Le smanie per la villeggiatura/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Camera in casa di Leonardo.
Paolo che sta riponendo degli abiti e della biancheria
in un baule, poi Leonardo.
Leonardo. Che fate qui in questa camera? Si han da far cento cose, e voi perdete il tempo, e non se ne eseguisce nessuna. (a Paolo)
Paolo. Perdoni, signore. Io credo che allestire il baule sia una delle cose necessarie da farsi.
Leonardo. Ho bisogno di voi per qualche cosa di più importante. Il baule fatelo riempir dalle donne.
Paolo. Le donne stanno intorno della padrona; sono occupate per essa, e non vi è caso di poterle nemmen vedere.
Leonardo. Quest’è il difetto di mia sorella. Non si contenta mai. Vorrebbe sempre la servitù occupata per lei. Per andare in villeggiatura non le basta un mese per allestirsi. Due donne impiegate un mese per lei. È una cosa insoffribile.
Paolo. Aggiunga, che non bastandole le due donne, ne ha chiamate due altre ancora in aiuto.
Leonardo. E che fa ella di tanta gente? Si fa fare in casa qualche nuovo vestito?
Paolo. Non signore. Il vestito nuovo glielo fa il sarto. In casa da queste donne fa rinnovare i vestiti usati. Si fa fare delle mantiglie, dei mantiglioni, delle cuffie da giorno, delle cuffie da notte, una quantità di forniture di pizzi, di nastri, di fioretti, un arsenale di roba; e tutto questo per andare in campagna. In oggi la campagna è di maggior soggezione della città.
Leonardo. Sì, è pur troppo vero, chi vuol figurare nel mondo, convien che faccia quello che fanno gli altri. La nostra villeggiatura di Montenero è una delle più frequentate, e di maggior impegno dell’altre. La compagnia, con cui si ha da andare, è di soggezione. Sono io pure in necessità di far di più di quello che far vorrei. Però ho bisogno di voi. Le ore passano, si ha da partir da Livorno innanzi sera, e vo’ che tutto sia lesto, e non voglio che manchi niente.
Paolo. Ella comandi, ed io farò tutto quello che potrò fare.
Leonardo. Prima di tutto, facciamo un poco di scandaglio di quel che c’è, e di quello che ci vorrebbe. Le posate ho timore che siano poche.
Paolo. Due dozzine dovrebbero essere sufficienti.
Leonardo. Per l’ordinario lo credo anch’io. Ma chi mi assicura che non vengano delle truppe d’amici? In campagna si suol tenere tavola aperta. Convien essere preparati. Le posate si mutano frequentemente, e due coltelliere non bastano.
Paolo. La prego perdonarmi, se parlo troppo liberamente. Vossignoria non è obbligata di fare tutto quello che fanno i marchesi fiorentini, che hanno feudi, e tenute grandissime, e cariche, e dignità grandiose.
Leonardo. Io non ho bisogno che il mio cameriere mi venga a fare il pedante.
Paolo. Perdoni; non parlo più.
Leonardo. Nel caso in cui sono, ho da eccedere le bisogna. Il mio casino di campagna è contiguo a quello del signor Filippo. Egli è avvezzo a trattarsi bene; è uomo splendido, generoso; le sue villeggiature sono magnifiche, ed io non ho da farmi scorgere, non ho da scomparire in faccia di lui.
Paolo. Faccia tutto quello che le detta la sua prudenza.
Leonardo. Andate da monsieur Gurland, e pregatelo per parte mia, che mi favorisca prestarmi due coltelliere, quattro sottocoppe, e sei candelieri d’argento.
Paolo. Sarà servita.
Leonardo. Andate poscia dal mio droghiere, fatevi dare dieci libbre di caffè, cinquanta libbre di cioccolata, venti libbre di zucchero, e un sortimento di spezierie per cucina.
Paolo. Si ha da pagare?
Leonardo. No, ditegli che lo pagherò al mio ritorno.
Paolo. Compatisca; mi disse l’altrieri che sperava, prima che ella andasse in campagna, che lo saldasse del conto vecchio.
Leonardo. Non serve. Ditegli che lo pagherò al mio ritorno.
Paolo. Benissimo.
Leonardo. Fate che vi sia il bisogno di carte da giuoco con quel che può occorrere per sei o sette tavolini, e soprattutto che non manchino candele di cera.
Paolo. Anche la cereria di Pisa, prima di far conto nuovo, vorrebbe esser pagata del vecchio.
Leonardo. Comprate della cera di Venezia. Costa più, ma dura più, ed è più bella.
Paolo. Ho da prenderla coi contanti?
Leonardo. Fatevi dare il bisogno; si pagherà al mio ritorno.
Paolo. Signore, al suo ritorno ella avrà una folla di creditori che l’inquieteranno.
Leonardo. Voi m’inquietate più di tutti. Sono dieci anni che siete meco, e ogni anno diventate più impertinente. Perderò la pazienza.
Paolo. Ella è padrona di mandarmi via; ma io, se parlo, parlo per l’amore che le professo.
Leonardo. Impiegate il vostro amore a servirmi, e non a seccarmi. Fate quel che vi ho detto, e mandatemi Cecco.
Paolo. Sarà obbedita. (Oh! vuol passar poco tempo, che le grandezze di villa lo vogliono ridurre miserabile nella città). (parte)
SCENA II.
Leonardo, poi Cecco.
Leonardo. Lo veggo anch’io, che faccio più di quello che posso fare; ma lo fanno gli altri, e non voglio esser di meno. Quell’avaraccio di mio zio potrebbe aiutarmi, e non vuole. Ma se i conti non fallano, ha da crepare prima di me, e se non vuol fare un’ingiustizia al suo sangue, ho da esser io l’erede delle sue facoltà.
Cecco. Comandi.
Leonardo. Va dal signor Filippo Ghiandinelli; se è in casa, fagli i miei complimenti, e digli che ho ordinato i cavalli di posta, e che verso le ventidue partiremo insieme. Passa poi all’appartamento della signora Giacinta di lui figliuola; dille, o falle dir dalla cameriera, che mando a riverirla, e ad intendere come ha riposato la scorsa notte, e che da qui a qualche ora sarò da lei. Osserva frattanto se vi fosse per avventura il signor Guglielmo, e informati bene dalla gente di casa, se vi sia stato, se ha mandato, e se credono ch’ei possa andarvi. Fa bene tutto, e torna colla risposta.
Cecco. Sarà obbedita. (parte)
SCENA III.
Leonardo, poi Vittoria.
Leonardo. Non posso soffrire che la signora Giacinta tratti Guglielmo. Ella dice che dee tollerarlo per compiacere il padre; che è un amico di casa, che non ha veruna inclinazione per lui; mo io non sono in obbligo di creder tutto, e questa pratica non mi piace. Sarà bene che io medesimo solleciti di terminare il baule.
Vittoria. Signor fratello, è egli vero che avete ordinato i cavalli di posta, e che si ha da partir questa sera?
Leonardo. Sì certo. Non si stabilì così fin da ieri?
Vittoria. Ieri vi ho detto che sperava di poter essere all’ordine per partire; ma ora vi dico che non lo sono, e mandate a sospendere l’ordinazion dei cavalli, perchè assolutamente per oggi non si può partire.
Leonardo. E perchè per oggi non si può partire?
Vittoria. Perchè il sarto non mi ha terminato il mio mariage.
Leonardo. Che diavolo è questo mariage?
Vittoria. È un vestito all’ultima moda.
Leonardo. Se non è finito, ve lo potrà mandare in campagna.
Vittoria. No certo. Voglio che me lo provi, e lo voglio veder finito.
Leonardo. Ma la partenza non si può differire. Siamo in concerto d’andar insieme col signor Filippo e colla signora Giacinta, e si ha detto di partir oggi.
Vittoria. Tanto peggio. So che la signora Giacinta è di buon gusto, e non voglio venire col pericolo di scomparire in faccia di lei.
Leonardo. Degli abiti ne avete in abbondanza; potete comparire al par di chi che sia.
Vittoria. Io non ho che delle anticaglie.
Leonardo. Non ve ne avete fatto uno nuovo anche l’anno passato?
Vittoria. Da un anno all’altro gli abiti non si possono più dire alla moda. È vero che li ho fatti rifar quasi tutti; ma un vestito nuovo ci vuole, è necessario, e non si può far senza.
Leonardo. Quest’anno corre il mariage dunque.
Vittoria. Sì, certo. L’ha portato di Torino madama Granon. Finora in Livorno non credo che se ne siano veduti, e spero d’esser io delle prime.
Leonardo. Ma che abito è questo? Vi vuol tanto a farlo?
Vittoria. Vi vuol pochissimo. È un abito di seta di un color solo, colla guarnizione intrecciata di due colori. Tutto consiste nel buon gusto di scegliere colori buoni, che si uniscano bene, che risaltino, e non facciano confusione.
Leonardo. Orsù, non so che dire. Mi spiacerebbe di vedervi scontenta; ma in ogni modo s’ha da partire.
Vittoria. Io non vengo assolutamente.
Leonardo. Se non ci verrete voi, ci anderò io.
Vittoria. Come! Senza di me? Avrete cuore di lasciarmi in Livorno?
Leonardo. Verrò poi a pigliarvi.
Vittoria. No, non mi fido. Sa il cielo quando verrete, e se resto qui senza di voi, ho paura che quel tisico di nostro zio mi obblighi a restar in Livorno con lui; e se dovessi star qui, in tempo che l’altre vanno in villeggiatura, mi ammalerei di rabbia, di disperazione.
Leonardo. Dunque risolvetevi di venire.
Vittoria. Andate dal sarto, ed obbligatelo a lasciar tutto, ed a terminare il mio mariage.
Leonardo. Io non ho tempo da perdere. Ho da far cento cose.
Vittoria. Maledetta la mia disgrazia!
Leonardo. Oh gran disgrazia invero! Un abito di meno è una disgrazia lacrimosa, intollerabile, estrema. (ironico)
Vittoria. Sì, signore, la mancanza di un abito alla moda può far perder il credito a chi ha fama di essere di buon gusto.
Leonardo. Finalmente siete ancora fanciulla, e le fanciulle non s’hanno a mettere colle maritate.
Vittoria. Anche la signora Giacinta è fanciulla, e va con tutte le mode, con tutte le gale delle maritate. E in oggi non si distinguono le fanciulle dalle maritate, e una fanciulla che non faccia quello che fanno l’altre, suol passare per zotica, per anticaglia; e mi maraviglio che voi abbiate di queste massime, e che mi vogliate avvilita e strapazzata a tal segno.
Leonardo. Tanto fracasso per un abito?
Vittoria. Piuttosto che restar qui, o venir fuori senza il mio abito, mi contenterei d’avere una malattia.
Leonardo. Il cielo vi conceda la grazia.
Vittoria. Che mi venga una malattia? (con isdegno)
Leonardo. No, che abbiate l’abito, e che siate contenta.
SCENA IV.
Berto e detti.
Berto. Signore, il signor Ferdinando desidera riverirla. (a Leonardo)
Leonardo. Venga, venga, è padrone.
Vittoria. Sentimi. Va immediatamente dal sarto, da monsieur de la Réjouissance, e digli che finisca subito il mio vestito, che lo voglio prima ch’io parta per la campagna, altrimenti me ne renderà conto, e non farà più il sarto in Livorno.
Berto. Sarà servita. (parte)
Leonardo. Via, acchetatevi, e non vi fate scorgere dal signor Ferdinando.
Vittoria. Che importa a me del signor Ferdinando? Io non mi prendo soggezione di lui. M’immagino che anche quest’anno verrà in campagna a piantare il bordone da noi.
Leonardo. Certo, mi ha dato speranza di venir con noi, e intende di farci una distinzione; ma siccome è uno di quelli che si cacciano da per tutto, e si fanno merito rapportando qua e là i fatti degli altri, convien guardarsene e non fargli sapere ogni cosa; perchè se sapesse le vostre smanie per l’abito, sarebbe capace di porvi in ridicolo in tutte le compagnie, in tutte le conversazioni.
Vittoria. E perchè dunque volete condur con noi questo canchero, se conoscete il di lui carattere?
Leonardo. Vedete bene: in campagna è necessario aver della compagnia. Tutti procurano d’aver più gente che possono; e poi si sente dire: il tale ha dieci persone, il tale ne ha sei, il tale otto, e chi ne ha più, è più stimato. Ferdinando poi è una persona che comoda infinitamente. Gioca a tutto, è sempre allegro, dice delle buffonerie, mangia bene, fa onore alla tavola, soffre la burla, e non se ne ha a male di niente.
Vittoria. Sì, sì, è vero; in campagna questi caratteri sono necessari. Ma che fa, che non viene?
Leonardo. Eccolo lì, ch’esce dalla cucina.
Vittoria. Che cosa sarà andato a fare in cucina?
Leonardo. Curiosità. Vuol saper tutto. Vuol saper quel che si fa, quel che si mangia, e poi lo dice per tutto.
Vittoria. Manco male, che di noi non potrà raccontare miserie.
SCENA V.
Ferdinando e detti.
Ferdinando. Padroni miei riveriti. Il mio rispetto alla signora Vittoria.
Vittoria. Serva, signor Ferdinando.
Leonardo. Siete, amico, siete dei nostri?
Ferdinando. Sì, sarò con voi. Mi sono liberato da quel seccatore del conte Anselmo, che mi voleva seco per forza.
Vittoria. Il conte Anselmo non fa una buona villeggiatura?
Ferdinando. Sì, si tratta bene, fa una buona tavola; ma da lui si fa una vita troppo metodica. Si va a cena a quattr’ore, e si va a letto alle cinque.
Vittoria. Oh! io non farei questa vita per tutto l’oro del mondo. Se vado a letto prima dell’alba, non è possibile ch’io prenda sonno.
Leonardo. Da noi sapete come si fa. Si giuoca, si balla; non si va mai a cena prima delle otto; e poi col nostro carissimo faraoncino il più delle volte si vede il sole.
Vittoria. Questo si chiama vivere.
Ferdinando. E per questo ho preferito la vostra villeggiatura a quella del conte Anselmo. E poi quell’anticaglia di sua moglie è una cosa insoffribile.
Vittoria. Sì, sì, vuol fare ancora la giovinetta.
Ferdinando. L’anno passato, i primi giorni sono stato io il cavalier servente; poi è capitato un giovanetto di ventidue anni, e ha piantato me per attaccarsi a lui.
Vittoria. Oh! che ti venga il bene. Con un giovanetto di ventidue anni?
Ferdinando. Sì, e mi piace di dire la verità: era un biondino, ben cincinnato, bianco e rosso come una rosa.
Leonardo. Mi maraviglio di lui, che avesse tal sofferenza.
Ferdinando. Sapete com’è? È uno di quelli che non hanno il modo, che si appoggiano qua e là, dove possono; e si attaccano ad alcuna di queste signore antichette, le quali pagano loro le poste, e danno loro qualche zecchino ancor per giocare.
Vittoria. (È una buona lingua per altro).
Ferdinando. A che ora si parte?
Vittoria. Non si sa ancora. L’ora non è stabilita.
Ferdinando. M’immagino che anderete in una carrozza da quattro posti.
Leonardo. Io ho ordinato un calesso per mia sorella e per me, ed un cavallo per il mio cameriere.
Ferdinando. Ed io come vengo?
Leonardo. Come volete.
Vittoria. Via, via. Il signor Ferdinando verrà con me, voi anderete nello sterzo col signor Filippo e la signora Giacinta, (a Leonardo) (Farò meglio figura a andar in calesso con lui, che con mio fratello).
Leonardo. Ma siete poi risolta di voler partire? (a Vittoria)
Ferdinando. Che? Ci ha qualche difficoltà?
Vittoria. Vi potrebbe essere una picciola difficoltà.
Ferdinando. Se non siete sicuri di partire, ditemelo liberamente. Se non vado con voi, andrò con qualchedun altro. Tutti vanno in campagna, e non voglio che dicano, ch’io resto a far la guardia a Livorno.
Vittoria. (Sarebbe anche per me una grandissima mortificazione).
SCENA VI.
Cecco e detti.
Cecco. Son qui, signore.... (a Leonardo)
Leonardo. Accostati. (a Cecco) Con licenza. (a Ferdinando)
Cecco. (Il signor Filippo la riverisce, e dice che circa ai cavalli da posta, riposa sopra di lei. La signora Giacinta sta bene; lo sta attendendo, e lo prega sollecitare, perchè di notte non ha piacer di viaggiare).
Leonardo. (E di Guglielmo mi sai dir niente?)
Cecco. (Mi assicurano che questa mattina non si è veduto).
Leonardo. (Benissimo: son contento). Andrai ad avvisare il fattore della posta, che siano lesti i cavalli per ventun’ora.
Vittoria. Ma se quell’affare non fosse in ordine?...
Leonardo. Ci sia, o non ci sia; venite, o non venite, io vo’ partire alle ventun’ora...
Ferdinando. Ed io per le ventuna sarò qui preparato.
Vittoria. Vorrei vedere ancor questa....
Leonardo. Sono in impegno, e per una scioccheria voi non mi farete mancare. Se vi fossero delle buone ragioni, pazienza; ma per uno straccio d’abito non si ha da restare, (a Vittoria, e parte.)
SCENA VII.
Vittoria, Ferdinando e Cecco.
Vittoria. (Povera me, in che condizione miserabile che mi trovo! Non son padrona di me; ho da dipendere dal fratello. Non veggo l’ora di maritarmi; niente per altro, che per poter fare a mio modo).
Ferdinando. Ditemi in confidenza, signora, se si può dire: che cosa vi mette in dubbio di partire o di non partire?
Vittoria. Cecco.
Cecco. Signora.
Vittoria. Sei tu stato dalla signora Giacinta?
Cecco. Sì, signora.
Vittoria. L’hai veduta?
Cecco. L’ho veduta.
Vittoria. E che cosa faceva?
Cecco. Si provava un abito.
Vittoria. Un abito nuovo?
Cecco. Nuovissimo.
Vittoria. (Oh maledizione! Se non ho il mio, non parto assolutamente).
Ferdinando. (E che sì, ch’ella pure vorrebbe un vestito nuovo, e non ha denari per farselo? Già tutti lo dicono: fratello e sorella sono due pazzi. Spendono più di quello che possono, e consumano in un mese a Montenero quello che basterebbe loro un anno in Livorno).
Vittoria. Cecco.
Cecco. Signora.
Vittoria. E com’è quest’abito della signora Giacinta?
Cecco. Per dir la verità, non ci ho molto badato, ma credo sia un vestito da sposa.
Vittoria. Da sposa? Hai tu sentito dire, che si faccia la sposa?
Cecco. Non l’ho sentito dire precisamente. Ma ho inteso una parola francese che ha detto il sarto, che mi par di capirla.
Vittoria. Intendo anch’io il francese. Che cosa ha detto?
Cecco. Ha detto mariage.
Vittoria. (Ah! sì, ora ho capito; si fa ella pure il mariage: mi pareva impossibile che non lo facesse). Dov’è Berto? Guarda se trovi Berto. Se non e’è, coni dal mio sartore, digli che assolutamente, in termine di tre ore, vo’ che mi porti il mio mariage.
Cecco. Mariage non vuol dir matrimonio?
Vittoria. Il diavolo che ti porti. Va subito, corri. Fa quel che ti dico, e non replicare.
Cecco. Sì, signora, subito corro. (parte)
SCENA VIII.
Vittoria e Ferdinando.
Ferdinando. Signora, dite la verità, sareste in dubbio di partire per la mancanza dell’abito?
Vittoria. E bene? Mi dareste il torto per questo?
Ferdinando. No, avete tutte le ragioni del mondo: è una cosa necessarissima. Lo fanno tutte, lo fanno quelle che non lo potrebbono fare. Conoscete la signora Aspasia?
Vittoria. La conosco.
Ferdinando. Se n’è fatto uno ella pure, e ha preso il drappo in credenza per pagarlo uno scudo al mese. E la signora Costanza? La signora Costanza, per farsi l’abito nuovo, ha venduto due paia di lenzuola ed una tovaglia di Fiandra e ventiquattro salviette.
Vittoria. E per qual impegno, per qual premura hanno fatto questo?
Ferdinando. Per andare in campagna.
Vittoria. Non so che dire, la campagna è una gran passione, le compatisco; se fossi nel caso loro, non so anch’io che cosa farei. In città non mi curo di far gran cose; ma in villa ho sempre paura di non comparire bastantemente.... Fatemi un piacere, signor Ferdinando, venite con me.
Ferdinando. Dove abbiamo d’andare?
Vittoria. Dal sarto, a gridare, a strapazzarlo ben bene.
Ferdinando. No, volete ch’io v’insegni a farlo sollecitare?
Vittoria. E come direste voi che io facessi?
Ferdinando. Perdonate: lo pagate subito?
Vittoria. Lo pagherò al mio ritorno.
Ferdinando. Pagatelo presto, e sarete servita presto.
Vittoria. Lo pago quando voglio, e vo’ che mi serva quando mi pare. (parte)
Ferdinando. Bravissima, bel costume! Far figura in campagna, e farsi maltrattare in città. (parte)
SCENA IX.
Camera in casa di Filippo.
Filippo e Guglielmo incontrandosi.
Filippo. Oh, signor Guglielmo, che grazie, che finezze son queste?
Guglielmo. Il mio debito, signor Filippo; il mio debito, e niente più. So che oggi ella va in campagna, e sono venuto ad augurarle buon viaggio e buona villeggiatura.
Filippo. Caro amico, sono obbligato all’amor vostro, alla vostra attenzione; oggi finalmente si anderà in campagna. In quanto a me ci sarei che sarebbe un mese, e ai miei tempi, quando ero giovane, si anticipavano le villeggiature, e si anticipava il ritorno. Fatto il vino, si ritornava in città; ma allora si andava per fare il vino, ora si va per divertimento, e si sta in campagna col freddo, e si vedono seccar le foglie sugli alberi.
Guglielmo. Ma non siete voi il padrone? Perchè non andate quando vi pare, e non tornate quando vi comoda?
Filippo. Sì, dite bene, lo potrei fare; ma sono stato sempre di buon umore; mi ha sempre piaciuto la compagnia, e nell’età in cui sono, mi piace vivere, mi piace ancora godere un poco di mondo. Se dico di andar in villa il settembre, non c’è un can che mi seguiti, nessuno vuol venire con me a sagrificarsi. Anche mia figlia alza il grugno, e non ho altri al mondo che la mia Giacinta, e desidero soddisfarla. Si va quando vanno gli altri, ed io mi lascio regolar dagli altri.
Guglielmo. Veramente quello che si fa dalla maggior parte, si dee credere che sia sempre il meglio.
Filippo. Non sempre, non sempre, ci sarebbe molto che dire. Voi dove fate quest’anno la vostra villeggiatura?
Guglielmo. Non so; non ho ancora fissato. (Ah! se potessi andare con lui; se potessi villeggiare coll’amabile sua figliuola!)
Filippo. Vostro padre era solito villeggiare sulle colline di Pisa.
Guglielmo. È verissimo. Colà sono situati i nostri poderi, e vi è un’abitazione passabile. Ma io son solo, e dirò, come dite voi, star solo in campagna è un morir di malinconia.
Filippo. Volete venir con noi?
Guglielmo. Oh! signor Filippo, io non ho alcun merito, nè oserei di dare a voi questo incomodo.
Filippo. Io non son uomo di ceremonie. Posso adattarmi allo stile moderno in tutt’altro, fuor che nell’uso dei complimenti. Se volete venire, vi esibisco un buon letto, una mediocre tavola, ed un cuore sempre aperto agli amici, e sempre eguale con tutti.
Guglielmo. Non so che dire. Siete così obbligante, che io non posso ricusare le grazie vostre.
Filippo. Così va fatto. Venite, e stateci fin che vi pare; non pregiudicate i vostri interessi, e stateci fin che vi pare.
Guglielmo. A che ora destinate voi di partire?
Filippo. Non lo so; intendevi col signor Leonardo.
Guglielmo. Viene con voi il signor Leonardo?
Filippo. Sì, certo, abbiamo destinato d’andare insieme con lui e con sua sorella. Le nostre case di villa sono vicine, siamo amici, e anderemo insieme.
Guglielmo. (Questa compagnia mi dispiace. Ma nè anche per ciò voglio perdere l’occasione favorevole di essere in compagnia di Giacinta).
Filippo. Ci avete delle difficoltà?
Guglielmo. Non signore. Pensava ora se dovea prendere un calesso, o, essendo solo, un cavallo da sella.
Filippo. Facciamo così. Noi siamo in tre ed abbiamo un legno da quattro; venite dunque con noi.
Guglielmo. Chi è il quarto, se è lecito?
Filippo. Una mia cognata vedova, che viene con noi per custodia di mia figliuola; non già ch’ella abbia bisogno di essere custodita, che ha giudizio da sè, ma per il mondo, non avendo madre, è necessario che vi sia una donna attempata.
Guglielmo. Va benissimo. (Procurerò ben io di cattivarmi l’animo della vecchia).
Filippo. E così? Vi comoda di venir con noi?
Guglielmo. Anzi è la maggior finezza che io possa ricevere.
Filippo. Andate dunque dal signor Leonardo, e ditegli che non s’impegni con altri per il posto che è destinato per voi.
Guglielmo. Non potreste farmi voi il piacere di mandar qualcheduno?
Filippo. I miei servitori sono tutti occupati. Scusatemi, non mi pare di darvi sì grande incomodo.
Guglielmo. Non dico diversamente. Aveva un certo picciolo affare. Basta, non occorr’altro. Anderò io ad avvisarlo. (Dica Leonardo quel che sa dire, prenda la cosa come gli pare, ci penso poco, e non ho soggezione di lui). Signor Filippo, a buon rivederci.
Filippo. Non vi fate aspettare.
Guglielmo. Sarò sollecito. Ho degli stimoli che mi faranno sollecitare, (parte)
SCENA X.
Filippo, poi Giacinta e Brigida.
Filippo. Or che ci penso. Non vorrei che mi criticassero, invitando un giovane a venir con noi, avendo una figliuola da maritare. Ma, diacine, è una cosa che in oggi si accostuma da tanti, perchè hanno da criticare me solo? Potrebbono anche dire del signor Leonardo, che viene con noi, e di me, che vado con sua sorella, che sono vecchio, è vero, ma non sono poi sì vecchio, che non potessero sospettare. Eh! al giorno d’oggi non vi è malizia. Pare che l’innocenza della campagna si comunichi ai cittadini. Non si usa in villa quel rigore che si pratica nelle città; e poi in casa mia so quanto mi posso compromettere; mia figlia è savia, è bene educata. Eccola, che tu sia benedetta!
Giacinta. Signor padre, mi favorisca altri sei zecchini.
Filippo. E per che fare, figliuola mia?
Giacinta. Per pagare la sopravveste di seta da portar per viaggio per ripararsi dalla polvere.
Filippo. (Poh! non si finisce mai). Ed è necessario che sia di seta?
Giacinta. Necessarissimo. Sarebbe una villania portare la polverina di tela; vuol essere di seta, e col cappuccietto.
Filippo. Ed a che fine il cappuccietto?
Giacinta. Per la notte, per l’aria, per l’umido, per quando è freddo.
Filippo. Ma non si usano i cappellini? I cappellini non riparano meglio?
Giacinta. Oh, i cappellini!
Brigida. Oh, oh, oh, i cappellini!
Giacinta. Che ne dici eh, Brigida? I cappellini!
Brigida. Fa morir di ridere il signor padrone. I cappellini!
Filippo. Che! ho detto qualche sproposito? Qualche bestialità? A che far tante maraviglie? Non si usavano forse i cappellini?
Giacinta. Goffaggini, goffaggini.
Brigida. Anticaglie, anticaglie.
Filippo. Ma quanto sarà, che non si usano più i cappellini?
Giacinta. Oh! due anni almeno.
Filippo. E in due anni sono venuti anticaglie?
Brigida. Ma non sapete, signore, che quello che si usa un anno, non si usa l’altro?
Filippo. Sì, è vero. Ho veduto in pochissimi anni cuffie, cuffiotti, cappellini, cappelloni; ora corrono i cappuccietti; m’aspetto che l’anno venturo vi mettiate in testa una scarpa.
Giacinta. Ma voi che vi maravigliate tanto delle donne, ditemi un poco, gli uomini non fanno peggio di noi? Una volta, quando viaggiavano per la campagna, si mettevano il loro buon giubbone di panno, le gambiere di lana, le scarpe grosse: ora portano anch’eglino la polverina, gli scappinetti colle fibbie di brilli, e montano in calesse colle calzoline di seta.
Brigida. E non usano più il bastone.
Giacinta. Ed usano il pallossetto ritorto.
Brigida. E portano l’ombrellino per ripararsi dal sole.
Giacinta. E poi dicono di noi.
Brigida. Se fanno peggio di noi.
Filippo. Io non so niente di tutto questo. So che come s’andava cinquant’anni sono, vado ancora presentemente.
Giacinta. Questi sono discorsi inutili. Favoritemi sei zecchini.
Filippo. Sì, veniamo alla conclusione; lo spendere è sempre stato alla moda.
Giacinta. Mi pare di essere delle più discrete.
Brigida. Oh! signore, non sapete niente. Date un’occhiata in villa a quel che fanno le altre, e me la saprete poi raccontare.
Filippo. Sicchè dunque devo ringraziare la mia figliuola, che mi fa la finezza di farmi risparmiare moltissimo.
Brigida. Vi assicuro che una fanciulla più economa non si dà.
Giacinta. Mi contento del puro puro bisognevole, e niente più.
Filippo. Figliuola mia, sia bisognevole, o non sia bisognevole, sapete ch’io desidero soddisfarvi, e i sei zecchini venite a prenderli nella mia camera, che ci saranno. Ma circa all’economia, studiatela un poco più, perchè, se vi maritate, sarà difficile che troviate un marito del carattere di vostro padre.
Giacinta. A che ora si parte?
Filippo. (A proposito). Io penso verso le ventidue.
Giacinta. Oh! credo che si partirà prima. E chi viene in carrozza con noi?
Filippo. Ci verrò io, ci verrà vostra zia, e per quarto un galantuomo, un mio amico che conoscete anche voi.
Giacinta. Qualche vecchio forse?
Filippo. Vi dispiacerebbe che fosse un vecchio?
Giacinta. Oh! non signore. Non ci penso, basta che non sia una marmotta. Se è anche vecchio, quando sia di buon umore, son contentissima.
Filippo. È un giovane.
Brigida. Tanto meglio.
Filippo. Perchè tanto meglio?
Brigida. Perchè la gioventù naturalmente è più vivace, è più spiritosa. Starete allegri; non dormirete per viaggio.
Giacinta. E chi è questo signore?
Filippo. È il signor Guglielmo.
Giacinta. Sì, sì, è un giovane di talento.
Filippo. Il signor Leonardo, mi figuro, andrà in calesso con sua sorella.
Giacinta. Probabilmente.
Brigida. Ed io, signore, con chi anderò?
Filippo. Tu andrai come sei solita andare: per mare, in una feluca, colla mia gente e con quella del signor Leonardo.
Brigida. Ma, signore, il mare mi fa sempre male, e l’anno passato ho corso pericolo d’annegarmi, e quest’anno non ci vorrei andare.
Filippo. Vuoi ch’io ti prenda un calesso apposta?
Brigida. Compatitemi, con chi va il cameriere del signor Leonardo?
Giacinta. Appunto: il suo cameriere lo suol condurre per terra. Povera Brigida, lasciate che ella vada con esso lui.
Filippo. Col cameriere?
Giacinta. Sì, cosa avete paura? Ci siamo noi; e poi sapete che Brigida è una buona fanciulla.
Brigida. In quanto a me, vi protesto, monto in sedia, mi metto a dormire, e non lo guardo in faccia nemmeno.
Giacinta. È giusto ch’io abbia meco la mia cameriera.
Brigida. Tutte le signore la conducono presso di loro.
Giacinta. Per viaggio mi possono abbisognar cento cose.
Brigida. Almeno son li pronta per assistere, per servir la padrona.
Giacinta. Caro signor padre.
Brigida. Caro signor padrone.
Filippo. Non so che dire; non so dir di no, non son capace di dir di no, e non dirò mai di no. (parte)
SCENA XI.
Giacinta e Brigida.
Giacinta. Sei contenta?
Brigida. Brava la mia padrona.
Giacinta. Oh! io poi ho questo di buono: faccio far alla gente tutto quello che io voglio.
Brigida. Ma, come andrà la faccenda col signor Leonardo?
Giacinta. Su che proposito?
Brigida. Sul proposito del signor Guglielmo: sapete quanto è geloso; e se lo vede in carrozza con voi....
Giacinta. Converrà che lo soffra.
Brigida. Io ho paura che si disgusterà.
Giacinta. Con chi?
Brigida. Con voi.
Giacinta. Eh! per appunto. Gliene ho fatte soffrir di peggio.
Brigida. Compatitemi, signora padrona, il poverino vi vuol troppo bene.
Giacinta. Ed io non gli voglio male.
Brigida. Ei si lusinga, che siate un giorno la di lui sposa.
Giacinta. E può anche essere che ciò succeda.
Brigida. Ma se avesse questa buona intenzione, procurate un poco più di renderlo soddisfatto.
Giacinta. Anzi per lo contrario, prevedendo ch’ei possa un giorno essere mio marito, vo’ avvezzarlo per tempo a non esser geloso, a non esser soffistico, a non privarmi dell’onesta mia libertà. Se principia ora a pretendere, a comandare, se gli riesce ora d’avvilirmi, di mettermi in soggezione, è finita: sarò schiava perpetuamente. O mi vuol bene, o non mi vuol bene. Se mi vuol bene, s’ha da fidare, se non mi vuol bene, che se ne vada.
Brigida. Dice per altro il proverbio: chi ama, teme; e se dubita, dubiterà per amore.
Giacinta. Questo è un amore che non mi comoda.
Brigida. Diciamola fra di noi: voi l’amate pochissimo il signor Leonardo.
Giacinta. Io non so quanto l’ami; ma so che l’amo più di quello ch’io abbia amato nessuno; e non avrei difficoltà a sposarlo, ma non a costo di essere tormentata.
Brigida. Compatitemi, questo non è vero amore.
Giacinta. Non so che fare. Io non ne conosco di meglio.
Brigida. Mi pare di sentir gente.
Giacinta. Va a vedere chi è.
Brigida. Oh! appunto è il signor Leonardo.
Giacinta. Che vuol dir che non viene innanzi?
Brigida. E che sì, che ha saputo del signor Guglielmo?
Giacinta. O prima, o dopo, l’ha da sapere.
Brigida. Non viene. C’è del male. Volete che io vada a vedere?
Giacinta. Sì, va a vedere, fallo venire innanzi.
Brigida. (Capperi, non mi preme per lui, mi preme per il cameriere). (parte)
SCENA XII.
Giacinta e Leonardo.
Giacinta. Sì, lo amo, lo stimo. Io desidero, ma non posso soffrire la gelosia.
Leonardo. Servitor suo, signora Giacinta. (sostenuto)
Giacinta. Padrone, signor Leonardo. (sostenuta)
Leonardo. Scusi se son venuto ad incomodarla.
Giacinta. Fa grazia, signor ceremoniere, fa grazia. (con ironia)
Leonardo. Sono venuto ad augurarle buon viaggio.
Giacinta. Per dove?
Leonardo. Per la campagna.
Giacinta. E ella non favorisce?
Leonardo. Non signora.
Giacinta. Perchè, se è lecito?
Leonardo. Perchè non le vorrei essere di disturbo.
Giacinta. Ella non incomoda mai; favorisce sempre. È così grazioso, che favorisce sempre. (con ironia)
Leonardo. Non sono io il grazioso. Il grazioso lo averà seco lei nella sua carrozza.
Giacinta. Io non dispongo, signore. Mio padre è il padrone, ed è padrone di far venire chi vuole.
Leonardo. Ma la figliuola si accomoda volentieri.
Giacinta. Se volentieri, o malvolentieri, voi non avete da far l’astrologo.
Leonardo. Alle corte, signora Giacinta. Quella compagnia non mi piace.
Giacinta. È inutile che a me lo diciate.
Leonardo. E a chi lo devo dire?
Giacinta. A mio padre.
Leonardo. Con lui non ho libertà di spiegarmi.
Giacinta. Nè io ho l’autorità di farlo fare a mio modo.
Leonardo. Ma se vi premesse la mia amicizia, trovereste la via di non disgustarmi.
Giacinta. Come? Suggeritemi voi la maniera.
Leonardo. Oh! non mancano pretesti, quando si vuole.
Giacinta. Per esempio?
Leonardo. Per esempio si fa nascere una novità che differisca l'andata, e si acquista tempo; e quando preme, si tralascia d’andare, piuttosto che disgustare una persona per cui si ha qualche stima.
Giacinta. Sì, per farsi ridicoli, questa è la vera strada.
Leonardo. Eh! dite che non vi curate di me.
Giacinta. Ho della stima, ho dell’amore per voi; ma non voglio per causa vostra fare una trista figura in faccia del mondo.
Leonardo. Sarebbe un gran male, che non andaste un anno in villeggiatura?
Giacinta. Un anno senza andare in villeggiatura! Che direbbero di me a Montenero? Che direbbero di me a Livorno? Non avrei più ardire di mirar in faccia nessuno.
Leonardo. Quand’è così, non occorr’altro. Vada, si diverta, e buon pro le faccia.
Giacinta. Ma ci verrete anche voi.
Leonardo. Non signora, non ci verrò.
Giacinta. Eh! sì, che verrete. (amorosamente)
Leonardo. Con colui non ci voglio andare.
Giacinta. E che cosa vi ha fatto colui?
Leonardo. Non lo posso vedere.
Giacinta. Dunque l’odio che avete per lui, è più grande dell’amore che avete per me.
Leonardo. Io l’odio appunto per causa vostra.
Giacinta. Ma per qual motivo?
Leonardo. Perchè, perchè.... non mi fate parlare.
Giacinta. Perchè ne siete geloso?
Leonardo. Sì, perchè ne sono geloso.
Giacinta. Qui vi voleva. La gelosia che avete di lui, è un’offesa che fate a me, e non potete essere di lui geloso, senza credere me una frasca, una civetta, una banderuola. Chi ha della stima per una persona, non può nutrire tai sentimenti, e dove non vi è stima, non vi può essere amore; e se non mi amate, lasciatemi, e se non sapete amare, imparate. Io vi amo, e son fedele, e son sincera, e so il mio dovere, e non vo’ gelosie, e non voglio dispetti, e non voglio farmi ridicola per nessuno, e in villa ci ho d’andare, ci devo andare, e ci voglio andare. (parte)
Leonardo. Va, che il diavolo ti strascini. Ma no; può essere che tu non ci vada. Farò tanto forse, che non ci anderai. Maladetto sia il villeggiare. In villa ha fatto quest’amicizia. In villa ha conosciuto costui. Si sagrifichi tutto: dica il mondo quel che sa dire; dica mia sorella quel che vuol dire. Non si villeggia più, non si va più in campagna. (parte)
Fine dell’Atto Primo.