Le confessioni di una figlia del Secolo (1906)/A Edoardo

A Edoardo

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A Donna Paola A Carlo
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A  EDOARDO.


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A EDOARDO...


Mio caro Edoardo,

Tu mi hai voluto molto bene, fratello — ed ora, nel momento di morire, una grande tristezza mi prende di ferire la tua bella giovinezza, d’un colpo che, forse, non si attenuerà mai.

Ma bisogna pure ch’io ti parli, prima di morire — bisogna pure che tu sappia perchè io parto, poiché tu solo, della mia famiglia — tu, che, quasi, appena mi conosci — io amo di quell’ardente e vivo amore, che ha la benedizione della Natura, e che è la poesia unica della vita. Chi ho più mai, io?... Io non ho più alcuno, che mi tenga con legami di sangue. Non importa se gente v’è che potrebbe, che dovrebbe anzi tenermi: quella gente è lontana da me, più che per la distanza [p. 90 modifica]materiale, per l'abisso della incompatibilità dello spirito.

E pure bisogna che ti parli, e che ti dica perchè io muoio : uno dei perchè. Una donna non muore, Edoardo mio, alla mia età, per una sola ragione : delusione d'amore o dissesto finanziario. L'una cose è pe' poeti, l'altra pe' prosaici — quelli, che non vedono la vita senza quel loro amore; questi, che non la vedono senza quei loro quattrini. Alla mia età si muore per molte ragioni — voglio dire anzi che una donna, come me, non si uccide: son le cose della sua vita, che la uccidono. Ed io, oggi, adoperandomi, come ogni giorno da vari, per disfare il mio corpo, so di non essere che lo strumento dei Fati e dei fatti anteriori : quelli si son resi padroni di questi e mi hanno imposto l'opera della dissoluzione.

In qual modo potrei io ribellarmi?... Ciò mi sa- rebbe possibile — lo è per altri — se qualche aiuto mi sorreggesse, se qualcuno o qualcosa — anzi unicamente qualcosa — avessi su cui posare il cuore e la mano e farmene appoggio. Non occorro persone [p. 91 modifica]ad uno stanco della vita, per ristoro, per conforto. Occorrono ideali, occorrono luci — cose alte e supreme ed intangibili, occorrono. Ed io sono stanca e solitaria ed oscura è la mia anima: nessuna virtù divina la guida più o la illumina: non Fede, non Speranza, non Carità. Su quale proda amica deporrei io, dunque, la mia povera anima, che già precipita nell’ultimo nulla?

Ti scrìvo, Edoardo mio. Il più lacrimevole ed insieme il più sozzo romanzo ha generato la tua e la mia vita. Ma tu sei uomo e tu hai potuto scuotere dalle tue spalle il peso di lacrime e di fango. Io no. Io ho dovuto portar sempre con me il triste fardello della mia nascita: le miserie fra le quali nacqui — e dalle quali il mio piccolo cuore sorbì i primi sorsi della incancellabile amarezza — sono state sempre sopra me come un anatema ed entro me come una piaga.

Ma tu, tutti questi particolari non li sai. Fratelli noi siamo, sì. Ma quando mai le nostre [p. 92 modifica]infanzie si fusero insieme, quando gli stessi giuochi ci unirono, quando le stesse lacrime ci battezzarono del medesimo crisma?

Tu non sai, tu non sai!... Ma io voglio dirtelo, — oggi, che sto per morire — quanto squallore abbia preseduto alla mia infanzia, quanti pianti, quanti orrori mi si pararono dinanzi, primi, non appena i miei occhi si chiusero sull’infinito, per riaprirsi sullo spettacolo della vita. Spettacolo che pur dovrebbe essere così maraviglioso — che è, anzi, tanto maraviglioso — poi che ai bimbi, ignari ancora del domani, l’oggi si mostra ridente a traverso i bei visi lieti ed amanti dei genitori, negli sguardi d’amore, nelle parole che sono tutta una musica celeste, perchè vengono da labbra che sanno il sapore della felicità.

Io non ho avuto, no, cotesto spettacolo. Sulla mia culla una povera donna ha stemperato la sua giovinezza in lacrime senza fine, ha spremuto dalla sua anima, come da un tralcio d’uva matura, tutto il dolore di cui può essere piena l’anima di umana creatura. Attorno a me — ed i miei occhi, che [p. 93 modifica]hanno pur veduto ormai tutto quanto d'orrore può vedersi, ne hanno ancora la visione nettissima — io non ho scorto che desolazione di cuori e povertà di esistenza... anche povertà!.. Piccolo bocciuolo, che domandava alimento di sole e di luce, sugli esangui petali della mia infanzia, io non ho avuto altra elemosina di alimento affettivo, che l'ira ed il dolore !

Nostro padre — ed ecco la ragione unica della nostra comunione di sangue — era un uomo altero et violento, dalle passioni infrenabili. Null'altro io so di lui, poi che egli — benché vissuto sino alla mia maggiore età — era per me un estraneo, a cui nulla mi legava: neppure la riconoscenza di avermi dato la vita. E pure, sì, qualcosa mi legava a lui: l'orgoglio del nome antichissimo, la pre-dilezione per la raffinatezza, quella connaturata aristocrazia, che lui condussero ad essere tiranno, io, ad essere vittima.

Oltre questo oscuro legame di vane fisime, anzi di dannose debolezze, nulla, fra me e colui che mi generò, è esistito di comune. Io son passata [p. 94 modifica]presso lui, non come la figlia, ma come un essere inutile, anzi un oggetto ingombrante, una cosa caduta inopinatamente nel meglio di un calcolo che si credeva perfetto.

Ma di ciò non mi lagnerei eccessivamente, se, nella sua malevolenza, egli non avesse coinvolta la mia povera madre. Ella mi amava senza dubbio, la infelice creatura... Molte volte, dopo essersi guardata d’attorno ed avere visto lo squallore della nostra casa e la solitudine delle nostre esistenze, ella mi prendeva fra le braccia disperatamente, e disperatamente mi baciava, come per esaurire in un grande impeto tutta la esuberanza di una giovinezza amante, che sfioriva sola e senza amore. Ma poi, pensando che anch’io era, forse, una delle cause della sua gran croce, ella mi respingeva e mi guardava quasi nemica.

Così è passata la mia infanzia. Spesso, nella casa vuota — oltre l’amore — mancava, quasi il pane. Bimba, io ho sofferto l’inedia e la privazione di ogni cosa necessaria: con lo sguardo stupito, io ho assistito a scene quasi mute, ma di [p. 95 modifica]una così profonda significazione, da lasciarmi nella mente inesperta l’impronta incancellabile della loro misteriosa gravità.

Ed una volta — ricordo — eravamo rimaste sole tutto il giorno. Mia madre aveva lavorato ad accomodare certi panni, ormai consunti, per sé, per me. Tristemente la giornata era passata, né io, bimba, aveva osato giuocare con le mie vecchie bambole, nell’apprensione istintiva di una grande sventura.

L’ora del pranzo era sopraggiunta, intanto, e la serva — una sciatta e volgare donna — ci aveva chiamate in tavola. Non so che cosa ella ci ammannisse: so ch’io non mangiai, tanto erano quei cibi grossolani e ripugnanti. Mia madre aveva osservato il mio visino pallido, le mie membra grame ed era rimasta colpita al vedermi così meschina, quasi la fame mi avesse impedito di crescer forte e rigogliosa. Con subita energia ella aveva chiamato la serva, ordinandole di prepararmi una crema, qualcosa che mi piacesse e mi dasse nutrimento — e nella sua voce era un [p. 96 modifica]tremito di affanno improvviso ed acuto. Al lume della lucerna io vidi i suoi occhi scintillare di collera e la donna, muta e dolorosa ch’io avevo sempre conosciuta, cambiarsi in padrona — quasi in ribelle.

Ma la serva si era messa a ridere grossolanamente. Uova?... Crema?... Non era già con le poche lire, che il padrone le dava per le spese di casa, che essa avrebbe potuto mantenerci a leccornie!..

Scrollò le spalle e tornò in cucina.

Allora una gran cosa accadde, che mi riempì di terrore. Mia madre si alzò, violenta, livida di collera e, senza più curarsi di me, si gettò, come una pazza, a traverso la casa. Le sue parole senza senso, le sue esclamazioni di una brutalità non mai udita, echeggiavano per le camere vuote, insieme al rumore dei suoi passi precipitati. Che cosa faceva ella?.. Non osai saperlo. Restai immobile, sulla mia sedia, sotto la lucerna, dinanzi alla tovaglia di dubbia bianchezza.

Ma, all'improvviso, il suono violento del [p. 97 modifica]campanello ci avvertì che mio padre era di ritorno. D’un salto io mi precipitai fuori della sua vista, per rintanarmi in qualche angolo: al terrore solito, che egli mi incuteva, si aggiungeva, in quella sera, il presentimento che un grande segreto, forse di vergogna, sarebbe sfuggito all’urto di quelle due volontà.

Come la voce dell’uomo si fece udire, mia madre si avanzò ancora vibrante di sdegno. Sul viso, affilato dai dolori di ogni giorno e dall’ira di quell'istante, era il pallore della morte. Gli occhi scintillavano, le narici sembravano fumanti, le mascelle contratte parevano incapaci di aprirsi per lasciar libero passo alla voce.

Ma la voce passò, e le parole, rauche d’odio e di tremore, vibrarono.

— Si ha fame, qui’.. Mia figlia ha fame!..

Mio padre tacque, in prima stupito. Poi si strinse nelle spalle.

— Mangiate.

— Con qual danaro... con qual danaro?.. — investì mia madre. [p. 98 modifica]— Con quello che do.

— Non basta!.. Non basta a sfamarci, a vestirci, a tutte le necessità nostre!...

L’uomo ebbe un cattivo ghigno.

— Avreste forse dei capricci, adesso?... Vi volete forse dare alla buona tavola ed allo chic?

Vidi mia madre fare un passo avanti. Ma ancora volle frenarsi.

— No — disse — Domandiamo soltanto il necessario... e qui il necessario non e’è.

— Ingegnatevi, care mie. Io non posso dar altro.

— Non puoi?... — ghignò a sua volta mia madre. — Ma tu guadagni molto ... hai un’alta posizione... Perchè, dunque, non puoi?

Ancora mio padre crollò le spalle.

— Ingegnatevi, ho detto. Non posso. Ho altri impegni.

Una veemenza, una furia. Mia madre, la dolorosa e muta, gridò alto, come una squilla.

— Ah! ... hai altri impegni?.. Miserabile!.. Lo so che impegni hai!.. Hai un’altra donna... hai [p. 99 modifica]un altro figlio... Per essi li hai i danari... quelli li ami... vigliacco!..

D’un colpo mio padre si abbattè su lei. La lotta fu breve. Un rumore sordo di colpi, un rantolare di parole irose, un rovinìo di sedie... ed i miei urli, acutissimi, di bimba interrorita su tutto il pandemonio.

La serva accorse. Egli si drizzò, rosso di rabbia e, fors’anco, di vergogna. La vittima singhiozzava perdutamente, piegata contro il muro, come una canna spezzata.

— Porta via quella bambina! — urlò mio padre, come vide la faccia della serva curiosare maligna per l’uscio.

La serva mi afferrò per un braccio e mi trascinò. Poi, non sapendo con qual grazia migliore quietarmi, mi allungò uno scapaccione, per insegnarmi — disse — a non nascondermi negli angoli a spiare le cose, che non mi riguardavano. [p. 100 modifica]

Da quel giorno, Edoardo mio, compresi la mia fame ed il nostro abbandono, e le lacrime di mia madre, e le volgarità della serva, e la povertà delle mie vesti e perchè le mie vecchie bambole non si rinnovassero mai.

Ma non giunsi a comprendere come mai si potesse avere un’altra moglie ed un altro figliuolo, quando già si avevano una moglie ed una figlia. La soluzione di quel problema mi rigirò, come una trottola, nel piccolo cervello per dei mesi, per degli anni. Le mie infantili conoscenze sulla società e sulla famiglia, non mi davano alcun argomento per sviscerare l’enigma, anzi lo rendevano a cento doppi più confuso. Un’altra donna!.. Ma chi aveva due mogli?.. — Io non aveva mai udito dire che esistessero uomini con due mogli... Una volta sola, in un vecchio libro pieno di incisioni, io avevo letto di un certo Gran Turco, che ne aveva a bizzeffe — delle mogli. Ma aveva anche letto che il Gran Turco stava [p. 101 modifica]lontano, in un paese di là, donde viene il sole. O allora?

Per quanto colpita dalla insolubilità del problema e dall' ansia del gravissimo mistero, che gli stava dietro e che io indovinava — anzi sapeva, ormai — fatale per noi, pure un nuovo sentimento era fiorito in me.

La tristezza della mia vita di povera bambina trascurata, l’uggia di intere giornate silenziose, l’ostinatezza di mia madre nel rinchiudersi sempre più in una disperazione senza moti e senza parole, mi pesavano sul piccolo cuore, come immani macigni. Benché anch’io solitamente silenziosa e quieta, rinchiusa nei miei giuochi di bimba, che non può e che non vuole far rumore — un gran desiderio di gioia ed una grande nostalgia di affetto e di serenità si agitavano nel mio essere precocemente sensitivo. Dei baci, dei giuochi, delle risa!... Oh, prospettiva che mi rodeva la piccola anima di tutte le torture delle cose belle e desiderate invano!

In quelle ore di sconforto, tutto il mio essere [p. 102 modifica]s’involava verso voi — verso te e tua madre — che io non conosceva e che mi figurava tanto più belli e tanto più buoni, se mio padre vi preferiva a noi, così meschine e dolorose. Come doveva essere bella tua madre! Io me la rappresentava, alla fantasia di bimba già riflessiva, una madonna, una santa tutta aureolata d’oro. E quale dolcezza di sorriso, e quale benignità di modi! .. Doveva pur essere così se, presso lei, mio padre passava quasi tutta la sua vita, lasciando, per essa, in disparte mia madre! Non era mica bella la mia povera mamma, così scialba e magra e così sempre imbronciata!

Poi io pensava a te. Ed allora il mio ardore di conoscerti, di abbracciarti, di giuocare con te, diveniva così intenso, ch’io me ne struggeva come per una febbre. Quanto dovevi esser buono!... Quanto mi sarei divertita a correre con te! Io avrei fatto il cavallo e tu mi avresti guidata con delle redini rosse ed una gran frusta schioccante. Non importa se, nella foga del giuoco, qualche frustata smarriva la sua destinazione e mi scendeva sulle spalle. [p. 103 modifica]Essa mi veniva da mio fratello — sicuro: da mio fratello — ed io, nel mio fervore amoroso, la trovava innocua, anzi dolce come una carezza.... Ah!... perchè, perchè non poteva io conoscerti, ed abbracciarti e giuocare con te ...

E, spesso, seduta in qualche angolo, sola con le mie vecchie bambole, io piangeva sommessamente di dolore e di desiderio. Un fratello! Ah! quale grazia di poesia, quale profondità di tenerezza io metteva già, fino da allora, nella dolce parola e nel fascinante concetto. E piangeva, E mia madre mi guardava, impazientita.

— Che hai? — diceva — Perchè piangi? Piangi sempre ora!

Io rispondeva, soffocando i singhiozzi:

— Nulla... non ho nulla.

— E allora perchè piangi? Non si piange senza ragione... Dio mio non ho abbastanza fastidì?

E si alzava. Ed andava in un’altra stanza. Ma io non le diceva mica la ragione del mio pianto. Bimba ignara, io capiva già che di quello non si doveva parlare — capiva già che io avrei inferto [p. 104 modifica]una nuova terribile ferita alla mia povera madre, mostrandole il desiderio che io aveva del figlio di quel'altra, per cui ella soffriva tanto.

Io aveva nove anni, quando mia madre morì. Le lunghe pene ne avevano distrutto il fragile corpo, ed allorché io lo vidi esanime, dopo le tante lacrime, tutto bianco nel letto troppo vasto compresi come anche il dolore sia una malattia, che uccide e che non ha rimedio.

Un mese dopo mio padre mi conduceva in convento.

Né, prima di trovarmivi chiusa, mi fu data la gioia di veder avverato il mio sogno: conoscere ed abbracciare mio fratello. Così portai con me, tormentosa e dolce come una speranza di futuro, la malinconia della tua visione ed il mistero di un nome, che non si doveva pronunciare. Quel mistero, che mi penetrava di tenerezza e mi sconvolgeva come una passione, è stato il primo fardello di vita, la prima responsabihtà che mi sia imposta a me stessa.

Entro la piccola bambina già si era svegliata [p. 105 modifica]una coscienza; io aveva finito di non comprendere.

Un anno più tardi mio padre si ammogliava di nuovo, rendendo regolare una situazione, che già troppo era pesata su lui e su coloro, che per essa aveano sofferto sino alla morte. Io lo seppi da una sua lettera gelida, in cui, né mia madre era ricordata sia pure con l'ipocrisia di un rimpianto, né della nuova moglie, né di te era data contezza. Ma io immaginai subito che eravate voi, che egli prendeva: l'altra moglie e l'altro figlio. E dentro me ne provai la gioia di chi spera finito il tempo delle prove crudeli ed iniziato il giorno del limpido sereno.

Ma nulla accadde. Ancora fui lasciata nel convento e così, quasi dimenticata, restai sino a diciannove anni.

Il lungo tempo di reclusione, non mi aveva dato gioia, né dolore. Allieva tiepida allo studio ed alla disciplina, io aveva assistito, con sguardo cosciente, alla mia propria trasformazione. La bimba pallida e triste, che non avea mangiato [p. 106 modifica]mai fino a sfamarsi, era diventata, al nuovo sano regime, una fanciulla allegra, e soda come una pesca duracina. I colori della salute mi tingevano le guance e le labbra, gli occhi splendevano di vivacità ed io mi sentivo esuberante — di forza e di giovinezza, — pronta a sedermi a quel non mai abbastanza proclamato banchetto della vita, di cui dietro le mura del convento vedeva biancheggiare l’abbacinante tovaglia. Un grande desiderio di vita, di amore, di gioia mi ribolliva nel sangue e rifluiva, in un torrente, per le mie parole, per i miei atti. L’orgoglio della mia femminilità, giovane e bella, mi gonfiava il cuore e dava ai miei nervi vibrazioni di una potenza meravigliosa.

Che cosa mancava ancora al mio trionfo? ... Una inezia: che l’uscio del convento si aprisse dinanzi al mio passo, come la porta di una chiesa dinanzi ad un corteo nuziale ... E l’uscio si aprì.

Subito la realtà mi afferrò e mi morse viva nelle carni. Io non sarei andata con mio padre — con voi — con te.

Una mia vecchia zia si prendeva cura della mia [p. 107 modifica]giovinezza, come le monache si eran presa quella della mia puerizia: da un estraneo io passava ad un altro — estranea io stessa, e sempre, a tutti.

Mia zia abitava un paesello della bassa Lombardia, impaludato fra le risaie, circondate di pioppi e di gelsi.

Intraveduta, in un sogno, la luce, la bellezza, lo splendore di una gran città, io mi vidi internata in quell’angolo di desolazione, come un coatto nell'isola perduta in mezzo all’Oceano. Che cosa dirti di quegli anni, Edoardo mio? Nulla te ne dirò: essi furono spaventevoli di ribellioni, di tristezze, di terrori.

E furono dieci.

Ma, a mezza via dell’esilio, un nuovo raggio di luce era sceso ad illuminare l’immutato orrore del rimanente.

Mio padre, che era morto già da due anni, era stato seguito da tua madre. Edoardo e Viviana erano ormai orfani entrambi ed entrambi soli. [p. 108 modifica]Ed allora accadde il singolare avvenimento, cotanto atteso e sospirato invano, fino dal tempo in cui, piccolo cuore oppresso, io piangeva di non poterti avere a compagno de' miei giuochi.

Spinto verso me da quello stesso sentimento, quasi veemente, che mi trascinava verso te, tu giungesti un giorno nel silenzioso paesello, tutto affondato nella melma delle sue risaie.

Oh!., lo slancio della mia gioia, la follìa della mia gioia, quando avevo ricevuto quella tua lettera! Diceva: — la ricordo ancora — «Noi siamo ormai soli Viviana, sorella mia. Nessuno è più a darci conforto d'affetto e so che a te, poveretta, tale conforto è stato sempre negato. Perchè non unire le nostre due solitudini, e crearne una nuova famiglia, di sangue e di amore? Io vengo a te, Viviana. Se tu vorrai, le nostre vite potranno ricominciare fraterne, per quanto sinora furono estranee».

Alle parole, inattese e dolcissime, credetti impazzire di gioia, tanto esse mi ripromettevano luce e felicità, dopo l'orrido esilio, in cui la mia [p. 109 modifica]giovinezza languiva miseramente. La consueta malinconia disparve: nell’attesa del giorno faustissimo, io rivissi la vita rumorosa e gaia della mia adolescenza. Era donna oramai: avevo ventiquattro anni! E pure mi sentiva tornata bambina, esuberante e chiassona come in convento.

E il giorno giunse. — E l’esuberanza e la gaiezza della collegiale ricaddero, di un tratto. Tu eri il primo uomo, che entrava nella mia vita: nessun uomo giovane — e neppur, quasi, vecchio i — io aveva veduto varcare la soglia della mia prigione. E quando ti vidi, biondo come una spiga, sottile come un giunco, con i grandi occhi sognanti e l'alta fronte del pensatore, io restai schiacciata di stupore e di commozione. Tu ti avanzasti verso me, a braccia tese, sorridendo, sotto i piccoli baffi di seta ... ma io non osai muovermi. Restai inchiodata in mezzo al salotto, in apparenza immobile come una statua, ma, nell’intimo, tremante come una fronda.

Tu mi parevi così bello! Già, sin d’allora, il fascino della bellezza mi turbava; quel fascino, [p. 110 modifica]a cui, poi, nella vita, ho soggiaciuto tante volte! Tu mi parevi — ed eri in verità — così bello! L^uomo più bello, che avessi mai veduto!

E quando, finalmente, fattami forza, io risposi al tuo invito e ti abbracciai, io sentii che un grande amore si levava in me — ardente come una passione e devoto come un culto.

Ah! ... La novità, la violenza, la dolcezza delle mie sensazioni, nei giorni che succedettero! La donna, che nell’inerzia era sopita in fondo all’essere mio, si destava con tutte le sue prepotenze e tutte le sue poesie. Troppo, sino a quel giorno, la mia giovinezza, che avrebbe dovuto essere vittoriosa, era stata oppressa e compressa. Essa si drizzava, ora, come se tocca dalla verga di un mago, e si drizzava altera, scuotendo la criniera leonina e flagellandosi i fianchi, che ansavano di desiderio.

Ricordi, Edoardo, quei giorni?

Benché malcontenta, la vecchia zia dovette permettermi di uscire con te: tu avevi pure dei diritti su tua sorella! [p. 111 modifica]Soli, dunque, uscivamo e, a lungo, smarriti nei prati immensi, lungo le prode dei fossi pieni d’acqua, sotto i filari dei gelsi e delle tremule, noi parlavamo di mille cose diverse, felici di sentirci uniti e soli — finalmente! — nella nostra virilità, poiché la crudeltà del fato, o delle persone, ci aveva divisi fanciulli.

E quante strane e liete scoperte! I nostri gusti, le nostre predilezioni, le nostre speranze di avvenire, i nostri rimpianti di passato, erano gli stessi; sembrava che la natura avesse divisa in mezzo un’anima sola, per dar vita a due corpi. La storia delle nostre infanzie passò anche essa, rapida, nel vortice delle parole: né la tua, povero Edoardo, era stata d’assai più lieta della mia: la violenza, l’alterigia, la brutalità di nostro padre erano pesate anco su te e sulla madre tua! Questa comunione di sofferenze aveva accresciuto ancor più il nostro profondo attaccamento; e noi ci amavamo — ricordi, Edoardo mio? — come non mai avevamo amato nulla e nessuno: con abbandono, con entusiasmo, con delizia. [p. 112 modifica]Ma l’ora giunse, in cui ci convenne destarci dal sogno. Tu dovevi tornare in città: eri appena laureato e già l’avvenire sorrideva al tuo ingegno mirabile, di tutte le sue promesse più gloriose. A lungo, nelle nostre verdi passeggiate — verdi di speranze e di prati infiniti — noi avevamo architettato il futuro e, nell’edificio, avevamo incastonato tutti gli ori e le gemme delle lusinghe più accattivanti.

Questo doveva essere: io avrei lasciato la vecchia zia, il misero paesello lombardo, e sarei venuta con te. Tu eri smarrito nella casa vuota: avevi bisogno di una donna, che ti fosse aiuto e conforto e tu volevi che quella donna fossi io — sorella ed amica.

Al progetto — che mi pareva divino — io aveva annuito non solo, ma su esso aveva fabbricato, con la rapidità di tutti i castelli fondati sull’illusione, una intera vita di avvenire dolcissimo e felice. L’esistenza comincerebbe per me alfine: io vivrei e amerei — e amerei sopra tutto!

Ma la zia nemica non l’intese così. Con tutta [p. 113 modifica]la sua ostinazione e, forse, tutto il suo livore di vecchia, che vede due belle giovinezze levarsi a volo, dinanzi alla sua impotenza di gottosa, ella si oppose al progetto. Mio padre le aveva tassativamente dato incarico di tenermi presso sé, fino al giorno del mio matrimonio. E tu non eri un marito!...

Invano pregammo, invano cercammo persuaderla con tutte le risorse della nostra eloquenza, accampando i tuoi diritti di fratello e di capo di famiglia. Ella rispondeva ostinata:

— Suo padre mi ha detto di tenerla con me fino al giorno, in cui prenderà marito.

— Ma come volete che lo trovi, cotesto marito — ribattesti alfine impaziente — se la tenete in un deserto, chiusa come una monaca!

La zia si strinse nelle spalle, come a dire: Io non ho che vedere. — Ed uscì dalla stanza per tagliar corto ad ogni discussione.

Allora io mi buttai fra le tue braccia — ricordi, Edoardo? — stringendomi a te, perdutamente. Lunghi singhiozzi mi scuotevano tutta, [p. 114 modifica]mentre le labbra balbettavano confuse parole di amore e di supplica.

La zia ci colse così: io fra le tue braccia e tu che mi baciavi i capelli per farmi tacere. Una gran fiamma ne accese il volto ossuto e senza misurare la gravità delle parole ella gridò:

— Ma sapete che siete indecenti?.. E vorreste che io vi lasciassi andare insieme? Eh via! sarebbe uno scandalo!

Noi ci sciogliemmo, pallidi — tu di ira, forse, io, certo, di vergogna. A denti stretti tu domandasti:

— Che cosa dite zia?

— Dico — borbottò quella, furente del proprio errore — che Viviana non uscirà di qui!

E tu partisti solo. Ed io ripiombai nella mia miseria. Ma le parole della zia mi restarono nell’anima, come un aculeo. Esse mi avevano rivelato, ben più e ben più addentro, che non i miei inconsci turbamenti di fanciulla, qual’era il destino, che la natura aveva imposto alla mia vita di donna... [p. 115 modifica]Gli anni passarono ancora, nella solitudine del paesello. — Ma la mia noia, la mia sconsolazione non erano più le stesse, sebbene sussistessero sempre. Avevano mutato colore, come se su esse fosse passata un’ardente vampa di sole.

E poi noi ci scrivevamo. Che lunghe lettere, di sollievo per me, e di progetti per te! — Tu progredivi nella vita e nella carriera. Il tuo molto ingegno vinceva ogni ostacolo.

Con tutta la mia tenerezza, acuta sempre e profonda, io seguiva con l’anima il tuo cammino e tutti i miei voti più fervidi erano per te.

Finalmente, mentre io non sperava più la liberazione, e le ribellioni della mia giovinezza si facevano, se non più deboli, più cupe, quasi selvaggiamente taciturne — l’uomo, che mi voleva, si levò sull’orizzonte della mia esistenza. Tu sai chi egli fosse e come le cose accaddero.

Io mi maritai due mesi dopo averlo conosciuto: il tempo di compiere le formalità indispensabili.

Ciò che la mia esistenza fu, dopo che col matrimonio ogni mistero di vita, anche l’ultimo, mi venne [p. 116 modifica]rivelato, non ti dirò, mio Edoardo. A quale scopo te lo direi?... Tanto, tu te lo immagini — l’hai forse immaginato prima d’ora — se vedi che, per ciò stesso io muoio. Ti dirò soltanto che nessuna nausea, nessuna lusinga, e nessuna delusione mi venne risparmiata: strano e complesso sviluppo di miserie e di splendori. Ma tu, che mi hai veduta impallidire ad una rivelazione, tu che mi hai sentita tremare di felicità nelle tue braccia, tu devi sapere che io non avrei potuto — fatalmente — resistere alla passione, quando l’ultima barriera che mi divideva dalla sapienza della vita e dell’amore, fosse caduta.

Ora muoio — e se qualcosa mi fruga le viscere, in questo istante ultimo, è la spina di portare un rude colpo alla tua bella e gloriosa giovinezza. Io sono vecchia oramai — finita di anima e quasi finita di membra. Tu, di me poco più giovane, sei nel trionfo del più luminoso meriggio.

Addio, mio Edoardo, ricordami qualche volta, quando la malinconia delle cose passate e [p. 117 modifica]l’amarezza dei primi sorrisi dileguati, verranno a tormentare le tue veglie di studioso. Io ti amo, o mio fratello! Così, come sei stato il primo, sei ancora il più puro e l’inalterato amore della tua

Viviana.