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NANA



I.

Alle nove il teatro delle Varietà era tuttavia vuoto. Alcune persone soltanto, nel palchettone ed all’orchestra, aspettavano, disseminate fra i seggioloni di velluto granata, nella scarsa luce della lumiera tenuta a mezza fiamma. Un’ombra oscurava la gran macchia color porpora del sipario, nessun rumore veniva dalla scena, i lumi della ribalta spenti, i leggii dei suonatori in disordine; solo in alto, nella terza galleria, intorno alla rotonda della volta, dove donne e puttini ignudi prendevano il volo in un cielo reso verdognolo dal gas — chiamate e risate uscivano da un continuo sussurrio di voci, e delle teste coperte di berretti e di cuffie, spiccavano le une sulle altre, scaglionate sotto i fori rotondi, incorniciati d’oro. Di tempo in tempo, appariva una guardiana, affaccendata, coi biglietti in mano, spingendosi davanti un uomo ed una signora, che sedevano, l’uomo in giubba a coda di rondine, la donna, attilatina ed aggraziata, volgendo attorno una lenta guardata. Due giovinotti apparvero nelle poltrone vicine all’orchestra. Stettero ritti, dando le spalle alla scena, guardando. — Non te lo dicevo io, Ettore! sclamò il più vecchio, un pezzo di giovinotto dai baffettini neri, giungiamo troppo presto. Mi potevi lasciar finire lo sigaro.

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