontrata...
Abbassò un pochino la voce e soggiunse ridendo:
— Dalla Tricon, può darsi.
— Per bacco, in un lurido sito! dichiarò Mignon che sembrava furibondo. È schifoso che il pubblico accolga così la prima femminaccia che gli capita davanti! Tra poco non ci saranno più donne oneste fra le attrici. Finirò col proibir a Rosa di recitare.
Fauchery non seppe trattenere un sorriso. Intanto lo scendere balzelloni delle scarpaccie sugli scalini non cessava punto: un omettino in berretto diceva con una vocina strascicante:
— Eh via! L’è grassoccia... v’è da manciucchiare..
Nell’andito, due giovinotti, dai capelli ben arricciati, molto attillati nei loro solini sparati, litigavano.
ZOLA — Nanà.
L’uno ripeteva: Schifoso! schifoso! senza dar spiegazioni; l’altro rispondeva: Maravigliosa, marivigliosa, sdegnosi del pari d’ogni argomento.
La Faloise la trovava bella; arrischiò soltanto che farebbe bene a coltivare la sua voce. Allora Steiner, il quale non ascoltava più, parve svegliarsi di soprassalto. Conveniva aspettare, del resto. Forse tutto andrebbe a rotoli negli atti seguenti. Il pubblico s’era mostrato compiacente, ma non era ancor vinto di certo. Mignon giurava che la commedia non finirebbe, e siccome Fauchery e La Faloise lo lasciavano per risalire al ridotto, prese il braccio di Steiner e gli si accostò mormorandogli all’orecchio:
— Caro mio, vedrete il costume di mia moglie nel secondo atto. È d’un sconcio!
Di su, nella sala del ridotto, tre lumiere di cristallo fiammeggiavano splendidissime.
I due cugini ebbero un momento d’esitanza: la porta vetrata aperta, lasciava vedere, da un capo all’altro della galleria, un’ondata di teste che due correnti travolgevano in un fiotto perenne.
Si decisero a entrare.
Cinque o sei gruppi d’uomini, ciarlando forte e gesticolando, s’ostinavano a rimaner fermi, malgrado gli spintoni; gli altri camminavano in fila, girando sui tacchi che percuotevano l’impiantito incerato.
A destra ed a sinistra, fra le colonne di marmo screziato, delle donne, sedute su panche in velluto rosso, guardavano in attitudine stanca, il continuo ondeggiare della folla, illanguidite pel gran caldo; dietro di loro, negli alti specchi, si vedevano le treccie ricadenti nelle spalle.
In fondo, davanti alla credenza, un uomo panciuto beveva un bicchiere di sciroppo.
Ma Fauchery, che voleva respirare un po’ d’aria, uscì sulla terrazza.
La Faloise, il quale stava osservando dei ritratti d’attrici esposti in cornici che s’alternavano cogli specchi fra le colonne della sala, finì coll’andargli dietro. Erano appena stati spenti i lumi della facciata del teatro. Il terrazzo era buio, freddo, e a quanto loro parve, vuoto.
Solo, nell’ombra, luccicava la sigaretta accesa d’un giovine, il quale se ne stava appoggiato alla balaustrata nell’angolo di destra.
Fauchery riconobbe Daguenet. Si strinsero la mano.
— Che diavolo fate voi qui, amico caro? chiese il giornalista. Come va che vi trovo cacciato negli angoli, voi che alle prime rappresentazioni non vi movete mai dalla vostra poltrona d’orchestra?
— Fumo, come vedete, rispose Daguenet.
Allora Fauchery, per metterlo in imbarazzo:
— Ebbene, che ne dite della nostra esordiente? La maltrattano per benino laggiù nei corritoi.
— Poh! fe’ Daguenet. Gente a cui essa non sì sarà voluta dare.
Questo fu tutto il suo giudizio sul talento di Nana.
La Faloise si sporgeva dal terrazzo guardando la strada.
Dirimpetto, le finestre d’un palazzo e quelle d’un club erano vivamente rischiarate; sulla via una densa folla di avventori era seduta al tavolini del caffè di Madrid.
Malgrado l’ora tarda, la gente era stipata; ne usciva continuamente di nuova del passaggio Juffroy; si camminava passo passo, costretti ad attendere cinque minuti prima di poter attraversare la strada, tanto era lunga la fila delle carrozze.
— Che movimento! che fracasso! ripeteva La Faloise, ancora sbalordito da questo Parigi che lo stupiva.
Ma una lunga scampanellata risuonò in quelle tenebre; il ridotto si fece deserto. Nei corritoi si rinnovarono gli urti e gli affollamenti di prima. Il telone era alzato, e la gente entrava tuttavia, destando il malumore di quanti erano già seduti. Ciascuno riprendeva il suo posto, col viso animato e rifattosi attento. La prima occhiata di La Faloise fa per Gaga; ma egli rimase attonito, vedendo il giovanotto alto, dai bei cappelli biondi, che al primo atto era nel palchetto di Lucia, seduto ora vicino a Gaga, con cui chiaccherava famigliarmente. — Come hai detto che si chiama colui? chiese egli a Fauchery.
Questi sulle prime non vedeva nulla.
— Ah! sì, Labordette; disse poi collo stesso gesto di noncuranza.
La decorazione del secondo atto fu una sorpresa.
Si era in una lurida bettola del sobborgo, alla Palla nera, in pieno martedì grasso. Un coro di mascherotti cantava una ronda accompagnando il ritornello col picchiar delle calcagna. Questa bricconata inattesa piacque tanto che si fece bissare la ronda.
Ivi, tratti da Iride che falsamente s’era vantata di conoscere la terra, giungeva la schiera degli Dei, per cominciar la sua inchiesta.
Per serbar l’incognito, s’erano tutti travestiti.
Giove entrò camuffato da re Dagoberto, colle braghe leggendarie rivoltate, e una gran corona di latta,
Febo figurava il Postiglione di Lonjumeau, e Minerva una balia di Normandia.
Marte provocò le più grasse risate con un costume stravagante d’ammiraglio svizzero.
Ma le risate crebbero a mille doppi e diventarono triviali all'apparire di Nettuno, vestito d’un semplice camiciotto, coperto da un alto berretto a sbuffi, coi capelli a ruba-cuori appicciati sulle tempie, che strascicava le ciabatte e diceva, con una voce carezzevole: «Che volete! Quando si nasce bell’uomo bisogna lasciarsi amare!»
Si udirono alcuni «Oh! Oh!» mentre le signore rialzavano un pochino i loro ventagli.
Nel suo palchetto di proscenio, Lucia Stewart rideva così rumorosamente, che Carolina Héquet la fece smettere con un colpo leggero di ventaglio.
Da quel momento la produzione fu salva; un gran successo ormai si delineava netto, sicuro.
Questo carnovale degli Dei, questo Olimpo trascinato nella mota, tutta una religione, tutta una poesia vilipesa parve un ghiotto boccone di un gusto squisito.
La febbre dell’irriverenza invadeva il pubblico letterato delle prime rappresentazioni; si calpestava la leggenda, si facevano a pezzi le antiche imagini. Bel tipo quel Giove! E Marte, com’era conciato!
La regalità diveniva una burla - l’esercito una ridicolaggine.
Quando Giove, invaghitosi ad un tratto d’una giovine lavandaia, si mise a ballare un cancan de’ più frenetici, e simona, che faceva da lavandaia, misurò una pedata nel naso al re degli Dei, chiamandolo da grulla «Papaccio mio» fu una cosa da sbellicar dalle risa.
Mentre gli altri ballavano, Febo faceva recare dei boccali di vino caldo a Minerva, e Nettuno aveva intorno una corte di sette od otto donne che gli facevano ingollare dei dolciumi.
Il pubblico afferrava a volo le più lievi allusioni, rincarava anzi sulle oscenità, i motti più semplici ricevevano interpretazioni salaci, vociate dalle poltrone.
Da un pezzo il pubblico non aveva potuto diguazzare in
una stupidità più scandalosa, e tutti si sentivan riposati e contenti.
Frattanto l’azione proseguiva. Vulcano, un giovinotto vestito da festa, tutto di giallo, coi guanti gialli e un monocolo «cacciato nell’orbita destra, correva dietro a Venere, la quale era finalmente arrivata anch’essa, cammuffata da pescivendola, con un fazzoletto colorato in testa, più che audacemente scollata, coperto il seno di grossi ornamenti d’oro. Nana era tanto bianca e tanto carnosa, così in carattere sotto le spoglie di quel personaggio dalle forme ricche e tondeggianti, ch’essa si accaparrò tosto tutto il favore del pubblico.
Ciò fece passare affatto inosservata Rosa Mignon, un amor di bambina, con un lungo abito di mussola e col cercinè, che andava sospirando con una voce deliziosa i lamenti di Diana.
L’altra — quella ragazza grassa e tonda, che si batteva i fianchi e chiocciava come una gallina, spandeva intorno tale una fraganza di vitalità, una onnipotenza di donna, che il pubblico n’era inebbriato. D’allora in poi tutto le fu permesso, star male in iscena, non imbroccare una nota giusta, dimenticare la parte: le bastava voltarsi verso il pubblico e ridere per farsi coprire d’applausi.
Quando essa arrischiava la sua famosa mossa del fianco, l’orchestra pareva divampare, e il caldo salire di loggia in loggia fino al velario.
Il trionfo fu quindi completo quand’essa si pose a capo delle danze. Pareva proprio nel suo elemento, coi pugni alla cintola; era la Venere che s’asside coi piedi nel fango ai canti delle vie.
Ed anche la musica pareva fatta a bella posta per la sua voce triviale, era una musica da fiera, tutta a starnuti di clarino, e capriole di flauto.
Si volle il bis d’altri due pezzi. Il valzer della sinfonia; il valzer biricchino era ricomparso, e trasportava gli Dei ne suoi vortici. Giunone; da massaio, dava pizzicotti e scapaccioni a Giove ed alla sua lavandaia. Diana, udito di un appuntamento dato da Venere a Marte, ne avvertiva Vulcano, il quale sclamava: «Ho pronto il mio piano.» Il resto «non era chiaro. La cosa finiva con un galoppe finale, dopo il quale Giove, anelante, molle di sudore, senza corona, dichiarava che le donnette di questa terra erano impagabili, esche tutto il torto era dei mariti.
Il telone calava fra gli applausi, allorquando alcune voci, dominando il fracasso, gridarono:
— Fuori! Fuori!
Allora il telone si rialzò, e gli artisti riapparvero stretti per mano. Nel mezzo, Nana e Rosa Mignon, salutavano. Si continuava ad applaudire. La claque urlava. Poi lentamente il teatro si vuotò mezzo.
— Bisogna che vada a salutare la contessa Muffat, disse La Faloise.
— Benissimo, mi presenterai, rispose Fauchery. Scenderemo poi.
Ma non era facile giungere ai palchi di prima fila.
Nel corridoio la gente si schiacciava. Per inoltrarsi in mezzo ai crocchi fermi colà, bisognava farsi piccini, scivolare lavorando di gomiti.
Addossato alla parete, sotto ana lampada d’ottone, da: cui scaturiva un zampillo di gas, il critico panciuto giudicava la produzione davanti ad un circolo d’uditori attenti. Alcuni, passando, bisbigliavano a bassa voce il suo nome.
Aveva riso durante tutto l’atto così si sussurrava negli anditi. Ora, però, si mostrava severo, parlava di morale e di buon gusto.
Più in là, il critico dalle labbra sottili, era pieno d’una certa benevolenza di sapore agro, come latte inacidito.
Frattanto Fauchery frugava collo sguardo nei palchi da fori tondi praticati nelle porte. Ma il conte di Vandeuvres lo fermò chiedendogli che cercasse, e quando seppe che i due cugini andavano a salutar i Muffat, indicò loro il palco n. 7 da cui usciva per l’appunto. Poi, chinandosi, all’orecchio del giornalista:
— Ebbene! mio caro, dite un po’, la Nana è certamente quella che abbiamo veduto una sera all’angolo di via Provenza..
— Tò! avete ragione! sclamò Fauchery. Lo dicevo io che la conoscevo.
La Faloise presentò i cugino al conte Muffat di Beuville, il quale sì mostrò assai freddo. Ma al nome di Fauchery, la contessa aveva alzato il capo con vivacità, e con garbo e discrezione lodava il cronista pei suoi articoli del Figaro.
I gomiti sul velluto del parapetto, la si voltava a mezzo con un moto di spalle graziosissimo.
Si discorreva a scatti; la conversazione cadde sull’Esposizione universale.
— Sarà bellissima, disse il conte, la, cui faccia quadra e regolare serbava, una gravità uffiziale, Ho visitato il campo di Marte oggi, ne son tornato pieno di maraviglia.
— Si assevera che nulla, sarà pronto, arrischiò La Faloise, è una confusione....
Ma il conte l’interruppe con la sua voce severa:
= Saranno promti.... L’imperatore lo vuole.
Fauchery raccontò briosamente che aveva corso il rischio, di rimaner nell’acquario, allora in costruzione, un giorno che era andato colà per cercarvi l’argomento d’un articolo.
La contessa sorrideva.
Essa guardava a quando a quando nel teatro, alzando, una delle braccia inguantate di bianco fino al gomito, facendosi vento con moto più riposato. — Il teatro, quasi vuoto, sonnecchiava; alcuni signori, nelle poltrone, avevano spiegati dei giornali: alcune donne ricevevano, ciarlavano, a tutt’agio, come in casa propria.
Non s’udiva più che un bisbiglio di società ammodo, sotto la lumiera, la cui luce si faceva più dolce tra il fine polverio sollevato da tutto il rimestare della folla. Soltanto gli uomini facevano ressa alle porte per veder le donne rimaste sedute, e stavano là, immobili per un momento, allungando il collo mostrando il bianco dei loro sparati.
— Contiamo su di voi per martedì prossimo, disse la con tessa a La Faloise.
Essa invitò anche Fauchery, che ringraziò con un inchino..
Non si parlò affatto della commedia, il nome di Nana non fu nemmeno pronunciato.
Il conte serbava una dignità così gelida che lo si sarebbe creduto a qualche seduta del Corpo legislativo. Disse soltanto, per giustificare la loro presenza in tal luogo, che suo suocero amava il teatro. La porta del palco era rimasta aperta; il marchese di Chouard, uscito per lasciar il posto ai visitatori, raddrizzava la sua alta figura di vecchio, la faccia floscia e bianca sotto il cappello e larga tesa, seguendo con occhio torbito le donne che passavano.
Appena la contessa ebbe fatto il suo invito, Fauchery prese commiato, comprendendo che sarebbe fuor di luogo parlar della produzione. La Faloise uscì ultimo dal palco. Aveva veduto appunto nel proscenio di Vandeuvres il biondo Labordette, comodamente insediato, che s’intratteneva molto davvicino con Bianca di Sivry.
— Orsù! disse appena ebbe raggiunto il cugino, quel Labordette conosce dunque tutte le donne?.... Eccolo ora con Bianca..
— Sicuro, le conosce tutte, rispose placidamente Fauchery.
Da dove vieni tu dunque, caro mio?
L’andito s’era un po’ vuotato.
Fauchery stava per scendere, quando Lucia Stewart lo chiamò, Era in fondo, davanti alla porta del suo palco. Disse che là dentro s’arrostiva, ed occupava tutta l’ampiezza del corridoio insieme con Carolina Héquet e colla madre di questa, intenta a mangiar mandorle toste. Una guardiana ciarlava famigliarmente con loro. Lucia si bisticciò col giornalista: com'era amabile! saliva a trovar le altre donne e non veniva nemmeno a domandar se esse avevano sete!
Poi, abbandonando quell’argomento:
— Sai, caro, io trovo Nana molto bella.
Voleva farlo restar nel proscenio per l’ultimo atto, ma egli se la batté promettendo di venire a prenderle dopo.
Giù nella strada, davanti al teatro, Fauchery e La Faloise accesero le sigarette. Una calca di gente ostruiva il marciapiedi, molti eran scesi a respirare la frescura notturna in mezzo al mormorìo illanguidito del Boulevard.
Intanto Mignon aveva trascinato Steiner al caffè delle Varietà. Vedendo il successo di Nana s’era messo a parlar di lei con entusiasmo, sorvegliando il banchiere con la coda dall’occhio.
Lo conosceva, lui; già due volte l’aveva aiutato ad ingannar Rosa, poi, passato il capriccio, gliel’aveva ricondotto pentito e fedele, Al caffè, gli avventori troppo numerosi si stipavano intorno alle tavole di marmo.
Alcuni bevevano in piedi precipitosamente, e le grandi specchiere riflettevano all’infinito quel mare di teste, ingrandivano smisuratamente l’angusta sala colle sue tre lumiere, i sedili di marocchino, la scala a chiocciola coperta di rosso.
Steiner andò a mettersi ad una tavola nella prima sala, sul Beulevard, dove s’eran tolte le porte un po’ presto per la stagione. Mentre Fauchery e La Faloise passavano, il banchiere li chiamò.
— Venite a prendere un boch con me.
— Ma un’idea lo preoccupava. Voleva far gettare un mazzo di fiori a Nana. Finalmente ne diè incarico ad un cameriere di sua confidenza che chiamava alla buona Augusto.
Mignon, che ascoltava, gli diè un’occhiata così eloquente ch’egli si turbò, e, balbettando:
— Due mazzi, Augusto, e dateli alla guardiana: uno per ciascuna di quelle signore, e in buon punto, eh!
All’altro capo della sala, colla nuca poggiata contro alla cornice d’uno specchio, una ragazza appena diciottenne, stava immobile davanti ad un bicchiere vuoto, come intorpidita da una lunga e inutile attesa. Sotto i bei capelli biondi, naturalmente increspati, aveva, un volto da vergine dagli occhi, di velluto, dolci e candidi; portava una veste di seta verde, scolorita, con un cappello rotondo, tutto «sgualcito e pesto come se avesse toccato qualche bussa. Il freddo la faceva bianca bianca.
— Tò! Ecco Satin, mormorò Fauchery scorgendola.
La Faloise l’interrogò. Oh! una yagabonda dei Boulevard, una femmina da nulla. Ma così, monella, che tatti si diyertivano a farla ciarlare.
E il giornalista, alzando, la voce:
-— Che fai lì dunque Satin?
— Mi secco, ella rispose placidamente senza muoversi.
I quattro uomini si misero a ridere. Mignon assicurava che non c’era da affannarsi; ci voleva mezz’ora pegli scenari del terz’atto. Ma i due cugini, che avevano bevuto la loro birra, vollero risalire. Cominciavano ad aver freddo.
Allora Mignon, rimasto solo con Steiner, allargò i gomiti sulla tavola, gli parlò sotto il naso:
— Eh! Siam intesi: andremo da lei: vi presenterò... questo fra noi, sapete, non c’è bisogno.. che mia moglie lo sappia.
Fauchery e La Faloise, tornati alloro posto, notarono, una bella donnina, in seconda fila, modestamente vestita. Era con un signore dall’aspetto serio, un capo divisione al ministero dell’interno che Faloise conosceva per averlo incontrate dai Muffat. In quanto a Fauchery, riteneva che la signora si chiamasse madama Robert: aveva fama d’onesta; teneva un amante, ma uno solo, non più, e sempre un uomo rispettabile.
Daguenet, mandò ai due un sorriso.
Ora che Nana era riuscita, non si nascondeva, più, ei pure negli anditi aveva trionfato. Accanto a lui il giovine collegiale non aveva lasciato la sua poltrona vinto tuttavia dallo stupore d’ammirazione in cui Nana lo aveva immerso. Era il gran segreto.... Era la donna! E diventava rosso rosso, metteva è levava macchinalmente i guanti. Poi, siccome il vicino aveva parlato di Nana, osò interrogarlo:
— Scusate, signore: quella signora che recita la conoscete — Sì un po’! mormorò Daguenet, stupito ed esitante. — Allora sapete dove sta di casa?
La domanda, fatta a lui, giungeva così cruda, che ebbe veglia di rispondere con una ceffata.
— No, disse asciutto.
E voltò le spalle. Il biondino comprese che aveva commesso una sconvenienza; si fe’ ancora più rosso e restò tutto stravolto. Battevano i tre colpi, le guardiane si ostinavano a restituire i vestiti, cariche di pelliccie e di pastrani, in mezzo alla folla che rientrava.
All’alzar del sipario la claque applaudì la scena che rappresentava una grotta dell’Etna, scavata in una miniera d’argento, i cui fianchi avevano lo splendore degli scudi nuovi di zecca; in fondo, la fucina di Vulcano metteva un bagliore di tramonto. Alla seconda scena, Diana se l’intendeva col Nume, che doveva finger un viaggio per lasciar il campo libero a Venere ed a Marte.
Poi, appena Diana era sola, giungeva Venere. Un fremito scosse la sala. Nana era nuda; nuda con placida audacia, sicura dell’onnipotenza della sua carne. Un semplice velo la ricingeva tutta; le sue spalle tonde, il seno d’amazzone, le cui punte rosee tenevansi erette e rigide come lancie, i larghi fianchi che s’agitavano in voluttuose movenze, le coscie da bionda paffuta, tutto quanto il corpo s’indovinava, si vedeva sotto il tessuto leggiero, d’una candidezza di schiuma. Era Venere nascente dall’onda, coi capegli per solo suo velo. E quando Nana alzava il braccio, si vedevano alla luce della ribalta, i peli d’oro delle ascelle» Non vi furono applausi. Nessuno rideva più, le facce degli uomini erano contratte, serie, il naso allungato, la bocca asciutta. Pareva fosse passato sulla platea un soffio leggiero, pregno di sorda minaccia. Ad un tratto, nella fanciullona bonaria, sorgeva la donna, la donna pericolosa, la donna che v’inebbria, vimpazza, che vi spalanca l’abisso ignoto del desiderio. Nana sorrideva tuttavia, ma d’un sorriso acre, un sorriso di divoratrice d’uomini
— Perdio! fe’ semplicemente Fauchery a La Faloise.
Marte, frattanto, accorreva al convegno col suo pennacchio e si trovava fra lo due dee. Seguiva una scena che Prullière recitò con molta finezza. Vezzeggiato da Diana, che voleva tentar un’ultima prova prima di darlo: in mano a Vulcano, accarezzato da Venere, cui la presenza della rivale istigava, egli si abbandonava a tutte quelle sdolcinature con una beatitudine da porchetto grattato.
Poi, un gran terzetto chiudeva la scena, ed allora una guardiana, comparendo nel palco di Lucia Stewarî, gettò sulla scena due enormi mazzi di serenelle.
Si applaudì.
Nana e Rosa salutarono il pubblico, mentre Prullière raccoglieva i mazzi.
Una parte dell’orchestra si volse sorridendo al palco di Steiner e di Mignon.
Il banchiere, colla faccia paonazza, faceva moti convulsi col mento, come se avesse un gruppo alla gola.
La scena seguente rapì il pubblico.
Diana se n’era ita furibonda. Subito Venere, mezz'adagiata sur un sedile di musco si chiamava Marte vicino.
Mai non s’era ardito porre sul teatro una scena di seduzione così arrischiata.
Nana, strette le braccia intorno al collo di Prullière, lo attirava, quando Fontan, con mimica di buffonesco furore, esagerando la fisionomia di un marito oltraggiato che sorprende la moglie in flagrante delitto, comparve in fondo alla grotta. Teneva in mano la famosa rete a maglie di ferro. Per un momento la dondolò, come pescatore nell’atto di gettare la ritrecina, poi, con un colpo di destrezza ingegnosa, colse al laccio Venere e Marte, e la rete li avviluppò, li immobilizzò nella loro attitudine di amanti felici.
Un mormorio crebbe, come un sospiro che si fa più profondo.
Alcuni applaudivano: tutti i binoccoli rimanevano fissi su Venere,
A poco a poco Nana s’era impadronita del pubblico, ed ora ogni uomo ne subiva il fascino.
Il calore che si sprigionava da lei, come da una bestia in amore, s’era sempre maggiormente diffuso, riempiendo il teatro.
A quell’ora ogni sua movenza stillava il desiderio: un gesto del suo dito mignolo scuoteva le fibre. Si vedevano dorsi arrotondarsi, fremendo come se degli archi d’istrumento invisibili avessero strisciato sui muscoli, delle nuche che mostravano riccioli capricciosi, ondeggianti sotto a tepidi soffi vagabondi, venuti chi sa da quali labbra femminili.
Fauchery vedeva davanti a sè il collegiale, cui il fuoco amoroso pareva sollevare dalla seggiola.
Ebbe la curiosità di guardar il conte di Vandeuvres, pallidissimo, le labbra strette; il grosso Steiner, la cui faccia apoplettica era lì lì per scoppiare. Labordette, che, colla lente nell’orecchio, guardava col fare meravigliato d’un mercante di cavalli che ammiri una bella giumenta; Daguenet, le cui orecchie si facevano purpuree e tremolavano per voluttà.
Poi un istinto gli fe’ volger un’occhiata indietro e restò sorpreso di ciò che vide nel palco dei Muffat; dietro alla contessa, bianca e seria, il conte si rizzava a bocca aperta, la faccia chiazzata di macchie rossastre, mentre vicino a lui, nell’ombra, le torbide pupille del marchese di Chouard s’eran fatte due pupille da gatto, fosforescenti punteggiate d’oro.
Si soffocava, i capelli si facevan grevi sulle teste sudate. Da tre ore che tutta quella turba era lì, gli aliti avevan riscaldata l’aria e vi’ avevano diffuso un odore umano. Nel fiammeggiare del gas, il polverìo sospeso nell’atmosfera, si faceva più denso, immobile all’ingiro della lumiera, come una nebbia giallastra. Tutto quel pubblico barcollava, preso da vertigini, stanco ed eccitato, afferrato da quei desideri sonnacchiosi della mezzanotte che vengono sussurati in fondo alle alcove. E Nana, rimpetto a quel pubblico tramortito, a quelle mille e cinquecento persone, pigiate, affogate nella stanchezza e nell’infiacchimento nervoso d’una fine di spettacolo, restava lì vittoriosa con le sue carni di marmo, conscia di poter distruggere con la potenza del sesso tutta quella gente e non esserne offesa.
La commedia finì. Alle chiamate tuonanti di Vulcano, tutto l’Olimpo accorso, sfilava dinanzi agli amanti con degli oh! e degli uh! di meraviglia e di oscena allegria.
Giove diceva a Vulcano: Figlio mio, bisogna avere poco cervello per invitarci a veder questa scena.
Poi la corrente si mutò in favor di Venere.
Il coro dei Cornuti, nuovamente introdotto da Iride, pregava il padre degli Dei di non dar seguito alla sua supplica; dacchè le donne se ne stavano chete in casa, gli uomini non ci potevano più vivere; preferivano esser ingannati e contenti... il che era la morale della commedia.
Allora Venere veniva liberata. Vulcano otteneva una separazione di letto e mensa. Marte tornava con Diana. Giove, per avere anco lui la pace in casa, metteva la sua piccola lavandaia in una costellazione. E finalmente si toglieva dal carcere l’Amore, che aveva fatto delle barchette di carta invece di coniugare il verbo amare. Calava il sipario sur un’apoteosi; il coro dai Cornuti, in ginocchio, cantava un inno di gratitudine a Venere sorridente e altera nella sua divina nudità...
Gli spettatori, già in piedi, si affrettavano verso l’uscita. Si proclamò il nome degli autori; vi furono due chiamate fra una salva d’applausi.
Il grido di «Nana! Nana!» corse alto e tuonante. Poi la sala, non ancora vuota, si fe’ buia; i lumi della ribalta si spensero, la lumiera si fece pallida, lunghe fodere di tela grigia scivolarono dai prosceni, ravvolsero le dorature delle gallerie, e quel teatro, così caldo e così rumoroso, in un momento fu sepolto in un greve sonno, mentre un odore di polvere e di muffa saliva nell’aria.
Sul davanti del suo palco, aspettando che la folla dileguasse, la contessa Muffat, ritta in piedi, camuffata di pelliccie, guardava l’ombra invadente.
Nei corridoi la gente si sospingeva, le guardiane perdevano la testa fra mucchi di pastrani rotolati al suolo. Fauchery e La Faloise si eran affrettati per assistere all’uscita dall’atrio. Molti uomini vi facevano ala, mentre dalla doppia scala due file interminabili di gente scendevano, sfilavano, fitte, regolari e compatte. Steiner e Mignon, che avevano fretta, se l’erano svignata pei primi.
Il conte di Vandeuvres partì con a braccio Bianca di Sivry. Per un momento Gaga e sua figlia rimasero come imbarazzate in quella calca, ma Labordette s’affrettò a provvedere
una carrozza, di cui richiuse galantemente lo sportello sulle due protette.
Nessuno aveva veduto passare Daguenet. Il collegiale, colle guancie infocate, deciso di aspettare all’uscio degli artisti, correva alla galleria dei Panorama, di cui trovò il cancello chiuso. Satin, ritta sul marciapiedi, gli venne d’attorno: ma lui, disperato, la rifiutò brutalmente e si perdette nella folla, gli occhi pieni di lagrime di desiderio e di impotenza. Molti spettatori accendevano lo sigaro e si allontanavano cantarellando, Quando alla sera Venere. Satin era tornata davanti al caffè delle Varietà, dove Augusto la lasciava mangiare lo zuccaro che rimaneva sui vassoi. Un omaccione che usciva, riscaldato da teatro, la menò seco finalmente nell’ombra del Boulevard quasi affatto deserto.
Però vi era gente che scendeva tuttavia. La Faloise era în attesa di Clarissa. Fauchery aveva promesso di ricondurre Lucia con -Carolina Hèquet e sua madre. Esse giungevano finalmente, occupavano tutt’un angolo dell’atrio, ridendo forte, quando i Muffat passarono, gelidi nel contegno. Bordenave sbucato da una porticina, otteneva da lui la promessa formale di un’appendice. Era molle di sudore, la faccia paonazza come avesse ricevuto un colpo di sole, briaco del successo.
— Ne avrete per dugento rappresentazioni, gli disse cortesea La Faloise. Tutta Parigi sfilerà al vostro teatro.
Ma Bordenave, stizzito, additando con un brusco sporge del mento il pubblito che ingombrava tuttavia il vestibolo quella calca d’uomini dalle labbra secche, dagli occhi ardenti, ancor tutta infiammata dal possesso di Nana, gli gridò con violenza:
— Dite una buona volta al mio postribolo, testardo che siete!