Le smanie per la villeggiatura/Atto II
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ATTO SECONDO.
SCENA PRIMA.
Camera di Leonardo.
Vittoria e Paolo.
Vittoria. Via, via, non istate più a taroccare. Lasciate che le donne finiscano di fare quel che hanno da fare, e piuttosto v’aiuterò a terminare il baule per mio fratello.
Paolo. Non so che dire. Siamo tanti in casa, e pare ch’io solo abbia da fare ogni cosa.
Vittoria. Presto, presto. Facciamo, che quando torna il signor Leonardo, trovi tutte le cose fatte. Ora son contentissima, a mezzo giorno avrò in casa il mio abito nuovo.
Paolo. Gliel’ha poi finito il sarto?
Vittoria. Sì, l’ha finito; ma da colui non mi servo più.
Paolo. E perchè, signora? Lo ha fatto male?
Vittoria. No, per dir la verità, è riuscito bellissimo. Mi sta bene, è un abito di buon gusto, che forse forse farà la prima figura, e farà crepar qualcheduno d’invidia.
Paolo. E perchè dunque è sdegnata col sarto?
Vittoria. Perchè mi ha fatto un’impertinenza. Ha voluto i danari subito per la stoffa e per la fattura.
Paolo. Perdoni, non mi par che abbia gran torto. Mi ha detto più volte che ha un conto lungo, e che voleva esser saldato.
Vittoria. E bene, doveva aggiungere alla lunga polizza anche questo conto, e sarebbe stato pagato di tutto.
Paolo. E quando sarebbe stato pagato?
Vittoria. Al ritorno della villeggiatura.
Paolo. Crede ella di ritornar di campagna con dei quattrini?
Vittoria. È facilissimo. In campagna si gioca. Io sono piuttosto fortunata nel gioco, e probabilmente l’avrei pagato senza sagrificare quel poco che mio fratello mi passa per il mio vestito.
Paolo. A buon conto quest’abito è pagato, e non ci ha più da pensare.
Vittoria. Sì, ma sono restata senza quattrini.
Paolo. Che importa? Ella non ne ha per ora da spendere.
Vittoria. E come ho da far a giocare?
Paolo. Ai giochetti si può perder poco.
Vittoria. Oh! io non gioco a giochetti. Non ci ho piacere, non vo’ applicare. In città gioco qualche volta per compiacenza; ma in campagna il mio divertimento, la mia passione è il faraone.
Paolo. Per quest’anno le converrà aver pazienza.
Vittoria. Oh, questo poi no. Vo’ giocare, perchè mi piace giocare, perchè ho bisogno di vincere, ed è necessario che io giochi, per non far dir di me la conversazione. In ogni caso io mi fido, io mi comprometto di voi.
Paolo. Di me?
Vittoria. Sì, di voi. Sarebbe gran cosa che mi anticipaste qualche danaro, a conto del mio vestiario dell’anno venturo?
Paolo. Perdoni. Mi pare che ella lo abbia intaccato della metà almeno.
Vittoria. Che importa? Quando l’ho avuto, l’ho avuto. Io non credo che vi farete pregare per questo.
Paolo. Per me la servirei volentieri, ma non ne ho. È vero che quantunque io non abbia che il titolo ed il salario di cameriere, ho l’onor di servire il padrone da fattore e da mastro di casa. Ma la cassa ch’io tengo, è così ristretta, che non arrivo mai a poter pagare quello che alla giornata si spende; e per dirle la verità, sono indietro anch’io di sei mesi del mio onorario.
Vittoria. Lo dirò a mio fratello, e mi darà egli il bisogno.
Paolo. Signora, si accerti che ora è più che mai in ristrettezze grandissime, e non si lusinghi, perchè non le può dar niente.
Vittoria. Ci sarà del grano in campagna.
Paolo. Non ci sarà nemmeno il bisogno per far il pane che occorre.
Vittoria. L’uva non sarà venduta.
Paolo. È venduta anche l’uva.
Vittoria. Anche l’uva?
Paolo. E se andiamo di questo passo, signora...
Vittoria. Non sarà così di mio zio.
Paolo. Oh! quello ha il grano, il vino e i danari.
Vittoria. E non possiamo noi prevalerci di qualche cosa?
Paolo. Non signora. Hanno fatto le divisioni. Ciascheduno conosce il suo. Sono separate le fattorie. Non vi è niente da sperare da quella parte.
Vittoria. Mio fratello dunque va in precipizio.
Paolo. Se non ci rimedia.
Vittoria. E come avrebbe da rimediarci?
Paolo. Regolar le spese. Cambiar sistema di vivere. Abbandonar soprattutto la villeggiatura.
Vittoria. Abbandonar la villeggiatura? Si vede bene che siete un uomo da niente. Ristringa le spese in casa. Scemi la tavola in città, minori la servitù; le dia meno salario. Si vesta con meno sfarzo, risparmi quel che getta in Livorno. Ma la villeggiatura si deve fare, e ha da essere da par nostro, grandiosa secondo il solito, e colla solita proprietà.
Paolo. Crede ella che possa durar lungo tempo?
Vittoria. Che duri fin che io ci sono. La mia dote è in deposito, e spero che non tarderò a maritarmi.
Paolo. E intanto?....
Vittoria. E intanto terminiamo il baule.
Paolo. Ecco il padrone.
Vittoria. Non gli diciamo niente per ora. Non lo mettiamo in melanconia. Ho piacere che sia di buon animo, che si parta con allegria. Terminiamo di empir il baule. (si affrettano tutti e due a riporre il baule).
SCENA II.
Leonardo e detti.
Leonardo. (Ah! vorrei nascondere la mia passione, ma non so se sarà possibile. Sono troppo fuor di me stesso).
Vittoria. Eccoci qui, signor fratello, eccoci qui a lavorare per voi.
Leonardo. Non vi affrettate. Può essere che la partenza si differisca.
Vittoria. No, no, sollecitatela pure. Io sono in ordine, il mio mariage è finito. Son contentissima, non vedo l’ora d’andarmene.
Leonardo. Ed io, sul supposto di far a voi un piacere, ho cambiato disposizione, e per oggi non si partirà.
Vittoria. E ci vuol tanto a rimettere le cose in ordine per partire?
Leonardo. Per oggi, vi dico, non è possibile.
Vittoria. Via, per oggi pazienza. Si partirà domattina pel fresco; non è così?
Leonardo. Non lo so. Non ne son sicuro.
Vittoria. Ma voi mi volete far dare alla disperazione.
Leonardo. Disperatevi quanto volete, non so che farvi.
Vittoria. Bisogna dire che vi siano dei gran motivi.
Leonardo. Qualche cosa di più della mancanza d’un abito.
Vittoria. E la signora Giacinta va questa sera?
Leonardo. Può essere ch’ella pure non vada.
Vittoria. Ecco la gran ragione. Eccolo il gran motivo. Perchè non parte la bella, non vorrà partire l’amante. Io non ho che fare con lei, e si può partire senza di lei.
Leonardo. Partirete, quando a me parerà di partire.
Vittoria. Questo è un torto, questa è un’ingiustizia che voi mi fate. Io non ho da restar in Livorno, quando tutti vanno in campagna, e la signora Giacinta mi sentirà, se resterò a Livorno per lei.
Leonardo. Questo non è ragionare da fanciulla propria e civile, come voi siete. E voi che fate colà ritto, ritto, come una statua? (a Paolo)
Paolo. Aspetto gli ordini. Sto a veder, sto a sentire. Non so s’io abbia a seguitar a fare, o a principiar a disfare.
Vittoria. Seguitate a fare.
Leonardo. Principiate a disfare.
Paolo. Fare e disfare è tutto lavorare. (levando dal baule)
Vittoria. Io butterei volentieri ogni cosa dalla finestra.
Leonardo. Principiate a buttarvi il vostro mariage.
Vittoria. Sì, se non vado in campagna, lo straccio in centomila pezzi.
Leonardo. Che cosa c’è in questa cassa? (a Paolo)
Paolo. Il caffè, la cioccolata, lo zucchero, la cera e le spezierie.
Leonardo. M’immagino che niente di ciò sarà stato pagato.
Paolo. Con che vuol ella ch’io abbia pagato? So bene che per aver questa roba a credito, ho dovuto sudare; e i bottegai mi hanno maltrattato, come se io l’avessi rubata.
Leonardo. Riportate ogni cosa a chi ve l’ha data, e fate che depennino la partita.
Paolo. Sì, signore. Ehi! chi è di là? Aiutatemi. (vien servito)
Vittoria. (Oh povera me! La villeggiatura è finita).
Paolo. Bravo, signor padrone: così va bene. Far manco debiti che si può.
Leonardo. Il malan che vi colga. Non mi fate il dottore, che perderò la pazienza.
Paolo. (Andiamo, andiamo, prima che si penta. Si vede che non lo fa per economia, lo fa per qualche altro diavolo che ha per il capo). (porta via la cassetta, e parte)
SCENA III.
Vittoria e Leonardo.
Vittoria. Ma si può sapere il motivo di questa vostra disperazione?
Leonardo. Non lo so nemmen io.
Vittoria. Avete gridato colla signora Giacinta?
Leonardo. Giacinta è indegna dell’amor mio, è indegna dell’amicizia della mia casa, e ve lo dico, e ve lo comando, non vo’ che la pratichiate.
Vittoria. Eh! già, quando penso una cosa, non fallo mai. L’ho detto, e così è. Non si va più in campagna per ragione di quella sguaiata, ed ella ci anderà, ed io non ci potrò andare; e si burleranno di me.
Leonardo. Eh! corpo del diavolo, non ci anderà nemmen ella. Farò tanto che non ci anderà.
Vittoria. Se non ci andasse Giacinta, mi pare che mi spiacerebbe meno di non andar io. Ma ella sì, ed io no? Ella a far la graziosa in villa, ed io restar in città? Sarebbe una cosa, sarebbe una cosa da dar la testa nelle muraglie.
Leonardo. Vedrete che ella non anderà. Per conto mio, ho levato l’ordine de’ cavalli.
Vittoria. Oh sì, peneranno assai a mandar eglino alla posta!
Leonardo. Eh! ho fatto qualche cosa di più. Ho fatto dir delle cose al signor Filippo, che se non è stolido, se non è un uomo di stucco, non condurrà per ora la sua figliuola in campagna.
Vittoria. Ci ho gusto. Anch’ella sfoggierà il suo grand’abito in Livorno. La vedrò a passeggiar sulle mura. Se l’incontro, le vo’ dar la baia a dovere.
Leonardo. Io non voglio che le parliate.
Vittoria. Non le parlerò, non le parlerò. So corbellare senza parlare.
SCENA IV.
Ferdinando, da viaggio, e detti.
Ferdinando. Eccomi qui, eccomi lesto, eccomi preparato pel viaggio.
Vittoria. Oh! sì, avete fatto bene ad anticipare.
Leonardo. Caro amico, mi dispiace infinitamente, ma sappiate che per un mio premuroso affare, per oggi non parto più.
Ferdinando. Oh cospetto di bacco! Quando partirete? Domani?
Leonardo. Non so, può essere che differisca per qualche giorno, e può anche essere, che per quest’anno i miei interessi m’impediscano di villeggiare.
Ferdinando. (Povero diavolo! Sarà per mancanza di calor naturale).
Vittoria. (Quando ci penso, per altro, mi vengono i sudori freddi).
Leonardo. Voi potrete andare col conte Anselmo.
Ferdinando. Eh! a me non mancano villeggiature. Il conte Anselmo l’ho licenziato; fo il mio conto, che andrò col signor Filippo e colla signora Giacinta.
Vittoria. Oh! la signora Giacinta per quest’anno potrebbe anch’ella morir colla voglia in corpo.
Ferdinando. Io vengo di là in questo punto, e ho veduto che sono in ordine per partire, ed ho sentito che hanno mandato a ordinare i cavalli per ventun’ora.
Vittoria. Sente, signor Leonardo?
Leonardo. (Il signor Fulgenzio non avrà ancora parlato al signor Filippo).
Ferdinando. Eh, in quella casa non tremano. Il signor Filippo si tratta da gran signore, e non ha impicci in Livorno, che gl’impediscano la sua magnifica villeggiatura.
Vittoria. Sente, signor Leonardo?
Leonardo. Sento, sento, ed ho sentito ed ho sofferto abbastanza. Mi è noto il vostro stile satirico. In casa mia, in città e fuori, siete stato più volte, e non siete morto di fame; e se non vado in villa, ho i miei motivi per non andarvi, e non ho da render conto di me a nessuno. Andate da chi vi pare, e non vi prendete più l’incomodo di venir da me. (Scrocchi insolenti, mormoratori indiscreti!) (parte)
SCENA V.
Vittoria e Ferdinando.
Ferdinando. È impazzito vostro fratello? Che cosa ha egli con me? Di che può lamentarsi dei fatti miei?
Vittoria. Veramente pare dal vostro modo di dire, che noi non possiamo andare in campagna per mancanza del bisognevole.
Ferdinando. Io? Mi maraviglio. Per gli amici mi farei ammazzare: difenderei la vostra riputazione colla spada alla mano. Se ha degli affari in Livorno, chi l’obbliga a andar in villa? Se ho detto che il signor Filippo non ha interessi che lo trattengano, m’intesi dire, perchè il signor Filippo è un vecchio pazzo, che trascura gli affari suoi per tripudiare, per scialacquare; e la sua figliuola ha meno giudizio di lui, che gli fa spendere l’osso del collo in centomila corbellerie, lo stimo la prudenza del signor Leonardo, e stimo la prudenza vostra, che sa adattarsi alle congiunture; e si fa quello che si può, e che si rovinino quelli che si vogliono rovinare.
Vittoria. Ma siete curioso per altro. Mio fratello non resta in Livorno per il bisogno.
Ferdinando. Lo so; ci resta per la necessità.
Vittoria. Necessità di che?
Ferdinando. Di accudire agli affari suoi.
Vittoria. E la signora Giacinta credete voi che ci vada in campagna?
Ferdinando. Senz’altro.
Vittoria. Sicuro?
Ferdinando. Infallibilmente.
Vittoria. (Io ho paura che mio fratello me la voglia dare ad intendere. Che dica di non andare, e poi mi pianti, e se ne vada da se).
Ferdinando. Ho veduto l’abito della signora Giacinta.
Vittoria. È bello?
Ferdinando. Bellissimo.
Vittoria. Più del mio?
Ferdinando. Più del vostro non dico; ma è bello assai; e in campagna ha da fare una figura strepitosissima.
Vittoria. (Ed io ho da restare col mio bell’abito a spazzar le strade in Livorno?)
Ferdinando. Quest’anno io credo che si farà a Montenero una bellissima villeggiatura.
Vittoria. Per qual ragione?
Ferdinando. Vi hanno da essere delle signore di più, delle spose novelle, tutte magnifiche, tutte in gala, e le donne traggono seco gli uomini, e dove vi è della gioventù, tutti corrono. Vi sarà gran gioco, gran feste di ballo. Ci divertiremo infinitamente.
Vittoria. (Ed io ho da stare in Livorno?)
Ferdinando. (Si rode, si macera. Ci ho un gusto pazzo).
Vittoria. (No, non ci voglio stare; se credessi cacciarmi per forza con qualche amica).
Ferdinando. Signora Vittoria, a buon riverirla.
Vittoria. La riverisco.
Ferdinando. A Montenero comanda niente?
Vittoria. Eh! può essere che ci vediamo.
Ferdinando. Se verrà, ci vedremo. Se non verrà, le faremo un brindisi.
Vittoria. Non vi è bisogno ch’ella s’incomodi.
Ferdinando. Viva il bel tempo. Viva l’allegria, viva la villeggiatura. Servitore umilissimo.
Vittoria. La riverisco divotamente.
Ferdinando. (Se non va in campagna, ella crepa prima che termini questo mese). (parte)
SCENA VI.
Vittoria sola.
Ma! La cosa è così pur troppo. Quando si è sul candeliere, quando si è sul piede di seguitare il gran mondo, una volta che non si possa, si attirano gli scherni e le derisioni. Bisognerebbe non aver principiato. Oh! costa molto il dover discendere. Io non ho tanta virtù che basti. Sono in un’afflizione grandissima, e il mio maggior tormento è l’invidia. Se le altre non andassero in villa, non ci sarebbe pericolo ch’io mi rammaricassi per non andarvi. Ma chi sa mai, se Giacinta ci vada o non ci vada? Ella mi sta sul cuore più delle altre. Vo’ assicurarmene, lo vo’ sapere di certo. Vo’ andar io medesima a ritrovarla. Dica mio fratello quel che sa dire. Questa curiosità vo’ cavarmela. Nasca quel che sa nascere, vo’ soddisfarmi. Son donna, son giovane. Mi hanno sempre lasciato fare a mio modo, ed è difficile tutt’ad un tratto farmi cambiar costume, farmi cambiare temperamento. (parte)
SCENA VII.
Camera in casa di Filippo.
Filippo e Brigida.
Brigida. Sicchè dunque il signor Leonardo ha mandato a dire che non può partire per ora?
Filippo. Sì certo, l’ha mandato a dire. Ma ciò non sarebbe niente. Può essergli sopraggiunto qualche affare d’impegno. Non stimo niente. Mi fa specie che ha mandato alla posta a levar l’ordine dei cavalli per lui e dei cavalli per me, come s’egli avesse paura ch’io non pagassi, e che dovesse toccar a lui a pagare.
Brigida. (L’ho detto io, l’ho detto. La padrona vuol far di sua testa, che il cielo la benedica).
Filippo. Io non mi aspettava da lui questo sgarbo.
Brigida. E così, signor padrone, come avete pensato di fare?
Filippo. Ho pensato che posso avere i cavalli senza di lui, e li ho mandati a ordinare per oggi.
Brigida. Se è lecito, quanti cavalli avete ordinato?
Filippo. Quattro, secondo il solito, per il mio carrozzino.
Brigida. E per me, poverina?
Filippo. Bisognerà che tu ti accomodi a andar per mare.
Brigida. Oh! per mare non ci vado assolutamente
Filippo. E come vorresti tu ch’io facessi? Ch’io levassi per te una sedia? Fino che ci fosse stato il cameriere del signor Leonardo per una metà avrei supplito alla spesa, ma per l’intiero sarebbe troppo, e mi maraviglio che tu abbia tanta indiscretezza per domandarlo.
Brigida. Io non lo domando, io mi accomodo a tutto. Ma fatemi grazia: il signor Ferdinando non viene anch’egli con voi?
Filippo. Sì, e vero: doveva andar col signor Leonardo, ed è venuto poco fa a dirmi che verrà con me.
Brigida. Bisognerà che pensiate voi a condurlo.
Filippo. E perchè ci ho da pensar io?
Brigida. Perchè egli intende di venire per farvi grazia. Perchè egli è solito andar in campagna, non per divertimento, ma per mestiere. Se conduceste con voi l’architetto, il pittore, l’agrimensore per impiegarli in servizio vostro, non dovreste loro pagare il viaggio? Lo stesso dovete fare col signor Ferdinando che vien con voi per fare onore alla vostra tavola, e per divertire la compagnia. E se conducete lui, non sarebbe gran cosa che conduceste anche me, e se non vado in calesso col cameriere del signor Leonardo, posso andare in calesso col signor cavaliere del dente1.
Filippo. Brava, io non ti credeva sì spiritosa. Hai fatto un bel panegirico a signor Ferdinando. Basta, se sarò costretto a pagar il viaggio a signor cavalier del dente, sarà servita la signora contessa della buona lingua.
Brigida. Sarà per sua grazia, non per mio merito,
Filippo. Chi c’è in sala?
Brigida. C’è gente.
Filippo. Guarda un poco.
Brigida. È il signor Fulgenzio. (dopo averlo osservato)
Filippo. Domanda di me forse?
Brigida. Probabilmente.
Filippo. Va a veder cosa vuole.
Brigida. Subito. Chi sa che non sia un altro ospite rispettoso, che venga ad esibirvi la sua umile servitù in campagna?
Filippo. Padrone. Mi farebbe piacere. Con lui ho delle obbligazioni non poche, e poi in campagna io non ricuso nessuno.
Brigida. Non ci dubitate, signore, non vi mancherà compagnia. Dove e’è miglio, gli uccelli volano, e dove e’è buona tavola, gli scrocchi fioccano. (parte)
SCENA VIII.
Filippo, poi Giacinta.
Giacinta. A quest’ora, signore, vi potrebbero risparmiare le seccature. Vien tardi, a ventun’ora si ha da partire. Mi ho da vestir da viaggio da capo a piedi, e abbiamo ancora da desinare.
Filippo. Ma io ho da sentire che cosa vuole il signor Fulgenzio.
Giacinta. Fategli dire che avete che fare, che avete premura, che non potete....
Filippo. Voi non sapete quello che vi diciate, ho con lui delle obbligazioni, non lo deggio trattare villanamente.
Giacinta. Spicciatevi presto dunque.
Filippo. Più presto che si potrà.
Giacinta. È un seccatore, non finirà sì presto.
Filippo. Eccolo che viene.
Giacinta. Vado, vado. (Non lo posso soffrire. Ogni volta che viene qui, ha sempre qualche cosa da dire sul vivere, sull’economia, sul costume. Vo’ un po’ star a sentire, se dice qualche cosa di me). (parte)
SCENA IX.
Filippo, poi Fulgenzio.
Filippo. Gran cosa di queste ragazze! Quel giorno che hanno d’andar in campagna, non sanno quel che si facciano, non sanno quel che si dicano, sono fuori di lor medesime.
Fulgenzio. Buon giorno, signor Filippo.
Filippo. Riverisco il mio carissimo signor Fulgenzio. Che buon vento vi conduce da queste parti?
Fulgenzio. La buona amicizia, il desiderio di rivedervi prima che andiate in villa, e di potervi dare il buon viaggio.
Filippo. Son obbligato al vostro amore, alla vostra cordialità, e mi fareste una gran finezza, se vi compiaceste di venir con me.
Fulgenzio. No, caro amico, vi ringrazio. Sono stato in campagna alla raccolta del grano, ci sono stato alla semina, sono tornato per le biade minute, e ci anderò per il vino. Ma son solito di andar solo, e di starvi quanto esigono i miei interessi, e non più.
Filippo. Circa agi’interessi della campagna, poco più, poco meno, ci abbado anch’io, ma solo non ci posso stare. Amo la compagnia, ed ho piacere nel tempo medesimo di agire, e di divertirmi.
Fulgenzio. Benissimo, ottimamente. Dee ciascuno operare secondo la sua inclinazione. Io amo star solo, ma non disapprovo chi ama la compagnia. Quando però la compagnia sia buona, sia conveniente, e non dia occasione al mondo di mormorare.
Filippo. Me lo dite in certa maniera, signor Fulgenzio, che pare abbiate intenzione di dare a me delle staffilate.
Fulgenzio. Caro amico, noi siamo amici da tanti anni. Sapete se vi ho sempre amato, se nelle occasioni vi ho dati dei segni di cordialità.
Filippo. Sì, me ne ricordo, e ve ne sarò grato fino ch’io viva. Quando ho avuto bisogno di denari, me ne avete sempre somministrato senz’alcuna difficoltà. Ve li ho per altro restituiti, e i mille scudi che l’altro giorno mi avete prestati, li avrete, come mi sono impegnato, da qui a tre mesi.
Fulgenzio. Di ciò son sicurissimo, e prestar mille scudi ad un galantuomo, io lo calcolo un servizio da nulla. Ma permettetemi che io vi dica un’osservazione che ho fatta. Io veggo che voi venite a domandarmi denaro in prestito quasi ogni ogni anno, quando siete vicino alla villeggiatura. Segno evidente che la villeggiatura v’incomoda; ed è un peccato che un galantuomo, un benestante come voi siete, che ha il suo bisogno per il suo mantenimento, s’incomodi e domandi denari in prestito per ispenderli malamente. Sì, signore, per ispenderli malamente, perchè le persone medesime che vengono a mangiare il vostro, sono le prime a dir male di voi, e fra quelli che voi trattate amorosamente, vi è qualcheduno che pregiudica al vostro decoro ed alla vostra riputazione.
Filippo. Cospetto! voi mi mettete in un’agitazione grandissima. Rispetto allo spendere qualche cosa di più, e farmi mangiare il mio malamente, ve l’accordo, è vero, ma sono avvezzato così, e finalmente non ho che una sola figlia. Posso darle una buona dote, e mi resta da viver bene fino ch’io campo. Mi fa specie che voi diciate, che vi è chi pregiudica al mio decoro, alla mia riputazione. Come potete dirlo, signor Fulgenzio?
Fulgenzio. Lo dico con fondamento, e lo dico appunto riflettendo che avete una figliuola da maritare. Io so che vi è persona che la vorrebbe per moglie, e non ardisce di domandarvela, perchè voi la lasciate troppo addomesticar colla gioventù, e non avete riguardo di ammettere zerbinotti in casa, e fino di accompagnarli in viaggio con esso lei.
Filippo. Volete voi dire del signor Guglielmo?
Fulgenzio. Io dico di tutti, e non voglio dir di nessuno.
Filippo. Se parlaste del signor Guglielmo, vi accerto che è un giovane il più savio, il più dabbene del mondo.
Fulgenzio. Ella è giovane.
Filippo. E mia figlia è una fanciulla prudente.
Fulgenzio. Ella è donna.
Filippo. E vi è mia sorella, donna attempata...
Fulgenzio. E vi sono delle vecchie più pazze assai delle giovani.
Filippo. Era venuto anche a me qualche dubbio su tal proposito, ma ho pensato poi, che tanti altri si conducono nella stessa maniera...
Fulgenzio. Caro amico, de’ casi ne avete mai veduti a succedere? Tutti quelli che si conducono come voi dite, si sono poi trovati della loro condotta contenti?
Filippo. Per dire la verità, chi sì e chi no.
Fulgenzio. E voi siete sicuro del sì? Non potete dubitare del no?
Filippo. Voi mi mettete delle pulci nel capo. Non veggo l’ora di liberarmi di questa figlia. Caro amico, e chi è quegli che dite voi, che la vorrebbe in consorte?
Fulgenzio. Per ora non posso dirvelo.
Filippo. Ma perchè?
Fulgenzio. Perchè per ora non vuol essere nominato. Regolatevi diversamente, e si spiegherà.
Filippo. E che cosa dovrei fare? Tralasciar d’andare in campagna? È impossibile; son troppo avvezzo.
Fulgenzio. Che bisogno c’è, che vi conduciate la figlia?
Filippo. Cospetto di bacco! se non la conducessi, ci sarebbe il diavolo in casa.
Fulgenzio. Vostra figlia dunque può dire anch’ella la sua ragione.
Filippo. L’ha sempre detta.
Fulgenzio. E di chi è la colpa?
Filippo. È mia, lo confesso, la colpa è mia. Ma son di buon cuore.
Fulgenzio. Il troppo buon cuore del padre fa essere di cattivo cuore le figlie.
Filippo. E che vi ho da fare presentemente?
Fulgenzio. Un poco di buona regola. Se non in tutto, in parte. Staccatele dal fianco la gioventù.
Filippo. Se sapessi come fare a liberarmi dal signor Guglielmo!
Fulgenzio. Alle corte: questo signor Guglielmo vuol essere il suo malanno. Per causa sua il galantuomo che la vorrebbe, non si dichiara. Il partito è buono, e se volete che se ne parli, e che si tratti, fate a buon conto che non si veda questa mostruosità, che una figliuola abbia da comandar più del padre.
Filippo. Ma ella in ciò non ne ha parte alcuna. Sono stato io che l’ho invitato a venire.
Fulgenzio. Tanto meglio. Licenziatelo.
Filippo. Tanto peggio; non so come licenziarlo.
Fulgenzio. Siete uomo, o che cosa siete?
Filippo. Quando si tratta di far malegrazie, io non so come fare.
Fulgenzio. Badate che non facciano a voi delle malegrazie che puzzino.
Filippo. Orsù, bisognerà ch’io lo faccia.
Fulgenzio. Fatelo, che ve ne chiamerete contento.
Filippo. Potreste ben farmi la confidenza di dirmi chi sia l’amico che aspira alla mia figliuola.
Fulgenzio. Per ora non posso, compatitemi. Deggio andare per un affare di premura.
Filippo. Accomodatevi, come vi pare.
Fulgenzio. Scusatemi della libertà che mi ho preso.
Filippo. Anzi vi ho tutta l’obbligazione.
Fulgenzio. A buon rivederci.
Filippo. Mi raccomando alla grazia vostra.
Fulgenzio. (Credo di aver ben servito il signor Leonardo. Ma ho inteso di servire alla verità, alla ragione, all’interesse e al decoro dell’amico Filippo). (parte)
SCENA X.
Filippo, poi Giacinta.
Filippo. Fulgenzio mi ha dette delle verità irrefragabili, e non sono si sciocco ch’io non le conosca, e non le abbia conosciute anche prima d’ora. Ma non so che dire, il mondo ha un certo incantesimo, che fa fare di quelle cose che non si vorrebbono fare. Dove però si tratta di dar nell’occhio, bisogna usare maggior prudenza. Orsù, in ogni modo mi convien licenziare il signor Guglielmo, a costo di non andare in campagna.
Giacinta. Mi consolo, signore, che la seccatura è finita.
Filippo. Chiamatemi un servitore.
Giacinta. Se volete che diano in tavola, glielo posso dire io medesima.
Filippo. Chiamatemi un servitore. L’ho da mandare in un loco.
Giacinta. Dove lo volete mandare?
Filippo. Siete troppo curiosa. Lo vo’ mandare dove mi pare.
Giacinta. Per qualche interesse che vi ha suggerito il signor Fulgenzio?
Filippo. Voi vi prendete con vostro padre più libertà di quello che vi conviene.
Giacinta. Chi ve l’ha detto, signore? il signor Fulgenzio?
Filippo. Finitela, e andate via, vi dico.
Giacinta. Alla vostra figliuola? Alla vostra cara Giacinta?
Filippo. (Non sono avvezzo a far da cattivo, e non lo so fare).
Giacinta. (Ci scommetterei la testa, che Leonardo si è servito del signor Fulgenzio per ispuntarla. Ma non ci riuscirà).
Filippo. C’è nessuno di là? C'è nessun servitore?
Giacinta. Ora, ora, acchetatevi un poco. Anderò io a chiamar qualcheduno.
Filippo. Fate presto.
Giacinta. Ma non si può sapere, che cosa vogliate fare del servitore?
Filippo. Che maledetta curiosità! Lo voglio mandare dal signor Guglielmo.
Giacinta. Avete paura che egli non venga? Verrà pur troppo. Così non venisse.
Filippo. Così non venisse?
Giacinta. Sì, signore, così non venisse. Godremmo più libertà, e potrebbe venire con noi quella povera Brigida, che si raccomanda.
Filippo. E non avreste piacere d’aver in viaggio una compagnia da discorrere, da divertirvi?
Giacinta. Io non ci penso, e non v’ho mai pensato. Non siete stato voi che l’ha invitato? Ho detto niente io, perchè lo facciate venire?
Filippo. (Mia figliuola ha più giudizio di me). Ehi, chi è di là? Un servitore.
Giacinta. Subito lo vado io a chiamare. E che volete far dire al signor Guglielmo?
Filippo. Che non s’incomodi, e che non lo possiamo servire.
Giacinta. Oh bella scena! bella, bella, bellissima scena. (con ironia)
Filippo. Glielo dirò con maniera.
Giacinta. Che buona ragione gli saprete voi dire?
Filippo. Che so io?... Per esempio... che nella carrozza ha da venire la cameriera, e che non c’è loco per lui.
Giacinta. Meglio, meglio, e sempre meglio. (come sopra)
Filippo. Vi burlate di me, signorina?
Giacinta. Io mi maraviglio certo di voi, che siete capace di una simile debolezza. Che cosa volete ch’ei dica? Che cosa volete che dica il mondo? Volete essere trattato da uomo incivile, da malcreato?
Filippo. Vi pare cosa ben fatta, che un giovane venga in sterzo con voi?
Giacinta. Sì, è malissimo fatto, e non si può far peggio; ma bisognava pensarvi prima. Se l’avessi invitato io, potreste dir non lo voglio; ma l’avete invitato voi.
Filippo. E bene, io ho fatto il male, ed io ci rimedierò.
Giacinta. Basta che il rimedio non sia peggiore del male. Finalmente s’ei viene con me, c’è la zia, ci siete voi: è male; ma non è gran male. Ma se dite ora di non volerlo, se gli fate la mal’azione di licenziarlo, non arriva domani, che voi ed io per Livorno e per Montenero siamo in bocca di tutti: si alzano sopra di noi delle macchine, si fanno degli almanacchi. Chi dirà: erano innamorati, e si son disgustati. Chi dirà: il padre si è accorto di qualche cosa. Chi sparlerà di voi, chi sparlerà di me; e per non fare una cosa innocente, ne patirà la nostra riputazione.
Filippo. (Quanto pagherei che ci fusse Fulgenzio che la sentisse!) Non sarebbe meglio che lasciassimo stare d’andar in campagna?
Giacinta. Sarebbe meglio per una parte; ma per l’altra poi si farebbe peggio. Figurarsi! quelle buone lingue di Montenero che cosa direbbono de’ fatti nostri! Il signor Filippo non villeggia più, ha finito, non ha più il modo. La sua figliuola, poveraccia! ha terminato presto di figurare. La dote è fritta: chi l’ha da prendere? chi l’ha da volere? Dovevano mangiar meno, dovevano trattar meno. Quello che si vedeva, era fumo, non era arrosto. Mi par di sentirle; mi vengono i sudori freddi.
Filippo. Che cosa dunque abbiamo da fare?
Giacinta. Tutto quello che volete.
Filippo. S’io fuggo dalla padella, ho paura di cader nelle bragie.
Giacinta. E le bragie scottano, e convien salvar la riputazione.
Filippo. Vi parrebbe dunque meglio fatto, che il signor Guglielmo venisse con noi?
Giacinta. Per questa volta, giacchè è fatta. Ma mai più, vedete, mai più. Vi serva di regola, e non lo fate mai più.
Filippo. (È una figliuola di gran talento).
Giacinta. E così? Volete che chiami il servitore, o che non lo chiami?
Filippo. Lasciamo stare, giacchè è fatta.
Giacinta. Sarà meglio, andiamo a pranzo.
Filippo. E in villa abbiamo da tenerlo in casa con noi?
Giacinta. Che impegni avete presi con lui?
Filippo. Io l’ho invitato, per dirla.
Giacinta. E come volete fare a mandarlo via?
Filippo. Ci dovrà stare dunque.
Giacinta. Ma mai più, vedete, mai più.
Filippo. Mai più, figliuola, che tu sia benedetta, mai più. (parte)
SCENA XI.
Giacinta, poi Brigida.
Giacinta. Nulla mi preme del signor Guglielmo. Ma non voglio che Leonardo si possa vantare d’averla vinta. Già son sicura che gli passerà, son sicura che tornerà, che conoscerà non essere questa una cosa da prendere con tanto caldo. E se mi vuol bene davvero, com’egli dice, imparerà a regolarsi per l’avvenire con più discrezione, che non sono nata una schiava, e non voglio essere schiava.
Brigida. Signora, una visita.
Giacinta. E chi è a quest’ora?
Brigida. La signora Vittoria.
Giacinta. Le hai detto che ci sono?
Brigida. Come voleva ch’io dicessi, che non ci è?
Giacinta. Ora mi viene in tasca davvero: e dov’è?
Brigida. Ha mandato il servitore innanzi. È per la strada che viene.
Giacinta. Valle incontro. Converrà ch’io la soffra. Ho anche curiosità di sapere se viene o se non viene in campagna; se vi è novità veruna. Venendo ella a quest’ora, qualche cosa ci avrebbe a essere.
Brigida. Ho saputo una cosa.
Giacinta. E che cosa?
Brigida. Ch’ella pure si è fatto un vestito nuovo, e non lo poteva avere dal sarto, perchè credo che il sarto volesse esser pagato; e c’è stato molto che dire, e se non aveva il vestito, non voleva andare in campagna. Cose, cose veramente da mettere nelle gazzette. (parte)
SCENA XII.
Giacinta, poi Vittoria.
Giacinta. È ambiziosissima. Se vede qualche cosa di nuovo ad una persona, subito le vien la voglia di averla. Avrà saputo ch’io mi ho fatto il vestito nuovo, e l’ha voluto ella pure. Ma non avrà penetrato del mariage. Non l’ho detto a nessuno; non avrà avuto tempo a saperlo.
Vittoria. Giacintina, amica mia carissima.
Giacinta. Buon di, la mia cara gioia. (si baciano)
Vittoria. Che dite eh? È una bell’ora questa da incomodarvi?
Giacinta. Oh! incomodarmi? Quando vi ho sentito venire, mi si è allargato il cuore d’allegrezza.
Vittoria. Come state? State bene?
Giacinta. Benissimo. E voi? Ma è superfluo il domandarvi, siete grassa e fresca, il cielo vi benedica, che consolate.
Vittoria. Voi, voi avete una ciera che innamora.
Giacinta. Oh! cosa dite mai? Sono levata questa mattina per tempo, non ho dormito, mi duole lo stomaco, mi duole il capo, figurarsi che buona ciera ch’io posso avere.
Vittoria. Ed io non so cosa m’abbia, sono tanti giorni che non mangio niente: niente, niente, si può dir quasi niente. Io non so di che viva, dovrei essere come uno stecco.
Giacinta. Sì, sì, come uno stecco! Questi bracciotti non sono stecchi.
Vittoria. Eh! a voi non vi si contano l’ossa.
Giacinta. No, poi. Per grazia del cielo, ho il mio bisognetto.
Vittoria. Oh cara la mia Giacinta!
Giacinta. Oh benedetta la mia Vittoria! (si baciano) Sedete, gioia; via, sedete.
Vittoria. Aveva tanta voglia di vedervi. Ma voi non vi degnate mai di venir da me. (siedono)
Giacinta. Oh! caro il mio bene, non vado in nessun loco. Sto sempre in casa.
Vittoria. E io? Esco un pochino la festa, e poi sempre in casa.
Giacinta. Io non so come facciano quelle che vanno tutto il giorno a girone per la città.
Vittoria. (Vorrei pur sapere se va o se non va a Montenero, ma non so come fare).
Giacinta. (Mi fa specie, che non mi parla niente della campagna).
Vittoria. È molto che non vedete mio fratello?
Giacinta. L’ho veduto questa mattina.
Vittoria. Non so cos’abbia. E inquieto, è fastidioso.
Giacinta. Eh! non lo sapete? Tutti abbiamo le nostre ore buone e le nostre ore cattive.
Vittoria. Credeva quasi che avesse gridato con voi.
Giacinta. Con me? Perchè ha da gridare con me? Lo stimo e lo venero, ma egli non è ancora in grado di poter gridare con me. (Ci giuoco io, che l’ha mandata qui suo fratello).
Vittoria. (È superba quanto un demonio).
Giacinta. Vittorina, volete restar a pranzo con noi?
Vittoria. Oh! no, vita mia, non posso. Mio fratello mi aspetta.
Giacinta. Glielo manderemo a dire.
Vittoria. No, no, assolutamente non posso.
Giacinta. Se volete favorire, or ora qui da noi si dà in tavola.
Vittoria. (Ho capito. Mi vuol mandar via). Così presto andate a desinare?
Giacinta. Vedete bene. Si va in campagna, si parte presto, bisogna sollecitare.
Vittoria. (Ah! maledetta la mia disgrazia).
Giacinta. M’ho da cambiar di tutto, m’ho da vestire da viaggio.
Vittoria. Sì, sì, è vero; ci sarà della polvere. Non torna il conto rovinare un abito buono. (mortificata)
Giacinta. Oh! in quanto a questo poi, me ne metterò uno meglio di questo. Della polvere non ho paura. Mi ho fatto una sopravveste di cambellotto di seta col suo cappuccietto, che non vi è pericolo che la polvere mi dia fastidio.
Vittoria. (Anche la sopravveste col cappuccietto! La voglio anch’io, se dovessi vendere de’ miei vestiti).
Giacinta. Voi non l’avete la sopravveste col cappuccietto?
Vittoria. Sì, sì, ce l’ho ancor io; me l’ho fatta fin dall’anno passato.
Giacinta. Non ve l’ho veduta l’anno passato.
Vittoria. Non l’ho portata, perchè, se vi ricordate, non c’era polvere.
Giacinta. Sì, sì, non c’era polvere. (È propriamente ridicola).
Vittoria. Quest’anno mi ho fatto un abito.
Giacinta. Oh! io me ne ho fatto un bello.
Vittoria. Vedrete il mio, che non vi dispiacerà.
Giacinta. In materia di questo, vedrete qualche cosa di particolare.
Vittoria. Nel mio non vi è nè oro, nè argento, ma per dir la verità, è stupendo.
Giacinta. Oh! moda, moda. Vuol esser moda.
Vittoria. Oh! circa la moda, il mio non si può dir che non sia alla moda.
Giacinta. Sì, sì, sarà alla moda. (sogghignando)
Vittoria. Non lo credete?
Giacinta. Sì, lo credo (vuol restare quando vede il mio mariage).
Vittoria. In materia di mode poi, credo di essere stata sempre io delle prime.
Giacinta. E che cos’è il vostro abito?
Vittoria. È un mariage.
Giacinta. Mariage! (maravigliandosi)
Vittoria. Sì, certo. Vi par che non sia alla moda?
Giacinta. Come avete voi saputo, che sia venuta di Francia la moda del mariage?
Vittoria. Probabilmente, come l’avrete saputo anche voi.
Giacinta. Chi ve l’ha fatto?
Vittoria. Il sarto francese monsieur de la Rèjouissance.
Giacinta. Ora ho capito. Briccone! Me la pagherà, lo l’ho mandato a chiamare. Io gli ho dato la moda del mariage. Io che aveva in casa l’abito di madama Granon.
Vittoria. Oh! madama Granon è stata da me a farmi visita il secondo giorno che è arrivata a Livorno.
Giacinta. Sì, sì, scusatelo. Me l’ha da pagare senz’altro.
Vittoria. Vi spiace ch’io abbia il mariage?
Giacinta. Oibò, ci ho gusto.
Vittoria. Volevate averlo voi sola?
Giacinta. Perchè? Credete voi ch’io sia una fanciulla invidiosa? Credo che lo sappiate, che io non invidio nessuno. Bado a me, mi faccio quel che mi pare, e lascio che gli altri facciano quel che vogliono. Ogni anno un abito nuovo certo. E voglio esser servita subito, e servita bene, perchè pago, pago puntualmente, e il sarto non lo faccio tornare più d’una volta.
Vittoria. Io credo che tutte paghino.
Giacinta. No, tutte non pagano. Tutte non hanno il modo o la delicatezza che abbiamo noi. Vi sono di quelle che fanno aspettare degli anni, e poi se hanno qualche premura, il sarto s’impunta. Vuole i danari sul fatto, e nascono delle baruffe. (Prendi questa, e sappiatemi dir se è alla moda)
Vittoria. (Non crederei che parlasse di me. Se potessi credere che il sarto avesse parlato, lo vorrei trattar come merita).
Giacinta. E quando ve lo metterete questo bell’abito?
Vittoria. Non so, può essere che non me lo metta nemmeno. lo son così; mi basta d’aver la roba, ma non mi curo poi di sfoggiarla.
Giacinta. Se andate in campagna, sarebbe quella l’occasione di metterlo. Peccato, poverina, che non ci andiate in quest’anno!
Vittoria. Chi v’ha detto che io non ci vada?
Giacinta. Non so: il signor Leonardo ha mandato a licenziar i cavalli.
Vittoria. E per questo? Non si può risolvere da un momento all’altro? E credete che io non possa andare senza di lui? Credete che io non abbia delle amiche, delle parenti da poter andare?
Giacinta. Volete venire con me?
Vittoria. No, no, vi ringrazio.
Giacinta. Davvero, vi vedrei tanto volentieri.
Vittoria. Vi dirò, se posso ridurre una mia cugina a venire con me a Montenero, può essere che ci vediamo.
Giacinta. Oh! che l’avrei tanto a caro.
Vittoria. A che ora partite?
Giacinta. A ventun’ora.
Vittoria. Oh! dunque c’è tempo. Posso trattenermi qui ancora un poco. (Vorrei vedere questo abito, se potessi).
Giacinta. Sì, sì, ho capito. Aspettate un poco. (verso la scena)
Vittoria. Se avete qualche cosa da fare, servitevi.
Giacinta. Eh! niente. M’hanno detto che il pranzo è all’ordine, e che mio padre vuol desinare.
Vittoria. Partirò dunque.
Giacinta. No, no, se volete restare, restate.
Vittoria. Non vorrei che il vostro signor padre si avesse a inquietare.
Giacinta. Per verità, è fastidioso un poco.
Vittoria. Vi leverò l’incomodo. (s’alza)
Giacinta. Se volete restar con noi, mi farete piacere. (s’alza)
Vittoria. (Quasi, quasi ci resterei, per la curiosità di quest’abito).
Giacinta. Ho inteso; non vedete? Abbiate creanza. (verso la scena)
Vittoria. Con chi parlate?
Giacinta. Col servitore che mi sollecita. Non hanno niente di civiltà costoro.
Vittoria. lo non ho veduto nessuno.
Giacinta. Eh, l’ho ben veduto io.
Vittoria. (Ho capito). Signora Giacinta, a buon rivederci.
Giacinta. Addio, cara. Vogliatemi bene, ch’io vi assicuro che ve ne voglio.
Vittoria. Siate certa, che siete corrisposta di cuore.
Giacinta. Un bacio almeno.
Vittoria. Sì, vita mia.
Giacinta. Cara la mia gioia. (si baciano)
Vittoria. Addio.
Giacinta. Addio.
Vittoria. (Faccio de’ sforzi a fingere, che mi sento crepare). (parte)
Giacinta. (Le donne invidiose io non le posso soffrire). (parte)
Fine dell’Atto Secondo.
- ↑ Così si chiamano gli scrocchi per derisione. [nota originale]