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Era d’estate, faceva caldo. Dopo il pranzo io mi era gettata sopra una poltrona di Vienna: mi dondolava pigramente, agitando il ventaglio. Non ricordo quale fosse il mio abbigliamento — ma senza dubbio, esso doveva consistere in una di quelle fluenti vestaglie scollate, di stoffa leggera e di colore vivo, che sono la mia abituale estiva toilette di casa. Col capo rovesciato sulla spalliera e le braccia levate in alto, io credo dovessi presentare un quadretto abbastanza appetitoso, nella nudità del collo e delle braccia ed in tutto l’abbandono della persona. Certo è che tu, seduto da me poco discosto, mi chiamasti d’un tratto.

— Viviana!

Confesso ch’io non volai al tuo appello. Provai, anzi, la consueta uggia di un richiamo alla realtà miserevole, da chi sa quale meraviglioso sogno di poesia. Volsi nonostante la faccia verso te, interrogando. Tu ripetesti, più accentuatamente:

— Viviana!...

— Che cosa vuoi?... — diss’io seccata.