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Quando essa arrischiava la sua famosa mossa del fianco, l’orchestra pareva divampare, e il caldo salire di loggia in loggia fino al velario.

Il trionfo fu quindi completo quand’essa si pose a capo delle danze. Pareva proprio nel suo elemento, coi pugni alla cintola; era la Venere che s’asside coi piedi nel fango ai canti delle vie.

Ed anche la musica pareva fatta a bella posta per la sua voce triviale, era una musica da fiera, tutta a starnuti di clarino, e capriole di flauto.

Si volle il bis d’altri due pezzi. Il valzer della sinfonia; il valzer biricchino era ricomparso, e trasportava gli Dei ne suoi vortici. Giunone; da massaio, dava pizzicotti e scapaccioni a Giove ed alla sua lavandaia. Diana, udito di un appuntamento dato da Venere a Marte, ne avvertiva Vulcano, il quale sclamava: «Ho pronto il mio piano.» Il resto «non era chiaro. La cosa finiva con un galoppe finale, dopo il quale Giove, anelante, molle di sudore, senza corona, dichiarava che le donnette di questa terra erano impagabili, esche tutto il torto era dei mariti.

Il telone calava fra gli applausi, allorquando alcune voci, dominando il fracasso, gridarono:

— Fuori! Fuori!

Allora il telone si rialzò, e gli artisti riapparvero stretti per mano. Nel mezzo, Nana e Rosa Mignon, salutavano. Si continuava ad applaudire. La claque urlava. Poi lentamente il teatro si vuotò mezzo.

— Bisogna che vada a salutare la contessa Muffat, disse La Faloise.

— Benissimo, mi presenterai, rispose Fauchery. Scenderemo poi.

Ma non era facile giungere ai palchi di prima fila.

Nel corridoio la gente si schiacciava. Per inoltrarsi in mezzo ai crocchi fermi colà, bisognava farsi piccini, scivolare lavorando di gomiti.

Addossato alla parete, sotto ana lampada d’ottone, da: cui scaturiva un zampillo di gas, il critico panciuto giudicava la produzione davanti ad un circolo d’uditori attenti.