Parte prima - II

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Parte prima - I Parte prima - III

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II.

L’indomani alla dieci Nana dormiva ancora. Abitava a boulevard Haussman, il secondo piano d’un casone nuovo che il proprietario appigionava «a donne sole» perchè ne rasciugassero i muri. Un ricco mercante di Mosca, venuto a passar un inverno a Parigi, l’aveva alloggiata là pagando sei mesi anticipati.

L’appartamento, troppo ampio per lei, non era mai su mobiliato interamente; vi era un lusso chiassoso, di cattivo gusto; mensole e seggiole dorate stonavano accanto a cianfrusaglie da rigattiere, tavolini di mogano e candelabri di zinco che volevano figurare per bronzi fiorentini.

Quell’appartamento rivelava la ragazza troppo presto abbandonata dal primo protettore ammodo, caduta in balìa di amanti ambigui, tutto un esordio difficile, fallito, impastoiato da rifiuti di credito e da minaccie d’espulsioni.

Nana dormiva supina, stringendo fra le braccia nude il guanciale in cui affondava il viso fatto pallido dal sonno.

La camera da letto e 1o spogliatoio erano le due sole stanze che un tapezziere del rione avesse allestite con cura. Un po” di luce scivolava sotto alle cortine, si discerneva il mobiglio in palissandro, le tappezzerie e le seggiole di braccato a fiorami azzurri su fondo grigio.

Ma, nel tepore madido di quella camera, immersa nel sonno Nana si destò in sussulto, come sorpresa di sentirsi daccanto un vuoto.

Guardò il secondo guanciale steso accanto al suo, che tra e trine mostrava l’impronta ancor calda d’una testa, e con mano incerta, intorpidita, compresse il bottone del campanello elettrico vicino al capezzale: [p. 33 modifica] — È dunque partito il signore? chiese alla cameriera che apparve.

— Sissignora. Il signor Paolo se n’è andato dieci minuti fa... Siccome la signora era stanca, non ha voluto la si destasse. M’ha incaricato però di dire alla signora che verrebbe domani.

Così parlando, Zoè, la cameriera, apriva le imposte.

La viva luce del meriggio entrò. Zoè, molto bruna, i capelli lisciati sulle tempie, aveva un viso lungo, un muso da cane, livido e cincischiato, con un naso depresso, grosse labbra ed occhi neri continuamente irrequieti.

— Domani, domani, ripeteva Nana, tuttavia mal desta: è il suo giorno domani?

— Sissignora, il signor Paolo è sempre venuto in mercoledì.

— Eh! no: mi ricordo ora, gridò la giovine donne rizzandosi. Tutto è cambiato, Voleva dirglielo appunto stamane...

S’incontrerà col moretto. Un bell’impiccio! Avremo una scena!

— La signora non mi ha avvertita: io non potevo saperlo; mormorò Zoè. Quando la signora cambierà i suoi giorni, farà bene di avvisarmi... Allora il vecchio usuraio non è più per il martedì!

Chiamavano così parlando tra loro e senza ridere, i due che pagavano: un negoziante del sobborgo San Dionigi, di indole parsimoniosa, ed un Valacco, un preteso conte, il cui denaro sempre irregolare, veniva non si sa dove. Daguenet s’era fatto dare i giorni susseguenti alle visite del vecchio.

Siccome il negoziante doveva essere per le otto al fondaco, il giovine, dalla cucina di Zoè, ne spiava la partenza e pigliava il suo posto ancor caldo, fino alle dieci, poi se ne andava anche lui per le sue faccende. Nana e lui trovavano la cosa molto comoda.

- Tanto peggio, disse, gli scriverò stassera... e se non riceve la lettera domani, non lo lascierete entrare.

Zoè intanto s’aggirava piano per la camera, parlava del gran successo del giorno innanzi. La signora aveva mostrato tanto talento, cantava così bene! Ah! ormai la signora poteva essere tranquilla!

Nana, col gomito sul guanciale, non rispondeva che con [p. 34 modifica] cenni del capo. La camicia le era scesca giù; i capelli sciolti tutt’arruffati le scorrevano sulle spalle..

— Sicuro, mormorò pensosa, ma come si fa ad aspettare?avrò mille seccature oggi. Sentiamo, il portinaio è salito di nuovo stamane?

Allora le due donne parlarono seriamente. Nana doveva tre rate d’affitto, il proprietario minacciava il sequestro. Poi c’era una frotta di creditori, un affitta-vetture, una mercante di biancheria, un sarto, un carbonaio ed altri che ogni giorno venivano a piantarsi sulla panchina dell’anticamera; il carbonaio sopratutto era terribile, gridava per le scale, ma il grosso affanno di Nana era il suo Gigino, un bimbo avuto a sedici anni, che lasciava dalla balia in un villaggio vicino a Rambouillet. Quella donna voleva trecento franchi per rendere Gigino.

Nana, colta da una crisi di amor materno dopo l’ultima visita al bimbo, si disperava di non poter compiere il suo disegno, diventato idea fissa, di pagar la balia e affidar il piccino a sua zia, madama Lerat, a Batignolles, dove lo avrebbe potuto vedere quanto voleva.

Nondimeno la cameriera insinuava che la signora avrebbe dovuto confidare le sue strettezze al vecchio usuraio.

— Eh! gli ho detto tutto, gridò lei. Mi ha risposto che aveva, pel momento troppo forti scadenze. Non vuol dar un centesimo più dei suoi mille franchi il mese.... Il moretto per ora è al verde; credo che abbia perduto al giuoco... In quanto al povero Mimi, avrebbe bisogno lui che gliene prestassero; il ribasso l’ha pulito, non mi può nemmeno più portare dei fiori.

Parlava di Daguenet; nell’abbandono del primo destarsi non avea segreti per Zoè. La quale, abituata a simili confidenze, le riceveva con rispettosa simpatia.

E poi che la signora degnava parlarle dei suoi affari, ella si permetterebbe di dire il suo parere.

Prima di tutto amava molto la signora, per lei aveva lasciato la signora Bianca, o Dio sa se la signora Bianca s’era data attorno per riaverla! [p. 35 modifica]

Eh! i posti non mancavano, era abbastanza conosciuta; ma sarebbe rimasta con la signora, anche se questa si fosse trovata in istrettezze, perchè credeva al di lei avvenire.

E si diè a precisar i consigli.

Quando si è giovani si manca d’esperienza, si fanno mille sciocchezze. Questa volta bisognava aver occhio, seeglier bene, perchè gli uomini non pensano che alla celia, Oh quanti stavano per accorrere! La signora con una parola potrebbe chetar i creditori e procacciarsi oro a palate.

— Sì, sì, ma tutto ciò non mi dà trecento lire, ripeteva Nana tuffando le dita nei capricciosi riccioli della folta capigliatura. Mi occorrono trecento franchi oggi, subito. È stupido non conoscere qualcuno che vi dia trecento lire.

E cercava, ruminava.

Essa avrebbe mandato subito a Rambouillet da madama Lerat, ch’ella aspettava quell’istessa mattina. Il capriccio contrastato le guastava il trionfo del giorno innanzi.

Fra tutti quegli uomini che l’avevano applaudita, non se ne troverebbe dunque uno che le desse quindici luigi! E poi non si poteva accettare del denaro lì per lì. Dio buono, quant’era infelice!

E tornava sempre al suo Gigino, che aveva gli occhi azzurri come un cherubino, che balbettava; «Mamma,» con voce sì singolare da morirne dalle risa,

In quel punto si fece udire il campanello elettrico dell’anticamera colta sua vibrazione rapida e tremolante.

Zoè andò ad aprire e tornò mormorando con fare confidenziale:

— È una donna.

Aveva veduto venti volte quella donna, ma ostentava di non riconoscerla e di ignorare quali fossero i suoi rapporti colle signore che si trovano nell’impiccio.

— M’ha detto il suo.. madama Tricon.

— La Tricon! sclamò Nana. To, è vero. L’avevo scordata un Fatela entrare.

Zoè introdusse una signora attempata, d’alta statura, con lunghi ricci, che aveva il contegno d’una contessa cha: frequenti gli studi d’avvocato. Pòi uscì, sparve, senza rumore, [p. 36 modifica] con quel moto fiessuoso da serpe con cui soleva uscire da una camera, quando un signore vi entrava. Avrebbe però potuto rimanere. La Tricon non sedette neppure. Non vi fa che uno scambio di parole rapide.

— C’è qualcuno per voi, oggi; lo volete?

— Sì..., quanto?

— Venti luigi.

— À che ora?

— Alle tre.... Allora, è cosa intesa?

— Cosa intesa.

La Tricon parlò subito del tempo che si metteva all’asciutto e che invitava a passeggiare. Aveva ancora quattro o cinque visite da fare. E se ne andò dopo aver consultato un libriccino di note.

Rimasta sola, Nana parve sollevata. Un lieve fremito le scorreva sulle spalle, si ricacciò nel letto caldo con una pigrizia da gattina freddolosa.

A poco a poco le palpebre si chiusero; sorrideva all’idea di mettere il suo Gigino in fronzoli il domani: mentre, nel sonno che la riprendeva, il suo sogno febbrile di tutta la notte, un rombo prolungato d’applausi, formava come un accompagnamento e cullava la sua stanchezza..

Alle undici, allorquando Zoè fe’ entrar in camera madama. Lerat, Nana dormiva ancora. Ma al rumore si destò, e subito:

— Sei tu? andrai oggi a Rambouillet.

— Vengo per ciò, disse la zia. C’è una corsa a mezzodì e venti. Sono in tempo.

— No, il denaro non lo avrò che dopo mezzogiorno, riprese la giovane stirandosi col petto rigonfio. Farai colazione con me, poi vedremo.

Zoè portava un accapatoio.

— Signora, mormorò, c’è il parrucchiere.

Ma Nana non volle passare nello spogliatoio. Gridò lei stessa:

— Entrate, Francesco.

Un signore attilato spinse l’uscio, salutò. Appunto allora Nana metteva fuori le gambe nude dal letto. Non si diè premura, stese le mani perchè Zoè le infilasse l’accapatoio. E [p. 37 modifica] Francesco, senza voltarsi, dignitoso e disinvolto, aspettava. Poi, quando si fu seduta e ch’egli ebbe dato una prima ravviatura con un colpo di pettine, parlò.

— La signora non ha forse ancora veduto i giornali.... C’è un articolo bellissimo sul Figaro.

Egli aveva comperato il giornale.

Madama Lerat inforcò gli occhiali e lesse l’articolo ad alta voce davanti alla finestra. Si rizzava nella sua statura da carabiniere, contraendo le nari quando pronunziava un epiteto galante. Era una cronaca di Fauchery buttata giù all’uscir di teatro, due colonne molto vivaci, briose e maligne in quanto riguardava l’apprezzamento dell’artista, di un’ammirazione brutale per la donna.

— Molto bene, molto bene, ripeteva Francesco.

Poco importava a Nana che si burlassero della sua voce! Lo trovava grazioso quel Fauchery; l’avrebbe magari compensato della sua cortesia.

Madama Lerat, riletto l’articolo, disse a bruciapelo che gli uomini avevano tutti la tarantola nei polpacci; e rifiutò spiegarsi più chiaramente, contenta d’aver trovato quell’allusione lesta che lei sola intendeva.

Francesco intanto, finiva di rialzare e di annodare i capelli di Nana; poi salutò dicendo:

— Starò attento ai giornali della sera... Devo venire come al solito, eh! alle cinque e mezzo?

— Portatemi un vasetto di pomata ed una libbra di mandorle toste di Boissièr! gli gridò dietro Nana attraverso il salotto mentre richiudeva la porta.

Rimaste sole, le due donne si ricordarono che non si erano ancora abbracciate, e si misero a stamparsi grossi baciozzi sulle guancie; l’articolo le aveva messe in allegria. Nana fino allora mezzo assonnata, fu ripresa dalla febbre del suo trionfo...Ah! pensava, non deve essere lieto questo mattino per Rosa Mignon!

Siccome sua zia non aveva voluto venir a teatro, perchè, a quanto diceva, le commozioni le facevano male, si diè a raccontarle la serata, e, nel raccontare, s’inebbriava delle sue parole stesse; pareva che tutta Parigi si fosse subissata sotto [p. 38 modifica] gli applausi. Poi, interrompendosi, chiedeva, ridendo, se qualcuno avrebbe preveduto quei trionfi, quando cenciosa monelluccia, si trastallava nel fango della via Goccia d’Oro. Madama Lerat scrollava la testa. No, no, nessuno, per certo, l’avrebbe pensato.

A sua volta prese la parola con far grave, chiamando Nana sua figlia. Non era forse lei una seconda mamma, ora che la vera aveva raggiunto il babbo e la nonna? Tanto disse, che Nana, intenerita fu lì lì per piangere.

Senonchè madama Lerat ripeteva che il passato era passato; una bruttura, cose da non rimestare. Per lungo tempo non era venuta a veder la nipote perchè in famiglia la si accusava di traviar la bimba e di perdere sè medesima. Coma, mio Dio, se fosse stato possibile!

Lei non le chiedeva nessuna confidenza, lei riteneva avesse sempre vissuto come si deve. Ora era paga di ritrovarla in una buona posizione, con ottimi sentimenti verso suo figlio, già a questa mondo non c’era che l’onestà ed il lavoro.

— Di chi è quel piccino? disse interrompendosi, cqgli occhi accesi da curiosità acuta.

Nana, sorpresa, esitò un momento.

— D’un signore, rispose poi.

-— Tò! fe’ la zia, correva voce che tu l’avessi avuto da un muratore che ti bastonava.... Basta, mi conterai la cosa un qualche giorno. Sai bene come sono discreta!..... Sta tranquilla, ne avrò cura come fosse il figlio d’un principe,

Essa aveva lasciato il suo mestiere di fiorista e viveva dei suoi risparmi, seicento lire d’entrata, raggruzzolate soldo per soldo. Nana promise di prendere a pigione per lei un quartierino e di darle cento lire il mese.

A quella cifra, la vecchia scordò la parte recitata fino allora, e gridò alla nipote di mungerli tutti per bene giacchè li aveva fra l’unghie.

Parlava degli uomini.

Tutte due s’abbracciarono di nuovo.

Ma mentre Nana, nella sua gioia, tornava a parlar di Gigino, parve rabbuiarsi ad un improvviso ricordo sgradito.

— Che seccatura! Mi tocca uscir di casa alle tre, mormorò.

È pure una gran noia! [p. 39 modifica] Appunto in quella Zoè venne ad avvertire la signora che era in tavola, e le donne si recarono nella sala da pranzo, ove una signora attempata era già seduta davanti alla mensa apparecchiata.

Non s’era tolto il cappello di testa, ed indossava una veste oscura di tinta indecisa che stava tra il color pulce e lo sterco d’oca.

Nana non sembrò punto meravigliata di vederla là e non fece altro che chiederle perchè non fosse entrata in camera.

— Ho udito delle voci, rispose la vecchia; ho pensato che aveste gente.

La signora Maloir aveva l’aria d’una brava donna, dai modi civili, che serviva da amica a Nana, facendole compagnia e scortandola quando usciva.

Salle prime sembrò inquietarsi della presenza della Lerat, ma saputa che era una zia, la guardò con dolcezza e le volse un languido sorriso.

Frattanto Nana che diceva aver lo stomaco nelle calcagna afferrò avidamente il piatto dei ravanelli e si diè a rosicchiarli senza pur toccar pane.

Madama Lerat, fattasi riguardosa, non ne volle, perché facevano venir la pipita.

Poi, quando Zoè recò le costolette, Nana cincisochiò la carne, limitandosi a succhiar l’osso.

Tratto tratto esaminava colla coda dell'occhio il cappello della sua vecchia amica. Infine uscì a dire:

— È quello nuovo che v’ho dato io?

— Sì: l’ho rifatto a mio modo, mormorò la Maloir a bocca piena.

Il cappello era stravagante, s’allargava sulla fronte adorno di un’alta piuma. La Maloir aveva il ticchio di rifar tutti i suoi cappelli; lei sola sapeva quali fogge le si adattassero, e trasformava d’un colpo di mano ogni più elegante acconciatura in una cuffiaccia.

Nana, che le aveva appunto comperato quel cappello per non aver più da arrossire quando usciva in sua compagnia, fu lì lì per montar in bizza.

— Toglietevelo almeno! gridò. [p. 40 modifica]

— No, grazie, rispose dignitosamente la vecchia. Non mi dà fastidio, posso benissimo mangiare tenendolo in testa.

Dopo le costolette vi furono dei cavoli-fiori e un avanzo di pollo freddo.

Ma Nana, ad ogni cibo, arricciava il naso, esitando, annusando, lasciando ogni cosa sul piatto, sicchè finì di far colazione con delle confetture.

Il dessert strascicò alquanto, andò per le lunghe. Zoe servì il caffè senza sparecchiare, le signore avendo semplicemente scostati i loro piatti.

Si parlava sempre della bella serata della vigilia. Nana ravvolgeva delle zigarette che fumava dondolandosi arrovesciata sulla spalliera della seggiola.

E siccome Zoè era rimasta lì, poggiata alla credenza, le mani in mano, si finì collo starsene ad ascoltar la sua storia. La si diceva figlia di una levatrice di Bercy, che aveva fatto cattivi affari. Dapprima aveva servito da un dentista, poi da un sensale d’assicurazioni; ma non era il suo genere; ed enumerava poi con un po’ d’orgoglio le signore presso le quali era stata come cameriera. Parlava di loro come se ne avesse tenuta in mano la fortuna; sicuro che senza di lei, più d’una l’avrebbe veduta brutta. Per esempio, un giorno che la signora Bianca era col signor Ottavio, ecco giungere il vecchio: e che fa Zoe? Finge di cadere attraversando il salotto, il vecchio si scaglia a prenderle un bicchier d’acqua in cucina e l’amico se la dà a gambe.

— Oh, questa è buona, per esempio! disse Nana che l’ascoltava con tenero interesse, una specie di ammirazione sommessa.

— Io ho avuto molto disgrazie..... cominciò madama Lerat.

E, ravvicinandosi alla Maloir, le fece delle confidenze, mentre tutte e due bagnavano dei pezzi di zuccaro nel caffè. La Maloir ascoltava però senza mai lasciarsi scappare nulla di sè. Si bucinava che vivesse di una pensione misteriosa, in una camera ove nessuno penetrava.

All’improvviso Nana incollerì e s’adirò.

— Zia, non giocar coi coltelli.... Sai che ciò mi fa rimescolar tutta. [p. 41 modifica] Madama Lerat, senza badarvi, aveva messo due coltelli in croce sulla tavola. Del resto Nana sosteneva di non esser superstiziosa e diceva che il venerdì e il rovesciar la saliera erano cose che non significavano nulla, ma non poteva sopportare la vista dei coltelli in croce; questo non fallava mai, sicuramente le accadrebbe sventura. Sbadigliò, poi, con aria di profonda noia:

— Già le due... debbo uscire. Che seccatura!

Le due vecchie si sogguardarono, indi tutte e tre crollarono il capo. La cosa di certo, non era sempre divertente.

Nana s’era di nuovo abbandonata sul seggiolone, accendendo un’altra zigaretta, intanto che le due stringevano le labbra con fare pieno di discrezione e di filosofia.

— Mentre vi aspettiamo, faremo una partita di bazzica, disse madama Maloir dopo un silenzio. Giuocate a bazzica, disse l’ultima dopo un momento di silenzio. Giuocate a bazzica, signora?

Di certo la signora Lerat la giuocava e benissimo; non importava disturbar Zoè che era sparita: un angolo della tavola basterebbe, e si arrovesciò la tovaglia sui piatti sporchi.

Ma nel mentre la Maloir andava a prendere le carte in un cassetto della credenza, Nana le disse che prima di mettersi a giuocare, ella dovrebbe essere così gentile da scriverle una lettera. A lei seccava di scrivere, e poi non si fidava della propria ortografia, mentre invece l’amica sapeva metter insieme delle lettere piene di sentimento.

Corse a pigliar della carta fina in camera: un calamaio o piuttosto una boccetta d’inchiostro da tre soldi, ed una penna impiastricata di ruggine, che strascinavano su per i mobili.

La lettera era per Daguenet,

La Maloir cominciò da sè, in un bel corsivo inglese, l’intestazione: «Mio amico diletto» e poi lo avvertiva di non venire il domani perchè, «questo non si poteva,» ma «davvicino come da lontano, in ogni ora, il suo pensiero era con lui.»

— E chiudo con «mille baci» mormorò la Maloir.

Madama Lerat approvava ogni frase con un moto del capo. [p. 42 modifica] I suoi sguardi mandavano lampi, essa adorava essere immischiata in intrighi amorosi; volle anzi metter vi del suo, abteggiandosi a tenerezza e tabando come colomba in amore: — «Mille baci sui taoi begli occhi.» — Ah! benone!... mille baci sui tuoi begli occhi!” ripetè Nana, mentre i volti delle due vecchie spiravano la beatitudine. Suonò poi perchè Zoè scendesse a consegnare la lettera ad un fattorino. Questa per l’appunto stava discorrendo con l’avvisatore del teatro, che portava alla signora il bollettino di servizio dimenticato la mattina. Nanà fece entrare costui e l’incaricò di portare nel ritorno la lettera a Daguenet. Poi gli fece delle domande. Oh! Bordenave era contentissimo; i posti erano già presi per otto giorni, la signora non poteva immaginare quanta gente fosse venuta quella mattina a chiedere il suo ricapito. Quando l’avvisatore se ne fu andato, Nana disse ch’ella rimarrebbe un’ora al più fuori di casa, e che, se venissero visite, Zoè le facesse attendere. Mentre parlava s’ udì il campanello elettrico. Era un creditore: il vetturale. S’era seduto sulla panca dell’anticamera. Colui poteva star lì a far girare i suoi pollici comodamente fino a sera: non c’era fretta. — Suvvia, coraggio, disse Nana intorpidita dall’inerzia, sbadigliando e stiracchiandosi di bel nuovo. Dovrei esser già là. Però non si muoveva. Badava al giuoco della zia, che accusava cento d’asso. Col mento sulla palma della mano rimaneva assorta. Ma diè un sobbalzo udendo suonar le tre. — Dio sacrato! sì lasciò sfuggite brutalmente. Allora la Maloir, pur contando i punti, l’incoraggiò con la sua voce flemmatica: — Bambina mia, sarebbe meglio vi toglieste subito l’ impaccio della vostra gita. — Spicciati, soggiunse madama Lerat mescolando le carte. Prenderò la corsa delle quattro e mezza, se alle quattro séi qui col denaro. [p. 43 modifica] — Oh! non l’andrà per le lunghe, mormorò.

In dieci minuti Zoè l’aiutò ad indossare un vestito ed a metter un cappello. Non le importava gran fatto d’esser mal conciata. Mentre stava per scendere, il campanello echeggiò di nuovo. Questa volta era il carbonaio. — Beh! starebbe a far compagnia al vetturale, così se la spasserebbero meglio quei due. Se non che Nana, temendo una scenata, attraversò la cucina e se la svignò per la scaletta di servizio — era abituata a passarvi; non c’era altra briga che quella di rialzare lo strascico.

Quando una donna è buona madre, bisogna perdonarle tutto, sentenziò la Maloir rimasta sola con madama Lerat.

_— Ottanta di re, rispose questa assorta nel giuoco.

- E entrambe s’ingolfarono in una partità interminabile.

La tavola non era stata sparecchiata. Un torbido vapore riempiva la camera, l’odore delle vivande e il fumo delle zigarette di Nana.

Le due vecchie tornarono da capo ad immergere pezzetti di zuccaro nel cognac.

— Giuocavano e succhiavano da una ventina di minuti, quando ad una terza scampanellata, Zoè entrò di botto spingendole a urtoni come fossero state pari sue.

— Orsù! disse. Suonano daccapo. Se vien molta gente mi occorre tutto l’appartamento.... Andiamo, via presto! via! La Maloir voleva finir la partita; ma Zoè, avendo fatto l’atto di confonder ed afferrar le carte, si decise a pigliarle su con cura, senza frammischiarle, mentre madama Lerat portavasi dietro il cognac, lo zuccaro ed i bicchieri. E tutte due si rifugiarono in cucina, dove presero posto ad un angolo della tavola, fra i cenci stesi ad asciugare e la ciottola tuttavia piena della lavatura dei piatti.

— Abbiamo detto 840. A voi.

— Giuoco cuori.

Quando Zoè tornò, le trovò di nuovo assorte nel gioco. In capo ad un momento, mentre la Lerat mescolava de carte, la Maloir chiese:

— Chi era?

— Oh! nessuno, rispose la fantesca con noncuranza, un [p. 44 modifica] giovinottino! ... Voleva mandarlo via, ma è così bellino e così roseo, senz’un pelo di barba, coi suoi occhi azzurri ed un viso da fanciulla, che mi son decisa a dirgli d’aspettare.... Tiene in mano un enorme mazzo di fiori, che non vuol lasciare a nessun patto, se non sarebbe il caso di pigliarlo a scapaccioni quel moccioso che dovrebbe esser sulle panche della scuola!

Madama Lerat andò a pigliar una boccia d’acqua per far un grog: lo zuccaro immolato nel caffè le aveva fatto venir sete.

Zoè mormorò che ne berrebbe volontieri anche lei, perchè aveva la bocca amara come fiele.

— E così, l’avete messo?... riprese la Maloir.

— To’! nel gabinetto in fondo, lo stanzino senza mobili.

C’è appunto lì un baule della signora ed una tavola; gli è colà che metto i minchioni.

“«E metteva zuccaro e poi zuccaro nel suo grog, quando il campanello le fè dar un balzo.

Corpo d’un cane! non la lascierebbero dunque bere in santa pace?

La giornata prometteva d’esser buona se lo scampanìo cominciava di già.

Corse però ad aprire, e, tornata, rispose alla Maloir che l’interrogava con un occhiata:

— Nulla: un mazzo di fiori.

Senonchè le signore, fra due alzate di carte, diedero una risata udendola descrivere i visacci che facevano i creditori all’arrivo di quei fiori.

La signora troverebbe i mazzi sul tavolino dello spogliatoio. Peccato che costassero un occhio e non se ne potesse cavare nemmeno dieci soldi. Insomma, si sciupava del gran denaro!

— Per me, osservò la Maloir, sarei contenta d’aver ogni giorno il denaro che a Parigi gli uomini spendono in fiori per le donne.

— Lo credo. è una pretesa da poco! brontolò la Lerat. Basterebbe anche quello che costa il filo... Cara mia, sessanta di dame!

Erano le quattro meno dieci minuti. Zoè si meravigliava, [p. 45 modifica] non comprendendo perchè la signora restasse fuori tanto tempo.

Di solito, quando la signora era costretta ad uscire dopo il mezzodì, la si spicciava in un attimo. La Maloir osservò che non si può sempre far come si vuole. Naturalmente c’erano degli intoppi nella vita, diceva la Lerat.

Il meglio era di aspettare. Se sua nipote indugiava, era senz’altro perchò le sue occupazioni la trattenevano fuori, non è vero? Del resto non si era a disagio; ci si stava benone in cucina. E siccome aveva esaurito i cuori, giuocò quadri. Il campanello ricominciava. Quando Zoè ricomparve era tutta infiammata in viso. — Figliuole mie, il grosso Steiner.. diss’ella fin dalla porta, abbassando la voce. Questo poi l’ho messo nel salottino. Allora la Maloir parlò del banchiere alla Lerat, che di questi signori non ne conosceva. Ch’ei fosse sul punto di piantar Rosa Mignon? Zoè scrollava il capo; ella sapeva certe cose... Ma dacccapo le toccò andar ad aprire.. — Buono! una tegola, ora! mormorò tornando. È il moretto! Ho avuto un bel ripetergli che la signora era uscita, si è piantato nella camera da letto... Noi non lo aspettavamo che questa sera. Alle quattro e un quarto Nana non c’era ancora. Che poteva mai ella fare? Non c’era senso comune a star fuori tanto. Vennero altri due mazzi. Zoè, annoiata, guardò se c’era ancora del caffè. Le signore ne avrebbero preso volontieri per tenersi sveglie, poichè si assopivano, accasciate così sulle loro seggiole, prendendo continuamente carte dal mazzo collo stesso gesto. Suonò la mezza. Decisamente qualche cosa era successo alla signora; sussurravano fra di loro. All’improvviso la Maloir in un momento d’oblio, annunziò, con voce vibrante: — Cinquecento!.... Quinta maggiore, d’onore. — Zitte! disse Zoè con impeto. Che penseranno quei si-gnori? E nel silenzio che seguì, nel ronzio sommesso delle due veccchie che litigavano, uno scalpiccìo di dae passi salì su per la scala di servizio! [p. 46 modifica] Era finalmente Nana.

Prima che avesse aperta la porta, si udì il suo ansare affannoso; entrò rossa, con far brusco. La sua gonnella, di cui 1e cordicelle dovevano essere strappate, spazzavano i gradini, e gli svolazzi dovevano essere caduti in una pozza, ed aver raccolta qualche immondezza colata dal primo piano, ove la -fantesca era una vera guattera.

— Eccoti finalmente! era ora! disse la Lerat, colle labbra strette, ancora irritata per la vittoria della Maloir. Te la pigli comoda colla gente che aspetta, tu!

Nana, già stizzita, s'inasprì maggiormente a quei rimproveri. Se era così che la si riceveva, dopo la seccaggine che le era toccata!

— Non mi rompete le tasche! eh! gridò.

— Zitto, signora, c’è gente fe’ la domestica.

Allora, abbassando la voce, la giovane balbettò anelante:

— Credete che mi sia divertita? la non finiva più. Avrei voluto vedervi ne’ miei panni! mi bolliva il sangue... aveva voglia di menar le mani. E non una carrozza per tornare. Manco male che è qui accanto: ho fatto una di quelle corse!

— Hai il denaro? chiese la zia.

— To’, bella domanda, rispose Nana.

Sedette presso il fornello, le gambe rotte dalla corsa e senza riprender fiato, trasse dal seno una busta dove erano quattro biglietti da cento lire. I biglietti trasparivano da un lungo strappo, fatto con cinica fretta per verificare il contenuto. Le tre donne intorno a lei guardavano fisso quella busta sgualcita e sudicia fra le sue manine inguantate. Era troppo tardi per la corsa delle quattro e mezza, la Lerat non andrebbe che il domani.

Nana si dilungava in gran schiarimenti.

— C’è gente che v’aspetta, signora, ripeteva la cameriera.

Ma Nana montò in bizza di nuovo.

Ebbene, la gente poteva aspettare. Fra poco, quando avesse finito di dar sesto agli affari; e siccome la zia allungava la mano verso il denaro:

— Ah no; non tutto, disse. Trecento franchi alla balia, - cinquanta franchi pel tuo viaggio e la spesa, fanno trecentocinquanta.... Serbo cinquanta lire. [p. 47 modifica] La difficoltà grossa era trovare delli spiccioli; non c’erano dieci lire in tutta la casa, ed era inutile rivolgersi alla Maloir, che ascoltava senza mostrar cupidigia, avvezza a non aver mai altro con sè che i sei soldi per pagar l’omnibus.

Finalmente Zoè uscì dicendo che andava a guardar nel suo baule, e tornò recando cento lire in pezzi da cinque.

Contate le monete su un cantuccio della tavola, la Lerat se n’andò, promettendo di condur Gigino il domani.

— E così; c’è gente? riprese Nanà, sempre seduta a riposare.

— Sissignora: tre persone.

E nominò pel primo il banchiere. Nana allungò le labbra con una smorfia. Se mai codesto Steiner credesse di venir ad importunarla, perchè le aveva fatto buttar un mazzo di fiori, sbagliava il conto!

— D’altra parte, soggiunse, non ne vo’ saper altro: non riceverò alcuno; andate ad avvertire che non tornerò a casa.

— Spero, fe’ Zoè, senza muoversi, seria in volto e stizzita di veder la padrona in procinto di fare una corbelleria, spero che la signora rifletterà e riceverà il signor Steiner.

Poi parlò del Valacco che doveva ormai trovar lungo il tempo, là in camera. Allora Nana, fuori di sè, s’impuntò maggiormente. Strillò che non voleva veder nessuno, assolutamente nessuno! che non sapeva chi ringraziare d’avergli appiccicato un uomo così importuno.

— Mettete tutti alla porta! Io voglio fare una partita con la Maloir. Mi diverte di più.

Non aveva finito di dire, che si udì di nuovo il campanello. Fu il colmo.

Un altro seccatore! Vietò alla cameriera d’aprire, ma questa, uscita senza badarle, tornò poco dopo, e, consegnandole con molto sussiego due biglietti di visita: — Ho risposto che la signora riceve: quei signori sono in sala. Nana s’era alzata furiosa, ma si calmò tosto leggendo sui biglietti î nomi del marchese di Chouard e del conte Muffat di Beuville. Stette un momento silenziosa. — Chi sono costoro? chiese poi. Li conoscete? [p. 48 modifica] — Conosco il vecchio, rispose Zoè, stringendo le labbra con far misterioso.

 E siccome Nana l’interrogava tuttavia con lo sguardo:

— L’ho veduto in una casa, soggiunse concisamente. Quella parola vinse l’esitanza di Nana. Uscì a malincuore dalla cucina, tepido rifugio ove si poteva ciarlar confidenzialmente, nel grato aroma del caffè che bolliva sur un avanzo di brage. Lasciossi dietro le spalle la Maloir intenta a far un solitario, con sempre in testa il cappello, di cui s’era limitata a sciogliere i nastri ed a gettarli dietro le spalle per stare con maggior agio.

 Nello spogliatoio, ove Zoè l’aiutò a mettersi un accappatoio, Nana si sfogò delle noie cagionatele, biascicando fra i denti sorde imprecazioni contro gli uomini.
 Queste parolaccie accoravano la cameriera, la quale vedeva con pena che la signora non smetterebbe così presto le prime abitudini. Osò anzi pregare la signora di acchetarsi.

— Oh, davvero! rispose Nana duramente. Sono degli sconci che gustano le parolaccie!

 Però assunse il suo fare da principessa, come diceva lei, e si diresse verso la sala; quando Zoè la trattenne, e, di sua testa, senza averne l’ordine, introdusse nello spogliatoio il marchese di Chouard ed il conte Muffat. Così era meglio fatto.

— Signori, disse la giovine donna con studiata cortesia, mi duole avervi fatto aspettare.

 I due salutarono e sedettero.
 Lo spogliatoio, in cui una cortina di velo ricamato temperava la luce, era la camera più elegante dell’appartamento, tapezzata di stoffa chiara con una gran toeletta di marmo, una specchiera a cornice intarsiata, l’agrippina ed i seggioloni di raso azzurro. Sulla toeletta i mazzi di fiori, delle rose, dei giacinti, delle serenelle, formavano una catasta di fiori di una fragranza sottile e penetrante; mentre nell’aria umida, nell'odor scipito dei bacini spiccava di quando in quando un aroma più acuto, alcuni fuscelli di pagioli essicati e sminuzzati in una coppa. A veder Nana raggomitolarsi, ravvolgersi nel suo accappatoio, mal chiuso, si sarebbe detto che [p. 49 modifica]

fosse stata sorpresa mentre stava abbigliandosi; la pelle ancor umida, sorridente e sgomentata in mezzo ai suoi merletti.

— Signora, disse il conte Muffat con piglio grave; voi ci perdonerete la nostra insistenza... Veniamo per una questua.

Il signore ed io siamo membri della Congregazione di Carità del Circondario.

Il marchese s’affrettò a soggiungere con molta galanteria:

— Quando abbiamo saputo che una grande artista abitava qui, ci siamo proposti di raccomandarle in modo particolare i nostri poveri.... Il talento non va mai disgiunto dal cuore.

Nana ostentava modestia. Rispondeva con lievi cenni del capo, facendo intanto rapide riflessioni. Doveva esser stato il vecchio dagli occhi birbi a condur l’altro; però non c’era da fidarsi nemmeno di quello, a cui le tempie si gonfiavano in modo strano; forse sarebbe venuto anche da sè. Probabilmente il portinaio aveva detto il suo nome, e si spingevano l’un l’altro ciascuno per conto proprio.

— Certo, signori, diss’ella affabilmente, avete fatto bene a salire da me.

Il campanello la fe’ trasalire. Ancora una visita, pensò, e quella Zoè che apre sempre! Ella continuò:

— Si è troppo felici di poter fare un po’di bene. Al postutto era lusingata dalla richiesta.

— Ah! signora, riprese il marchese, quanta miseria! Il nostro circondario conta più di tre mila poveri. — Ed è ancora dei più ricchi! non potete figurarvi quanta indigenza, quanto squallore! delle creaturine senza pane, delle donne inferme, prive di ogni soccorso, morenti di freddo...

— Povera gente! sclamò Nana tutta intenerita.

La sua commozione fu tale che i suoi begli occhi sì riempirono di lagrime.

S'era chinata, volgendosi, non studiando più il contegno, e l’accappatoio aperto lasciava vedere il collo, mentre i ginocchi tesi disegnavano sotto alla sala sottile le rotondità eleganti delle coscie.

Le guance terree del marchese si soffusero di rosso.

Il conte Muffat, che stava per parlare abbassò gli occhi. [p. 50 modifica] Faceva troppo caldo in quello spogliatoio; vi era un’afa pesante, rinchiusa, come un tepore di serra. Le rose avvizzivano, e dal pagiuli in fondo alla coppa, saliva un effluvio d’ebbrezza al cervello.

— Si vorrebb’esser ricchissima, aggiungeva Nana, in queste occasioni. Insomma ognuno fa quel che può... Potete ben credere signori che se avessi saputo... Nel suo intenerimento stava per dire una corbelleria, se n’avvide e non compì la frase.

Per un momento restò impacciata, scordando dove aveva messo le cinquanta lire nel togliersi il vestito; ma si sovvenne che dovevano essere nell’angolo della toeletta, sotto un vaso di pomata arrovesciato.

Mentre si alzava, il campanello risuonò nuovamente e a lungo. Benone pensò. Un altro ancora. La non finirebbe dunque più!

Anche il conte ed il marchese s’erano alzati, e le orecchie di quest’ultimo si erano scosse, appuntandosi verso la porta; senza dubbio si riconosceva quelle scampanellate. Muffat lo guardò, poi i due uomini rivolsero altrove gli occhi. Si disturbavano a vicenda — tornarono freddi, l’uno robusto e saldo col volto ombreggiato da folti capelli, l’altro raddrizzando le sue magre spalle, sulle quali cadeva una rada corona di capelli bianchi,

— Affè! disse Nana, recando le dieci grosse monete d’argento e ridendo per trarsi d’impaccio... vi carico d’un peso! ma gli è per i poveri! E la graziosa pozzetta del mento le si affondava. Aveva la sua aria da fanciullona, senz’affettazioni, reggendo il mucchio degli scudi sulla palma, offrendoli ai due, come per dire: vediamo, chi li piglia?

Il conte fu il più pronto; prese le cinquanta lire, ma uno scudo rimase, e per pigliarlo gli toccò raccattarlo dalla mano stessa della giovine donna, e toccare la pelle tepida e morbida che gli mise un brivido nelle ossa.

Ella fattasi allegra, rideva ancora.

— Ecco, signori, riprese ella. Un’altra volta spero potervi dare di più. [p. 51 modifica] Non avevano più pretesti. Salutarono dirigendosi verso la porta. Ma nel punto in cui stavano per uscire, il campanello echeggiò di nuovo.

Tl marchese non seppe celare un lieve sorriso, mentre una nube rendeva più scura la faccia del conte.

Nana li trattenne alcuni minuti per dar tempo a Zoè di trovar ancora un cantuccio. Non amava che si potesse scontrarsi in casa sua. Solamente questa volta la doveva essere stipata. Per cui si sentì sollevata quando vide il salotto vuoto:

Zoè li aveva dunque cacciati negli armadii?

— Arrivederci, signori, disse fermandosi sulla soglia del salotto.

E li ravvolgeva nel suo sorriso e nel suo sguardo limpido.

Il conte Muffat si inchinò turbato, malgrado la sua grande esperienza degli usi sociali, avendo bisogno d’aria, portando seco delle vertigini da quello spogliatoio, una fragranza di fiori e di donna che gli toglieva il respiro. Dietro di lui il marchese di Chouard, certo di non essere veduto, osò volgersi verso Nana col volto ad un tratto scomposto, la lingua a fior di labbro, e la guardò ammiccando.

Quando la giovane donna tornò nel gabinetto in cui Zoè aspettava con lettere e biglietti di visita, gridò ridendo ancur più forte.

— Ecco due bricconi, che mi hanno arraffate le mie cinquanta lire.

Non era in collera, no! anzi le pareva strano che degli uomini le avessero portato via i quattrini. In ogni modo era “una vera porcheria; non aveva più un soldo.

Senonché al veder le lettere ed i biglietti tornò a far il broncio. Pazienza le lettere; erano tutte di signori che dopo averla applaudita ìl giorno prima le mandavano delle dichiarazioni. Ma quanto ai visitatori potevano andarsene a spasso.

Zoè ne aveva messi un po’ dappertutto e faceva notare che l’appartamento era molto comodo, poichè tutte le stanze mettevano sul corridoio.

Non era come dalla signora Bianca, ove bisognava sempre passar pel salotto, il che aveva suscitato alla signora non poche brighe. [p. 52 modifica] — Rimandateli tutti, riprese Nana, seguendo il filo del suo pensiero, cominciando dal morettino.

— Oh, quanto a quello è un pezzo che l’ho sbrigato, disse Zoè sorridendo. Voleva semplicemente avvertire da signora che non poteva venire stasera.

Fu una gioia immensa.

Nana battè palma a palma. Non veniva! Che fortuna! Sarebbe dunque libera!

E mandava sospironi di sollievo, come se le avessero fatto grazia del più abbominevole supplizio.

Il suo pensiero fu per Daguenet, quel poverino, al quale per l’appunto aveva scritto di aspettare fino a giovedì.!

Presto la Maloir gli scriverebbe una seconda lettera! Ma Zoè disse che la Maloir era sparita come al solito, senza che niuno se ne addasse.

Allora Nana, dopo aver parlato di mandar qualcuno dal giovine si fè esitante.

Era molto stanca.

Dormir tutt’una notte sarebbe pur la gran bella cosa!

L’idea di quel godimento finì col vincerla. Per una volta, via, poteva concederselo.

— Mi coricherò tornando dal teatro mormorò col far d’un goloso che pensi ad un ghiotto boccone, e non mi sveglierete che domani a mezzogiorno.

Poi, alzando la voce:

— Su, coraggio! cacciatemi giù per le scale tutta quella gente...

Zoè non si muoveva: non si sarebbe arrischiata a dar consigli apertamente alla signora: solamente si regolava in modo che la signora potesse profittar della sua esperienza quando la signora stava per commettere una corbelleria, colla sua testa bislacca.

— Anche il signor Steiner? domandò con accento breve.

-— Certo, rispose Nana. Quello prima degli altri.

La cameriera aspettò ancora per lasciar alla signora il tempo di riflettere, la signora non sarebbe dunque superba di rapir alla rivale, Rosa Mignon, un uomo così ricco, così noto in tutti i teatri. [p. 53 modifica] — Spicciatevi dunque, mia cara, riprese Nana, che capiva perfettamente, è ditegli che egli mi secca.

Ma, bruscamente ebbe una riflessione; l’indomani poteva sentirsi il grillo d’averlo; gridò ridendo ed ammiccando, con un gesto da monello:

— Al postutto, se voglio averlo, la più corta è ancor quella di cacciarlo via.

Zoè parve colpita, diede alla signora un’occhiata di ammirazione, e, senza esitare, andò a mettere alla porta lo Steiner.

Nana pazientò ancora un momento per dar agio di spazzare la casa, come diceva.

Che assalto era stato! Una cosa incredibile!

Allungò la testa in salotto: vuoto! la sala da pranzo vuota del pari.

Ma, mentre continuava la sua visita, chetata, certa che non ci fosse più alcuno, nello spinger l’uscio d’un gabinetto si trovò di contro un giovinottino, seduto sur un baule, cheto, cheto, d’un contegno savio, con un immenso mazzo di fiori sulle ginocchia.

— Ah! mio Dio! gridò. Ce n’è ancor uno qua dentro!

Il giovinottino, scorgendola, era balzato in terra, rosso, come un papavero. E non sapeva che fare del suo mazzo, che sì passava da una mano nell’altra, strangolato dall’emozione.

La sua giovinezza, la sua confusione, il burlesco aspetto che offriva coì suoi fiori, intenerirono Nana che uscì in una limpida risata.

Anche i bimbi, dunque? Or ora glie ne verrebbe uno in fascie!

Ed abbandonandosi con atto famigliare, materno, battendosi le coscie, domandò pazzamente:

— Vuoi dunque farti soffiar il naso, piccino? — — Sì, rispose il bimbo con voce sommessa e supplice. Quella risposta accrebbe l’allegria di Nana. Aveva diciassette anni; si chiamava Giorgio Hugon. La sera prima era alla Varietà, ed ora veniva a trovarla.

— Son per me quei fiori?

— Si [p. 54 modifica] — Dammeli dunque, babbeo!.

Ma, mentre ella prendeva il mazzo, egli le balzò sulle mani e si diè a baciarle coll’ingordigia dei suoi diciassette anni.

Essa dovette picchiarlo per farlo smettere. Non ischerzava quel marmocchio! Però, pur gridandolo, Nana sorrideva tutta rossa, e, nel rimandarlo, gli permise di tornare.

Lui barcollava, non trovava più la porta.

Nana tornò nel suo spogliatoio, ove, quasi subito, si presentò Francesco per pettinarla definitivamente. Essa non si vestiva che la sera.

Seduta allo specchio, il capo chino sotto le agili mani del parrucchiere, essa rimaneva muta e pensosa, quandò Zoè entrò dicendo:

— Signora, ce n’è uno che non vuol andarsene.

— Ebbene! lo si lascia, rispose lei tranquillamente.

— E poi, ne vengon sempre degli altri.

— Be’! di’ che aspettino; quando avranno ben fame se n’andranno.

Aveva cambiato d’umore; era felice di tener a bada gli uomini. Un’idea la saltò assai divertente.

Sfuggì alle mani di Francesco e andò a spingere i catenacci; ormai potevano ammucchiarsi lì accanto, che non riuscirebbero a forar il muro, per caso. Zoè passerebbe dalla porticina della cucina.

Tuttavia il campanello elettrico suonava i sempre; ogni cinque minuti le vibrazioni echeggiavano chiare a rapide, con la sua regolarità di macchina ben montata, e Nana le contava per spasso.

Ma ebbe un repentino ricordo:

— E le mie mandorle toste.

Francesco le scordava anche lui. Trasse di tasca un sacchettino, col gesto cortese d’un signore che offre un regalo ad un’amica: il che non gl’impediva di metter in conto le mandorle ogni qualvolta presentava la sua nota. Nana prese il sacchetto in grembo e cominciò a far scricchiolare le mandole sotto i denti, voltando la testa alle leggiere spinte del parrucchiere. [p. 55 modifica] — Corbezzoli! mormorò dopo una pausa, che brigata!

Il campanello aveva echeggiato tre volte, una dietro all’altra. Le vibrazioni si succedevano rapidissime. Ve n’era di timide, che balbettavano colla trepidanza di una prima dichiarazione, di audaci, vibranti, echeggianti sotto un dito brutala; di frettolose che rompevano l’aria con breve fremito.

Un vero scampanìo, diceva Zoè, uno scampanìo tale da porre in rivoluzione il quartiere, una calca d’uomini che l’uno dopo l’altro veniva a premere il bottone d’avorio. Quel burlone di Bordenave aveva dato il ricapito a troppa gente, tutto il teatro della sera prima.

— Ehi, Francesco, avete cinque luigi? interrogò Nana.

Egli diè indietro d’un passo, esaminando la pettinatura, poi, placidamente:

— Cinque luigi? secondo i casi.

-Ah! sapete? riprese lei, se vi occorrono garanzie...

E, senza compire la frase, con un gesto largo indicava le stanze attigue. Francesco prestò i cinque luigi. Zoè nei momenti di respiro entrava per preparare i vestiti della signora.

Cominciò ad abbigliarla, mentre il parrucchiere aspettava volendo dar un’ultima mano alla pettinatura.

Ma il campanello disturbava in ogni momento la cameriera, che lasciava la signora col busto metà allacciato, con una scarpa sola, e, benchè agguerrita, perdeva il capo. Dopo aver messo degli uomini dappertutto, valendosi di ogni angolo, era stata finalmente costretta a metterne tre o quattro insieme, cosa contraria ai suoi principil.

Tanto peggio se si mangiavano l’un l’altro! Così si farebbe posto. E Nana, ben chiusa, nel suo spogliatoio, al sicuro, li canzonava dicendo che li sentiva sbuffare. Dovevano far una bella figura, tutti colla lingua fuori come tanti cagnolini accucciati in circolo. Era il suo trionfo della sera prima che continuava, quel branco d’uomini l’aveva seguita sulle pesta.

— Purchè non rompano nulla, mormorò.

— Cominciava a turbarsi sotto gli aliti ardenti che penetravano dalle fessure, quando Zoè introdusse Labordette, e Nana diè un grido di soddisfazione. Egli voleva parlarle d’un conto regolato per lei, davanti al conciliatore, ma essa, non badandogli, ripeteva: [p. 56 modifica]

— Vi conduco con me.... desineremo insieme: poi, mi accompagnerete in teatro; non entro in scena che alle nove e mezzo.

Veniva egli opportuno quell’ottimo Labordette! Non chiedeva mai nulla, lui. Non era che l’amico delle donne, ne accomodava gli affarucci! così nel passare aveva rimandato i creditori dall’anticamera. D’altronde quei brav’uomini non volevano esser pagati, tutt’altro; se avevano insistito era per complimentare la signora, e farle in persona delle nuove offerte di servizio, dopo il suo gran successo della sera prima.

— Scappiamo via! Scappiamo, disse Nana, ch’era vestita.

Appunto allora Zoè, rientrando, gridava:

— Signora, rinunzio ad aprire. C’è sulle scale una lunga fila.

— Una fila d’uomini sulle scale! Persino Francesco, nonostante la britannica flemma che ostentava, si mise a ridere, raccogliendo i pettini. Nana prese il braccio di Labordette, lo spinse in cucina e scappò, liberata finalmente dagli uomini, felice, sapendo che con quel compagno poteva star sola in qualunque luogo, senza temere sciocchezze.

— Mi ricondurrete a casa, disse, mentre sgattoiolavano per la scaletta di servizio: così sarò sicura. Figuratevi che voglio dormire tutt’una notte, una notte intera per me! Un ghiribizzo, mio caro!