Le Rime di M. Cino da Pistoia e d'altri del secolo XIV/Discorso preliminare
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GIOSUE CARDUCCI
DI QUESTA RACCOLTA
E DEGLI AUTORI COMPRESIVI
DISCORSO
I
Del fine della raccolta.
Credeva Giacomo Leopardi che «de’ più antichi (italiani), fuori di Dante e del Petrarca, quantunque si trovino rime, non si trovi poesia»1. La quale opinione accolta assolutamente non raccomanderebbe certo ai lettori questo libretto, che noi mandiamo fiduciosi ad accompagnare nella Biblioteca Diamante e in certo modo a illustrare la Commedia, il Canzoniere, il Decamerone.
Ma che al Leopardi, dimesticatosi co’ Greci quasi con uomini del tempo suo e abituato a contemplare un esempio di arte, lucido eguale sereno, non apparisse nelle rime del trecento quella che sola a lui pareva poesia, è facile a intendere. Pure poesia v’è sotto quelle apparenze tal’ora un po’ rozze, tal’altra un po’ uniformi, qualche volta anche artifiziate; sotto quelle apparenze che tengono del colorito di Giotto e de’ tocchi di Donatello. E non potrebbe non esser così: perchè quella età portò Dante e il Petrarca, perchè in quella età esultò la poesia fin dall’agile pieghevole armoniosissima prosa delle leggende, delle cronache, delle novelle; e la religione e lo stato e la famiglia, e i costumi e le arti e le dottrine, fu tutto poesia; e le forme della poesia non erano anche trite dall’uso o cincischiate dalle cesoie dei trattatisti o sgualcite dalla mano impronta degli accademici di tutte le scuole. Oltre che; la ragion poetica della Commedia e del Canzoniere, i due fondamenti dell’arte nostra, non potrà intendersi intiera, chi non ricerchi anche gli esperimenti de’ contemporanei. Veramente ciò non può nè deve importare a tutti: ma tornerà gradito a chi non si creda tanto meglio civile quanto più ignorante delle lettere patrie, vedere in quali condizioni trovassero l’arte l’Alighieri e il Petrarca, sino a qual punto ne accettassero i modi e le forme attuali, come le avanzassero compiessero rinnovassero, e l’impronta che diè loro il secolo e quella ch’e’ gli lasciarono, che debbano al secolo essi, che il secolo ad essi. Nè tutti presero que’ due grandi a trattare i modi della poesia d’allora: in qualche misero rimatore, come preziosità di materia in possesso di povera gente che non la conosca o instrumento finissimo in mano di chi non possa valersene, alcuno ve n’ha, che poi coltivato a dovere fruttificò largamente. Ed è utile a considerare come la poesia sapesse far ritratto fedele dei concetti e degli affetti del tempo, qual parte avesse negli instituti della vita, come s’inframmettesse, per toglierne abito or pietoso e gentile or severo e feroce, alle lotte civili alle meditazioni della scienza ai sentimenti religiosi ed al culto: perchè allora, secondo i tempi, ella fu da vero universale. Della lingua e della dizione nè pur tocco: alla storia e all’uso delle quali, ora graziosissimi e semplici, ora efficaci e vigorosi, e dove pur sieno intinti dal dialetto nativo di qualche rozzezza, sono i rimatori del secolo XIV originali testimonii ed esempii. Ed anche ai giovani scrittori di versi (dappoichè i versi sono ancor tollerati in Italia), se non ne temessi i superbi fastidii, oserei raccomandarli; che vedessero un po’ di pigliarne uso a dir le cose loro con semplicità e schiettezza, con viril leggiadria, con quella lucidità che è delle prime doti poetiche.
Per conseguire dunque il fine proposto e rimanere nei limiti di questa Biblioteca, convenne raccogliere e scegliere: raccogliere quanto paresse rappresentare il processo della lirica italiana nel secolo XIV; quanto paresse aggiungere qualche particolarità alla storia dell’arte, qualche documento a quella del pensiero: scegliere fra il molto quel che meglio rispondesse al fine o per argomento o per concetto o per allusioni o per forma. Perchè abbiamo atteso anche alle bellezze di lingua e di stile: non sì però che, quando una cosa ci parve importante per rispetto allo scopo storico e critico, quantunque mediocre e talvolta men che mediocre nella esecuzione, non l’accogliessimo volentieri. La nostra scelta desiderammo riuscisse giovevole a chi studia la storia letteraria di quel secolo, non inutile a chi ne conosce la storia civile, piacevole a chi leggendo cura la lingua e lo stile o cerca il diletto soltanto. Che se l’intento non apparrà superbo e vuoto d’effetto, se il nostro non sarà gittato fra i libri inutili di questo genere che sovrabbondano in Italia; adopreremo forse simil fatica (e non è figura rettorica delle solite degli editori) intorno a’ minori poeti di ciascun secolo della nostra letteratura.
II
Messer Cino da Pistoia.
D’un ser Francesco notaro nacque in Pistoia nel 1270 Guittoncino; nome che un uso di famigliarità affettuosa troncò poi in Cino, come avvenne a’ due più celebri di Dino e Dante. La sua casata è negli atti pubblici pistoiesi detta de’ Sinibuldi; ma de’ Sigibuldi si fe nominare egli nel diploma di dottorato, e de’ Sigisbuldi si dice in fine del Comento su ’l Codice, per gloria d’aver l’origine da un Sigisbuldo console di Pistoia nel secolo XII. E consoli erano stati, fra gli antichi suoi, Guittoncino avo e un Guidone; e capitano del popolo bolognese nel 1248 il zio Tegrimo: fu vescovo in Pistoia nel 1303 e indi a poco in Foligno l’altro zio Bartolommeo. Studiò grammatica, cioè lettere, in patria sotto un Francesco da Colle; e forse anche, in tenerissima età, i principii del Diritto sotto Dino di Mugello condottovi dal Comune a insegnar legge per cinque anni nel 1279. Cino nel Comento spesso e volentieri chiama suo maestro il Mugellano: certo lo udì in Bologna, ove Dino passò a professare nel 1284. E in Bologna era il nostro anche nel 1300, già partitone Dino; e vi udì pure Bernardino Ramponi e Francesco d’Accursio; e vi ebbe circa il 1304 col grado di baccelliere licenza alla giudicatura. Di fatti era assessore delle cause civili in Pistoia nel 1307; quando i Neri di Firenze e di Lucca, avuta dopo lungo e crudelissimo assedio la città, le imposero condizioni iniquissime; questa fra l’altre, che de’ rientrati Neri, i quali fosser debitori d’alcuno de’ Bianchi, niuno potesse esser costretto al pagamento se non dopo tre anni dal dì del ritorno. Dovea essere, fra tanta prepotenza di vittoria e infuriare d’odii e cupidigie parziali, un tristo seder giudice di cause civili: e Cino, che per di più era di parte bianca, come Dante, il Cavalcanti, il cronista Giachetto Malespini, il padre del Petrarca e la maggior parte degli scrittori e giureconsulti toscani d’allora, partì di Pistoia; o il facesse di sua volontà, o bandito dalla fazione vittoriosa; chè ragioni per l'una e l’altra credenza possono cavarsi dalle rime, e la storia tace. «Ed avvenne, — leggesi in un codice vaticano che contiene rime di antichi poeti e fu del Bembo,2 — che fuggendo, giunto al passo di un fiume pericoloso, messer Cino fu conosciuto da un villano, il quale non lo volle passar all’altra riva, se prima non gli dava un consiglio.» Tradizione postuma, ma che mostra quanta fosse la opinion popolare della sapienza di Cino. Riparò da prima su l’Appennino, a Piteccio; ove Filippo Vergiolesi, de’ grandi della città e capo de’ Bianchi, raccolte le reliquie della sua parte, durò ben tre anni contro Fiorentini e Lucchesi e i Neri di Pistoia, tenendo a sua legge tutta la montagna fino alla Sambuca su ’l confine lombardo. Nè dell’ospitare il poeta avea Filippo a temere pel buon nome della figliuola sua madonna Selvaggia, amata in rima secondo la cavalleria poetica del tempo da messer Cino. Era questi omai su la quarantina; e avea già avuto dalla Margherita degli Ughi sua legittima moglie un maschio e quattro femmine. Così la Beatrice Portinari andò moglie a un de’ Bardi, senza che ne pure un dubbio nascesse all’onor di lei dall’amore di Dante, senza che l’autore della Vita nuova mostri pur di dolersene; il quale e, lei morta, si lasciò persuadere a un buon matrimonio; e seguitò a celebrarla, anzi l’indiò, anche avuti sette figliuoli dalla Donati: nè il Petrarca rimise della sua adorazione per madonna Laura, pur ingenerando non legittimamente da altre donne non so se più belle certo meno altere della moglie del barone Ugo de Sade. Errò quindi Cino per varie città di Lombardia, e fu, come Dante, alla corte dei signori di Lunigiana, e scrisse qualche verso d’amore per una marchesa Malaspina. E, come Dante e forse nello stesso tempo (1309), andò in cerca di scienza a Parigi, visitata fin d’allora e talvolta eletta a dimora gloriosa dai migliori Italiani; dei quali già dal secolo XII andava ornando il suo studio, rassomigliato dal Petrarca a «un paniere in cui si portano le più belle e rare frutta d’ogni parte»3. Ma intanto nel settembre 1310 Arrigo VII imperatore calava in Italia: e si rilevavano le speranze degli esuli. Accorrea l’Alighieri di Francia, e rivedeva i confini della dolce Toscana: il padre del Petrarca raccoglievasi in Pisa colla famigliuola, nel desiderio della patria vicina. E messer Cino chiamato assessore da Lodovico di Savoia, già mandato da Arrigo con 500 cavalli a preparar Roma per l’incoronazione e costituito senatore da Clemente V, dalla Lombardia veniva, passando l’Appennino, in Toscana per a Roma. In questo passaggio trovò morta madonna Selvaggia, e ne visitò con voce di dolore4 il sepolcro, forse alla Sambuca dove il Vergiolesi, abbandonato Piteccio, erasi ritratto. Ma l’imperatore, già sgomento delle resistenze d’ogni parte oppostegli, moriva il 24 agosto del 1313 in Bonconvento. E i Fiorentini, che l’avean fatto partire a vuoto d’intorno le loro mura e levatogli nemici per tutta Italia, presero l’uso, durato fino al secolo XVI, di saldare i conti inesigibili nelle ragioni fallite e le spese delle private scritture con una partita di debito a carico d’Arrigo di Lamagna. Con la morte di lui cadeva ogni speranza non solo degli esuli e dei Bianchi ma di tutti i buoni non partigiani: e il padre del Petrarca navigava per disperato in Provenza menandosi seco il figliuoletto, che sol per pochi giorni dovea poi riveder la Toscana, ma ne avea già imbevuta la cara lingua: e il Compagni interrompeva la storia stupenda, mancandogli il cuore, dopo minacciata e aspettata la giustizia imperiale su i cittadini pieni di scandoli5 a narrare tanta tristezza di disinganni. Solo l’indomito Alighieri seguitava doloroso ma non scorato l’alta iliade de’ suoi patimenti e degli sdegni: poneva nel sublime empireo, ben più su degli scherni mercanteschi de’ repubblicani di Firenze, un seggio di gloria al’alto Arrigo che venne a drizzare Italia in prima che ella fosse disposta6. Cino anch’egli ne lamentò, come poeta e cittadino, la morte; come giureconsulto sostenne, disputando fieramente in Siena, e udivalo Bartolo allora suo scolare poi suo avversario in questa parte, contro una decretale di Clemente V la validità dell’editto imperiale che spossessava Roberto di Napoli; e sosteneva nel Comento la indipendenza della universal giurisdizione dell’imperatore dalla consecrazion pontificia. Devozione, veneranda sempre, dei grandi intelletti e dei grandi cuori a un’idea irreparabilmente caduta. Ma quindi innanzi messer Cino non parteggiò più, e poco poetò. Finì l’11 luglio 1314 il Comento su ’l Codice, cominciato nel 12: meraviglia di celerità e di compiuta dottrina a quei tempi. «E questa fu quella lettura, séguita il citato codice vaticano, che affinò lo ingegno di Bartolo. Di qui ne nacque tanta luce, come dice lo stesso Bartolo al titolo Si fuerit controversia inter dominum et vassallum, che aperse la via agli studiosi della ragion civile, perchè, morto Cino, non fu uomo che più di lui desse luce alla civil giurisprudenza.» Ottenuta la laurea dottorale in Bologna a’ 9 decembre dello stesso anno, insegnava dal 1318 al 20 in Trevigi, dal 21 al 23 in Siena con lo stipendio di 200 fiorini d’oro, era nel 26 professore a Perugia ov’ebbe scolare Bartolo da Sassoferrato e nel 34 in Firenze. Nell’esercizio dell’insegnaniento e ad uso degli scolari dovè esser composta la Lettura sopra il Digesto vecchio. Ma per onori e per utili non dimenticò la sua città; dove a questi anni tornò, ed esercitovvi diritti e officii civili. Nel settembre del 19, rimpatriato forse all’occasione delle vacanze universitarie, era con altri sette cittadini deputato dal comune di Pistoia a prender possesso del castello di Torri venduto dai conti del Mangone. Estratto gonfaloniere nel 34, non risiedè, obbligandolo l’ufficio dell’insegnamento a stare in Firenze. Ma era in Pistoia nel 36; e ai 23 di decembre fe testamento a pro del nipote (Mino figliuol suo, favoreggiatore della signoria ghibellina di Castruccio nel 1326, eragli premorto). E su gli ultimi di quell’anno o ne’ primi del seguente passò di questa vita: conservandosi negli archivi di Pistoia uno inventario ch’io Schiatta oe fatto de beni che m. cino lasciò a franciescho di mino suo nepote sotto i 28 di gennaio 1337; e sotto gli 11 febbraio dello stesso anno una allogagione... fatta da Messer Giovanni Charlini e da Schiatta al Maestro Cellino chellavora in san Giovanni ritondo d’uno allavello di marmo senese, e a Siena si de lavorare, per la sepoltura di m. Cino, bello e magnifico,... cholle fighure che siemo in concordia. E de avere Cellino soprascritto, per fattura di questo allavello, in tutto essendo compiuto a tutte sue spesse e posto alto neluogho chedè ordinato, fiorini novanta doro. Fu sepolto, com’ei volle, nella cattedrale di Pistoia, sotto un altare eretto dal vescovo Sinibuldi suo zio: ritrovate nel 1624, scavandosi per far altro altare nel medesimo luogo, le ossa, furono ad cenothaphium suum recollecta, come si legge nella iscrizione poco sopra dal pavimento. Il cenotafio collocatogli nella cattedrale ha un bassorilievo che lo figura leggente in cattedra nel costume del tempo fra due ale di scolari: in uno de’ quali s’imaginò veder Bartolo, in altro, contro le testimonianze della storia, il Petrarca: presso gli scolari appoggiata e quasi nascosta gentilmente dietro una colonna si vede una figura di donna, nella quale il Ciampi inchina a riconoscere madonna Selvaggia. Si potrebbe credere la poesia che con furtiva modestia si affaccia fra gli studii del Codice al giureconsulto. E v’è, per la eleganza dello stile e per la forma delle lettere e per la menzione di Bartolo come già famoso, meno antica indubitabilmente del cenotafio, questa iscrizione:
CINO EXIMIO IURIS INTERPRETI
BARTOLIQVE PRÆCEPTORI DIGNISSIMO
POP. PIST. CIVI SVO B. M. FECIT
Questo, grazie alle pazienti ricerche di Sebastiano Ciampi7, è, senza le favole e gli anacronismi antichi, quanto sappiamo della vita di messer Cino. Della quale fu la poesia il minor pregio, benchè il più duraturo e celebre ai posteri.
Fu, come il maggior numero de’ poeti d’amore del secolo XIII, giureconsulto. Perchè l’ingegno pratico degl’Italiani non patì mai, e tanto meno nella prima civiltà, il poeta mero, come l’aoidos dei Greci, il trovatore de’ Provenzali, il trovèro dei Francesi del settentrione. Necessarissima parte della vita pubblica per le contese di diritto fra papi e imperatori, fra imperatori e comuni, e de’ comuni fra loro, era la giurisprudenza dagl’Italiani antichi onorata, più forse che i titoli di nobiltà, quanto il pregio della spada e della ringhiera. Gentiluomini la esercitavano: e fra i prigionieri pisani della Meloria che languirono nelle prigioni di Genova ricusando il riscatto, undicimila Regoli d’una sola città, contavansi diciassette dottori. Cominciò presto messer Cino a rimare, se la risposta al primo sonetto di Dante è dell’anno stesso che fa quello composto (1283). E già Pistoia, come ogni città italiana, avea tradizioni ed esempii di lettere da Meo Abbracciavacca seguace della maniera di Guittone e suo amico, da Lemmo Orlandi della scuola di passaggio che fiorì in Toscana dal 1250 all’80, dal franco volgarizzatore d’Albertano dinanzi il 1278. E ci viveva il futuro scrittore delle Storie pistoiesi, fedel ritratto del parlare e del costume di quella bella e forte cittadinanza, superiore d’ ardenza e vivezza al Villani, a pena inferiore in alcuni luoghi al mirabile Dino. E scrivea versi d’arcana tristezza, più limpidi e culti che non molti della seconda metà del trecento, il ladro alla sagrestia dei belli arredi; terribile figura, o che s’accampi nelle storie pistoiesi colla balestra e col fuoco intorno alle case de’ suoi nemici, o che squadri a Dio ambedue le fiche nell’Inferno dell’avversario suo bianco. Della fierezza di quei tempi, di quelle parti, di quella gente selvaggia8 tiene talvolta anche il nostro amoroso messer Cino9, nè solo nelle espressioni figurate come il Cavalcanti e l’Alighieri, ma pur ne’ concetti. Udite: «Tutto ciò ch’altrui piace, a me disgrada; Ed emmi a noia e spiace tutto ’l mondo. — Or dunque che ti piace? — Io ti rispondo — Quando l’un l’altro spessamente agghiada: E’ piacemi veder colpi di spada Altrui nel volto, e navi andar al fondo... E far mi pareria di pianto, corte, Ed ammazzar tutti quei ch’io ammazzo Con l’arme del pensier u’ trovo morte». Non è questo lo squillo della sirventa guerriera di Bertrans de Born che s’inebria al fiuto della battaglia: «Ie us dic que tan no m’a sabor Manjars ni beure ni dormir, Cum a quant aug cridar — A lor! — D’ambas las partz, et aug agnir Cavals voitz per l’ombratge, Et aug cridar — Aidatz, aidatz! — Et vei cazer per les fossatz Paucs e grans per l’erbatge, E vei los mortz que pel costatz An los tronsons outre passatz»10: sì è fremito di quelli uomini di sangue e di corrucci, delle cui vendette son piene le prime pagine delle Storie pistolesi. Ma Cino dimorò pur molto in Bologna, e secondo il galateo d’allora ebbe commercio di sonetti con messer Onesto ultimo della scuola bolognese; la quale cominciata col Guinicelli senza prevalenze sicule o provenzali, fu prima scuola poetica della libera Italia di mezzo e preparamento alla poesia toscana. Se non che fiorita in una città di legali amò forse troppo la dissertazione, riuscì un pò loquace, venne tacciata d’oscurità. Onde già Bonagiunta lucchese scriveva al Guinicelli: «E voi passate ogni uom di sottiglianza: E non si trova alcun che bene ispogna, Tant’è iscura vostra parlatura. Ed è tenuta gran dissimiglianza. Ancor che il senno vegna da Bologna, Traier canzon per forza di scrittura11». E qualche cosa di quella oscura loquacità s’apprese allo stile di messer Cino. Il quale tuttavia, per i tempi e pel modo in che più generalmente poetò, appartiene alla bella e pura scuola toscana che seguì, con notevole coincidenza storica, il gran movimento popolare del 1282: ed egli è quasi anello fra la bolognese ed essa, come amico di messer Onesto e dell’Alighieri e scrivente rime ad ambidue e ricambiatone. Poi la bella scuola, che fu di parte bianca, dispersa in diversi esigli dalla rivoluzione del 1301 e dalla guerra civile conseguitane, si trasformò di municipale in italiana. Della quale trasformazione, onde è massimo documento la Commedia, sottilmente ricercando potremmo rinvenir traccie anche nelle rime più mature del nostro. Ed egli, lodatore di Dante e lodatone, poi lamentato in morte dal Petrarca e imitato, egli autore d’una canzone argutamente affettuosa su gli effetti provenienti dagli sguardi della sua donna, segna pure il passaggio dall’ontologismo, per così dire, sublimemente lirico del Cavalcanti e dell’Alighieri al psicologismo squisitamente elegiaco del Petrarca. Ciò non ostante, messer Cino come poeta vuolsi dirittamente allogare fra il Cavalcanti e l’Alighieri, benchè un poco più sotto. Avverto qui che mettendo l’Alighieri a confronto con i poeti coetanei, intendo sempre dell’autor delle rime. Non se la disse col Cavalcanti, uno de’ migliori loici che avesse il mondo, come parve al Boccaccio, ed ottimo filosofo naturale12, se non che, secondo G. Villani13, era troppo tenero e stizzoso; col Cavalcanti che osava scrivere a Dante «Or non m’ardisco per la vil tua vita Far dimostranza che ’l tuo dir mi piaccia14». E il Cavalcanti rimproverava il pistoiese d’aver tolto concetti e motti dalle sue rime (se dobbiam credere a un sonetto di Cino per autorità di molti codici indirizzato a Guido Cavalcanti). Di che Cino gli rispondeva «Ma funne mai de’ vostri alcun leggiadro?15» Il che e si spiega ricordando la fama più presto di filosofo che di poeta ottenuta da Guido presso i contemporanei, e spiega il dantesco «Colui (Virgilio)... mi mena, Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».16 La superbia nobilesca di Guido, e la facoltà sua di scrittore nella quale l’imaginativa non di rado affoga l’affetto, e la poesia troppo servile talvolta alla dottrina, non accordavansi con l’anima di Cino tutta sentimento. Meglio s’intese con Dante, natura più contemperata di sdegno e d’amore, d’imaginativa e d’affetto, ingegno egualmente informato di dottrina e di arte: e dalla giovanile consolatoria per la morte di Beatrice al lamento senile su la morte di esso il poeta, lo seguì, a così dire, per tutti i passi del dolore e dell’esigilo. Nè Dante sdegnava rivolgersegli egli primo: «Poi ch’io non trovo chi meco ragioni Del signor cui serviamo e voi ed io, Convienmi sodisfare il gran desio Ch’io ho di dire i pensamenti buoni... Ahi, messer Cino, com’è il tempo vòlto A danno nostro e delli nostri diri...!» Al che Cino rispondeva chiamandolo affettuosamente «Diletto fratel mio di pene involto»17. A una domanda di Cino, se l’anima possa trapassare di passione in passione, rispondeva: exulanti pistoriensi florentinus exul immeritus, con molta dimostrazione di stima e d’amore, inviandogli perpetuæ caritatis ardorem, e con autorità filosofiche e poetiche affermando che sì18. Ma ricevuto in un giorno di malumore un sonetto col quale l’esule pistoiese lo domandava di consiglio sur un nuovo amore a cui sentivasi inclinato, gli riscriveva un po’ superbamente: «Io mi credea del tutto esser partito Da queste vostre rime, messer Cino; Chè si conviene omai altro cammino Alla mia nave, già lunge dal lito»; riprendendolo che pigliar si lasciasse ad ogni uncino, e ammonendolo: «Chi s’innamora, siccome voi fate, Et ad ogni piacer si lega e scioglie, Mostra che Amor leggiermente il saetti»19. L’amante della Portinari e padre di sette figliuoli dalla Donati era trascorso un po’ facilmente a dimenticare i suoi vaneggiamenti per l’ignota femmina di Casentino e per la bella giovinetta lucchese. Come poeta, lo cita spesso nel Volgare Eloquio a paro con sè e sè dinota non con altro nome che d’amico suo, e si duole di dovere per un certo ordine di successione posporre ai nomi del Cavalcanti di Lapo e d’un altro fiorentino quello del pistoiese20. Cino poi, dopo la morte di Dante, significò essergli dispiaciuto che egli «ragionando con Sordello E con molti altri della dotta scrima» non facesse motto ad Onesto di Boncima», e che «nel bel loco divino Là dove vide la sua Beatrice» non riconoscesse l’unica fenice Che con Sion congiunse l’Apennino21: pretensione un po’ indiscreta, a cui però son gentili cagioni, ed onorevoli per l’animo di Cino, l’amicizia e l’amore. Nè meno è onorevole all’intelletto di lui, che in una età in cui fu più fatta ragione al valore filosofico e teologico di Dante che non al poetico, egli definisca la Commedia «il libello Che mostra Dante signor d’ogni rima»22. Certo non sono opera del nostro, per la discordanza e de’ pensieri e dello stile, ma sì bene sfogo della rabbia impotente di qualche guelfo, due sonettacci contro Dante, attribuiti a Cino da Faustino Tasso, suo secondo e poco autorevole editore.
Credo che da questi raffronti si posa ricavare più adeguata notizia della poesia di messer Cino che non farebbesi da’ soliti giudizi assoluti che certi critici van ricopiandosi gli uni dagli altri. Ma per chi volesse giudizi, eccone; e tali, che non saprebbesi desiderare di meglio. Di Dante Alighieri: il quale scrisse che l’eloquio volgare, per opera di Cino da Pistoia e dell’amico suo, fu «di tanti rozzi vocaboli italiani, di tante perplesse costruzioni, di tante difettive pronunzie, di tanti contadineschi accenti, così egregio, così districato, così perfetto e così civile ridotto»23. Di Lorenzo de’ Medici: «Assai bene alla sua nominanza risponde Cino da Pistoia, tutto delicato e veramente amoroso: il quale primo, al mio parere, cominciò l’antico rozzore in tutto a schifare: dal quale nè il divino Dante, per altro mirabilissimo, s’è potuto da ogni parte schermire»24. Di Ugo Foscolo: «Cino, poeta vezzoso, e ch’io paragonerei a Catullo dove questi non è freddo nè laido. E come Virgilio tolse i versi a quel di Verona, così il Petrarca ne ha pigliati parecchi a quel di Pistoia... Io vorrei pure che si leggessero con religione ma non s’imitassero con superstizione que’ patriarchi dell’idioma».25
Una cosa vogliamo avvertire, a discarico nostro, prima di lasciare ogni discorso di messer Cino. È da lungo tempo annunziata una edizione delle rime di lui a cura di Enrico Bindi. E certo l’erudito ed elegante letterato pistoiese è uom da fornirla come si deve. Egli potrà alla fine sceverare del tutto le rime genuine del suo concittadino da quelle di Francesco Cei, che per testimonianza del Crescimbeni vengono spesso attribuite a Cino nelle raccolte; da quelle d’un altro Cino di Castiglion Aretino vissuto circa il 1350, e d’un altro da Borgo San Sepolcro fiorito intorno al 1410: egli potrà restituire di su i codici la lezione legittima, la quale io sospetto spesso male interpretata, qualche volta anche raffazzonata dai pubblicatori del cinquecento: che nè questa nè l’altra cosa seppe fare con quella critica, che solea portare nelle opere sue, il dotto Ciampi. Io, lontano dal voler prender del campo innanzi al signor Bindi, mi contentai a fare una scelta, con quella miglior critica ch’era da me, delle rime stampate; ad emendarne possibilmente la lezione con le varianti offertemi pur dalle stampe. E anch’io aspetto con desiderio il canzoniere di Cino curato dall’editore del Davanzati.
III
Appartenenti pel carattere e la la forma dei loro versi agli gnomici, che sono i poeti del secondo periodo di una civiltà, proseguono questi rimatori le tradizioni e lo stile della poesia che precede la scuola toscana del 1282.
Come Dante di sua mano egregiamente disegnava26, e disegnava, ricordandosi di Beatrice, un angelo sopra certe tavolette27; così Giotto coetaneo (1276-1336) ed amico suo non volgarmente rimava: bella fratellanza, oggi troppo rara, delle arti sorelle. La canzone che sola nota di lui riproducemmo è contro la povertà, pur figurata con tanta amabil vivezza dal pittore nella chiesa sotterranea del Santo d’Assisi in una donna «la quale va coi piedi scalzi calpestando le spine, ha un cane che le abbaia dietro e intorno un putto che le tira sassi e un altro che le va accostando con un bastone certe spine alle gambe».28 Ma la invettiva del poeta è reazione del genio borghese contro quella specie di socialismo cristiano predicato e messo in atto da san Francesco nel duecento, nel trecento dal beato Colombini.
Del Salimbeni e del Bonichi, come d’altri vecchi rimatori senesi, scrive senesemente Scipione Bargagli: «Non usarono gli scelti ornamenti poetici nelle rime loro, ma si furon tali che la toscana lengua bene intesono e parlaronla bene: nè loro mancò stile per disegnare, se forse non hebbono vaghezza per dipegnere»29. A noi par notabile in tutti quasi i rimatori di quella città, che diè il primo esempio della canzone italiana con Folcacchiero, dall’Angiolieri a Saviozzo, un’aspra originalità di concetti e di forme, in opposizione alla pura gentilezza de’ suoi pittori. — Benuccio Salimbeni, cavaliere potente, spese tutta la vita in offendere i suoi nemici, i fiorentini conti del Vernio ch’eran pur suoi cognati, e i Tolomei di Siena; finchè da alcuni di questi ultimi fu ucciso nella contrada di Torranieri il 22 ottobre del 1330; secondo ci lasciò scritto il cronista senese contemporaneo Andrea Dei30. Pur ebbe tempo a compor rime; nelle quali, a detto del Crescimbeni che ne vide parecchie, «ebbe stile facile e piano e buoni sentimenti, e nella lingua non poco fu colto»31. Altra cronaca senese ci mostra vivente nel 37 e 38 un Benuccio Salimbeni camarlengo delle casate Salimbeni, fra i sedici capifamiglia delle quali aveva a distribuire circa a 100 mila fiorini d’oro. Non è chiaro qual de’ due, perchè di due diverse persone par che si tratti, fosse il poeta. Ma è curioso a sapere che cotesto camarlengo comprò nel 38 dal grande mercatante di Soria, venuto al porto d’Ercole, per 50 mila fiorini di tessuti in seta trapunti a oro, per 25 mila di sciamiti, 15 mila di borse da spose di varie dimensioni, 15 mila di frontelle e cordoni e seta da cucire, 10 mila di bande da terzi e bande da conti e fioretti da spose, ecc. E tutte le dette mercanzie furono da’ sensali della casa Salimbeni vendute in grosso e a minuto in termine d’un anno; e nel solo mese di gennaio ben 80 borse per 80 spose novelle di casate de’ nobili di Siena32. Tempi singolari; in cui da palagio a palagio era guerra, e pur una famiglia potea versare sì gran contante a un tratto; e tanti matrimonii facevansi in città non grande in un mese; e i gentiluomini erano feudatarii e cittadini, mercatanti e poeti! — Di Bindo Bonichi, a detto d’un poeta posteriore, eccellente e sommo33, sappiamo che era di nobil famiglia, che sostenne la carica del supremo reggimento, e morto ai 3 gennaio del 1337 fu sepolto in San Domenico di Siena. Nel dotto secentista Ubaldini parlava un po’ lo zelo di primo editore, quando, detto che le rime del Bonichi non mancano della sua leggiadria e sono di spirito nobile e poetico, gli giovava poi di credere che, se avesse uguale alla proprietà la scelta delle parole, potrebbe sicuramente star vicino al Petrarca34. Il Crescimbeni avvisavasi all’incontro ch’egli fosse assai miglior moralista che poeta; e gli dispiaceva che nelle sue rime, lavorate con pochissima cultura, si valesse anche delle voci più abiette e vili della nostra lingua. Chi sa che cosa mai pensava e diceva delle due terzine del 28° dell’Inferno l’odoroso abbate, autore dell’anacreontica su la rosa! Meglio però che dalle monotone stanze delle canzoni, le quali sentono del Barberino e della decadenza provenzale e dovrebbono forse ridursi a cobbole, dai sonetti del Bonichi sprizza una vena di poesia: poesia satirica annunziante il Berni, non anche ridotta a genere, ma già vivissima ne’ dugentisti.
Roberto di Napoli: il re da sermone di Dante35; a quel modo che, senza nulla fare per parte guelfa e solo tenendo accesa del continuo la guerra in Italia salvandone il regno suo, ottenne in vita la supremazia de’ Guelfi e nome di savissimo reggitore; e fama di filosofo e oratore acquistò con qualche predicozzo simile a quello mandato a’ Fiorentini per l’alluvione del 133336, e di munificentissimo protettor delle lettere con far comperare per cinque once d’oro gli scritti del Barberino37 e trasmutare uno straccio di porpora invecchiata dalle sue spalle a quelle di Francesco Petrarca laureando; così dopo morte giunse a scroccarsi anche il nome di poeta, egli che la poesia reputava arte frivola e poco stimava i poeti e teneva Virgilio per uom da favole38, perchè furon trovate fra le sue carte certe rime d’un povero notaio bolognese. Bonagrazia, detto poi Graziuolo, figlio di Bambagliolo (Bambagliolo e Bambaglioli, non bambagiuoli, han sempre i documenti bolognesi), ebbe titolo di notaio nel 1311, era degli Anziani nel 24 e cancelliere del Comune nel 25; ma nel 34, un mese dopo la cacciata di Bertrando del Poggetto il quale di legato pontificio con promettere a Bologna che diverrebbe sede al pontefice reduce in Italia se n’era fatto signore, venne con tutti di sua famiglia dai dieci ai sessanta anni, come guelfo, bandito. E di tanta riputazione era tra i Guelfi, che un fra Guido Vernano da Rimini dell’Ordine de’ predicatori dedicava a lui un trattato contro la Monarchia di Dante, che conservasi nella Classense di Ravenna. Nè oltre il 34 se ne ha più notizia: dovea esser morto nel 43, in cui Giovanni suo figlio fa istanze per un curatore39. Nell’esiglio compose il Trattato delle Virtù morali in cento cobbole a imitazione dei Documenti d’amore del Barberino, l’ornò di commenti latini (nella Riccardiana di Firenze se ne ha un volgarizzamento contemporaneo), e con lettera pur latina lo indirizzò al provenzale Bertrando del Balzo conte di Monte Scaggioso, cognato a Roberto di Napoli, e allora capitano de’ Fiorentini. Nella lettura si qualifica, come il ghibellino Dante, exul immerite; e dice: «Quia nemo igitur me conduxit ut sub sancta operatione aut reipublicæ bono onere vel officio, sicut in Domino vere desidero, mea posset humilitas fatigari; ne sub otiosa perditione temporis inimica virtutis ulterius residerem, hujus relegationis impietate durante quam illa fallax, æmulationis calamitas odiosa paravit, qua mors introivit in orbem terrarum; idcirco de naturalis moralitatis radice vulgares aliquas et novellas eduxi propagines, theologorum, doctorum, philosophorum et venerabilium auctorum sententiis approbatas.» È probabile l’ipotesi del Crescimbeni, che il trattato dalle mani del capitano incurioso passasse a quelle del re da sermone, fra le cui carte trovato dopo la morte fosse tolto per opera sua. Ma così pur fosse facile rivendicare tutte le regie usurpazioni, come di questa fu: che poco dopo la pubblicazione dell’F. Ubaldini il quale attribuivalo a Roberto40, fu data notizia al Crescimbeni d’un codice dell’erudito fiorentino Bargiacchi dove il trattato era e diverso e più esteso che lo stampato e col nome del notaro bolognese. Ora la cosa è chiarissima: pur molti seguirono e seguono a riprodurlo e citarlo sotto nome di Roberto: tanto è vero che gli animi umani sono proni all’ossequio della fortuna e della forza, anche se di quelle non resti che l’ombra.
Non è qui il luogo a parlare di fra Domenico Cavalca pisano (m. 1342). uno dei padri della nostra prosa; nella quale riuscì miglior poeta che nelle Laude, nelle Serventesi, nei Sonetti con cui seguita la maniera di Fra Iacopone, e gli sottostà per impeto d’affetto e per calor di invenzioni.
IV
Ecco insieme due contemporanei di Dante che ne piansero in versi la morte, e un amico e un figlio di lui che ne illustrarono in versi la maggiore opera.
Fiorentino il primo e figlio, secondo l’Allacci41 e i manoscritti strozziani, d’un Maffeo, o d’un Lamberto, secondo le notizie di casa Tedaldi citate dal Crescimbeni; fu, com’ei dice, castellano in una buca: nella quale, a sentir lui, stava a suo grande disagio: «Però che ci sono assedïato Da forti venti e dalla carestia, E ogni cosa m’è porto e collato. Di quel che ho vaga più la vita mia. Cioè di veder donne, son privato In chiesa alli balconi o nella via.» E le donne gli piacevano, tanto che ebbe due mogli: della seconda motteggiava bruttamente: «Qualunque mi arrecassi la novella Vera o di veduta o vuoi di udita, Che la mia sposa si fossi partita Di questa vita o persa la favella; Io gli darei guarnacca o vuoi gonnella, Cintura e borsa con danar fornita; E sempre mai ch’e’ dimorasse in vita Lui servirei con chiara voglia snella.» Di lui hannosi poesie ne’ codd. vaticani segnate del 1311: del 16 settembre 1321 è segnato il sonetto in morte di Dante in quelli e nel riccardiano e nei casanatensi: in uno dei vaticani (3213) è un altro sonetto con tale iscrizione «Pieraccio Tedaldi nel 1333, antivedendo sopra il fatto del legato di Bologna e ripetendo del suo male stato» e comincia: «Gran parte di Romagna e della Marca Ha già perduto il prete di Caorsa, E l’altro rimanente c’ha in borsa Parmi veder che tosto se ne scarca: E, se non se ne avvede e i monti varca, La gente bolognese veggio scorsa A dargli maggior graffi e maggior morsa Che mai non fe leone a bestia parca.» Non ne do altro perchè il Trucchi42 resta qui; dalle cui notizie ho riprodotti questi e gli antecedenti versi, di miglior lega che i pubblicati per intiero. Agli antichi raccoglitori e storici della poesia parve gran che un sonetto nel quale Pieraccio seppe ristringere come una ricetta per fabbricare sonetti. A noi par da notare che egli, col Bonichi in parte, prevenne la poesia borghese di cui avremo a parlare più sotto.
Mucchio de’ Fantinelli da Lucca, detto in altri codici Mugnone e Magnone, meritò luogo nella nostra raccolta per l’affetto e la riverenza onde scrisse di Dante, ch’ei forse in Lucca potè conoscere. Indirizzava un brutto sonetto a un Gallacone da Pisa in occasione delle guerre che furono tra Pisani e Senesi nel 1335: e il Crescimbeni, forse per documenti da lui veduti, ne protrae l’età poetica fino a’ tempi di Mastin della Scala (1340 circa).
Tenne parte ghibellina messer Bosone de’ Raffaelli da Gubbio, nato verso il 1280, e fu co’ Ghibellini cacciato nel 1300. Rifuggito in Arezzo, vi conobbe (1304) e si fece amico l’Alighieri; che egli nel 1311 rimpatriato ospitò dopo la morte di Arrigo VII e in Gubbio e nel castello di Colmollaro. Novamente bandito nel 15, Bosone fu podestà d’Arezzo nel 16 e di Viterbo nel 17, nel 27 capitano di Pisa e vicario del Bavaro, nel 37 finalmente senatore di Roma. Morì probabilmente circa il 5043. Scrisse nel 1311 l’Avventuroso Ciciliano, che a G. F. Nott primo editore garbò di qualificare romanzo storico: dove alle dicerie tradotte da Sallustio da Cicerone e Valerio Massimo si mischiano novelle improntate dei costumi del secolo. E Armannino giudice da Bologna, esule anch’egli e veneratore di Dante, gli dedicava la Fiorita, amena compilazione delle antiche epopee scritta nel 1325. Fra le rime pubblicate sotto nome di Bosone, suoi certamente sono il capitolo sur una guerra tra Veneziani e Turchi del 1307 e il sonetto in morte di Dante e altro capitolo d’esposizione alla Divina Commedia. Ma le chiose in terza rima alla stessa, attribuitegli nel XVII delle Deliciæae eruditorum, sono, come prova il Mehus44, d’un Mino Vanni d’Arezzo. Poco spirito ebbe d’eleganza, e men di poesia. Quel Bosone da Gobbio iscritto come testimone in un compromesso fatto a Urbino in Bonifacio IX nel 1392, di cui parla l’Allacci, dovette essere un discendente del nostro: e a lui si può riferire l’enigma politico in quattordici versi alludente agli ultimi fatti del secolo XIV, pubblicato dal Trucchi.
Di Jacopo, secondogenito dell’Alighieri, s’ignora l’anno della nascita e quel della morte. Leggesi in uno spoglio della Magliabechiana citato dal Fraticelli: «Jacopo del già Dante piglia e’ due primi ordini minori da m. Tedice vescovo di Fiesole gli 8 ottobre 1326.» Ma non andò più oltre, ed ebbe in moglie una degli Alfani, discendente forse dal poeta lodato dal padre suo. Recuperati nel 1342, mediante lo sborso di 15 fiorini d’oro, dalla signoria di Firenze i beni confiscati al padre, visse in patria, propriamente nel popolo di Sant’Ambrogio, e probabilmente in una casa che era ab antico degli Alighieri45. Scrisse il Dottrinale, specie di poema didascalico, citato dalla Crusca. E il Crescimbeni vide di lui manoscritta nella Chigiana una canzone indirizzata a Giovanni XXII e a Lodovico il Bavaro quando questi fu incoronato nel 1328. Alcune rime di Jacopo vengono attribuite a Pietro, e a Jacopo all’incontro il comento alla Commedia stampato (1845) sotto nome di Pietro, che non è forse nè dell’uno nè dell’altro. Anche di Jacopo furono pubblicati nel 1848 un Comento sopra l’Inferno e altre chiose. Per argomento del buon giudizio di certi vecchi critici notiamo che il Quattromani afferma Jacopo aver superato il padre massimamente nella leggiadria e nella dolcezza46. Dio gliel perdoni!
Come oggi lo strimpellare un po’ di piano fa parte d’ogni civile educazione, così nel secolo XIII e XIV il rimare era d’ogni bennato. E come oggi starebbe male a un diplomatico non saper movere un passo almeno di valtz per aprir la danza in una veglia reale, così a un principe allora non essere sperto ad intonare su la viola canzone o ballata o a comporre un sonetto. Buffonerie gentilesche delle corti di tutti i tempi. E da quando l’imperator Barbarossa recò sul leuto provenzale quella mano che s’era alzata ad ordinare si spargesse il sale ove era Milano; da quando l’imperatore Federigo II scrisse canzoni d’amore, la cui galanteria non dovrebbe far dimenticare lo strazio bestiale da lui fatto dei cittadini di Corneto e dei prigionieri fiorentini e le sue turpi libidini; fu il compor versi cortesia cavalleresca dei signori d’Italia, massime ghibellini. Per non uscire del secolo XIV, ne compose di politici Can della Scala, di morali Bruzzi Visconti bastardo di Luchino, e di famigliarmente satirici Castruccio. E ne compose questo sciagurato Arrigo figliuolo del signore di Lucca. Pietoso contrasto fra il lamento scorato del figliuolo su la fortuna sua e l’arroganza ingiuriosa del padre che risponde per le rime a un feudatario forse suo inimico! Arrigo spodestato dall’ingrato Bavaro della signoria paterna, riuscitegli a male le prove per riassoggettarsi Pisa e Pistoia e Lucca, si ridusse a militare allo stipendio altrui. Il sonetto che di lui noto noi riportiamo, e nel quale pare si dolga che Luchino Visconti mal lo rimeritasse o non ne facesse conto, è scritto quando nel 1344 osteggiava i Pisani con le genti di Luchino tra la Valdera e la Maremma. Indi a poco morì per la corruzione nata del caldo soverchio e del disagio.47 Sedici anni avanti, Galeazzo Visconti, fratel di Luchino, spodestato pure dal Bavaro, era morto per la stessa cagione e nelle stesse condizioni, seguitando Castruccio all’assedio di Pistoia.
«Sennuccio e Franceschin che fur sì umani, Come ogni uom vide» eran annoverati dal Petrarca48 tra i famosi de’ quali Amore trionfava, nella bella compagnia di Dante, di Cino e de’ due Guidi. Oggi il mondo gli conosce per quel verso e per l’amicizia del poeta: pochi eruditi e cercatori di antichità citano, e radamente, lor rime.
Nè amico soltanto ma parente al Petrarca fu Franceschino degli Albizzi fiorentino; e lo conobbe famigliarmente in Avignone nel 1345. Visitò quindi la Francia, e vide Parigi. Tornato in Italia nel 48, disponevasi d’andare a Parma a trovare il glorioso congiunto che l’aspettava con gran desiderio; quando còlto in Savona dal contagio che già invadeva l’Italia, morì giovanissimo nell’aprile. Il Petrarca lo pianse con una epistola49, in cui l’affetto e ’l dolore da prima veri trascendono in ultimo nella declamazione.
«Sennuccio mio... ti prego che ’n la terza spera Guitton saluti e messer Cino e Dante, Franceschin nostro e tutta quella schiera»50, cantava un anno dopo per la morte di Sennuccio del Bene. Il quale fu certo gentilissimo spirito, se meritò dal Petrarca il sonetto ove sono gl’ineffabili versi «Qui tutta umìle e qui la vidi altera», ecc. Sennuccio di Benuccio di Senno del Bene, gentiluomo fiorentino di parte bianca, benchè più volte accogliesse e intrattenesse splendidamente in una sua villa Carlo di Valois, non campò dalla industre e crudel cupidigia del principe senza terra e senza vergogna: ma carcerato e multato in quattromila lire fu poi bandito nel 1302 insieme con ser Petracco e con l’Alighieri. Seguitò le fortune de’ Bianchi, ed era nell’esercito d’Arrigo VII contro Firenze. In una canzone di messer Goro d’Arezzo, poeta guelfo, vista dal Trucchi, s’induce la patria a pregare Sennuccio di non volere essere co’ barbari a straziare la madre che tanto l’ama e l’onora. E il rimprovero sotto forma di preghiera è meritato pur troppo: ma quel che dice dell’amore potea bene il Guelfo lasciarlo da parte. Inchino a credere che si accenni alla morte d’Arrigo nella canzone, da noi ammessa nella nostra scelta, Da poi ch’i’ ho perduto: e il saluto che il poeta manda a Franceschino Malaspina mostra aver anch’egli, come Dante e Cino, esperimentata la ospital cortesia di quella gente onrata che si fregia del pregio della borsa e della spada51. La canzone è scritta fuori d’Italia; forse in Provenza, dove potè recarsi subito dopo la morte di Arrigo, quando il padre del Petrarca; e dove dimorò anche dopo che il favore di Giovanni XXII e l’intercessione del cardinal Gaetano legato in Toscana gli ottennero nel 1326 dalla signoria di Firenze la remissione del bando per viam et modum oblationis: la qual condizione, da poi che non rimpatriò mai, pare, come già Dante, reputasse non dover accettare. In Avignone conobbe il Petrarca, che lo amò e gl’indirizzò tre sonetti in cui lo mette a parte de’ suoi dolori e speranze e una lettera latina scherzosa52: e forse fu de’ famigliari del cardinale Giovanni Colonna, ch’egli in un sonetto al Petrarca, dove pur gli notifica il dolor misto d’ira di madonna Laura per la lontananza del suo poeta, chiama signor nostro. Nel 1349 morì molto vecchio in quella che l’amico suo chiamava Babilonia occidentale.
E amico del Petrarca meritava di essere, per la gentilezza del suo comporre se non della vita, Matteo Frescobaldi, giustamente annoverato dal Crescimbeni «tra quelli che, sebbene alla toscana poesia non diedero l’essere, non di manco, perchè finirono di pulirla e nobilitarla, più che padri è dover che si chiamino». A Matteo nostro ben presto, nel 1313, morì il padre: Dino Frescobaldi, de’ più leggiadri coltivatori dell’ultima poesia toscana del duecento: anche la madre gli mancò, resasi a vita religiosa nel monastero di San Donato a Rifredi. Di che forse la disordinata vita di lui descrittaci dal cronista Donato Velluti: «Matteo di Dino fu di comunale statura, grande giucatore, spesse volte vestito con bellissime vesti (e talotta tagliate e non cucite si vendevano o impegnavano), alcuna volta vilmente vestito. Morì nella mortalità del 1348, d’età di 40 anni o più: non ebbe mai moglie: rimasene una bastarda.»53
Delle rime di lui e di Sennuccio la nostra è per ora la più copiosa raccolta: pochissime ne escludemmo, sole cioè le cattive o troppo scadenti.
VII
Le rime dei tre ultimi Fiorentini, di cui tenemmo parola, attestano una seconda maniera lirica del secolo XIV: la quale, non che sia ancora imitazione del Petrarca, ma ne accenna pure alla squisitezza e intimità del buon testor degli amorosi detti; ed è tuttavia più culta e aggraziata, sebbene tanto meno alta di spiriti e d’intonazione, dell’ultima lirica de’ dugentisti; segna in fine o, meglio, annunzia il terzo stadio dell’arte. Ma, almeno per l’audacia e l’irregolarità delle forme, rimangono nel forte medio evo i due che si presentano ora: fra i coetanei essi stanno, come il Saladino di Dante, soli in disparte.
Reliquia del vecchio tempo, oramai quasi sconosciuta al trecento che ha prodotto il gran motteggiatore di Certaldo, ecco la visione profetica nella serventese di frate Stoppa. Il quale, toscano e fiorentino fu certo; e de’ Bostichi, secondo il Trucchi: da’ suoi versi pare al Crescimbeni poter rilevare ch’e’ fiorisse circa il 1347. Della metà prima del secolo lo fa credere anche la lingua schiettissima, dalla quale s’aiuta d’efficacia lo stile vigoroso.
Autore d’una serventese profetica singolarissima è pure Fazio degli Uberti. Nacque, non si sa dove nè quando, nell’esiglio, a cui tutta e in perpetuo era condannata dall’odio popolano la discendenza del vincitore di Montaperti. E nacque, nipote a Farinata, da Lapo capitano e poeta e a’ suoi tempi oratore dei Pisani a Bonifazio VIII. Giovine, in Verona, amò un’Angiola: e a lei sono indirizzate le canzoni di amore. Dalle quali ricavasi ch’ei stette otto anni lontano dalla donna amata e da Verona: forse fece allora le peregrinazioni che tanta materia furono del Dittamondo. Filippo Villani il biografo lo dice: «uomo certamente giocondo e piacevole, e solo d’una cosa reprensibile: che per guadagno frequentava le corti de’ tiranni, adulava e la vita e i costumi de’ potenti; ed essendo cacciato della patria, le loro laudi fingendo con parole e con lettere cantava.»54 Con quell’accenno del piacevole e col resto poco gli manca a fare del nipote di Farinata un di quei Fiorentini piacevolissimi delle novelle del Sacchetti, i quali si riducevano nelle corti dei signori lombardi e romagnoli, davan parole e ricevevan robe e vestimenti55: brevemente, oltre adulatore, buffone. E sì che la serventese o frottola ai Signori e Comuni d’Italia, le canzoni politiche e il Dittamondo in più luoghi di ben altro che d’adulazione han sapore. Ma nulla voleasi dai superbi popolani di Firenze perdonare a un Uberti, sebbene condotto a mendicare la vita; nulla, nè pure l’infamia. E il Villani era pur ammonito come ghibellino. Anche lo dice «uomo d’ingegno liberale, il quale all’ode volgari e rimate con continuo studio attese», e «il primo che in quel modo di dire il quale i volgari chiamano frottole mirabilmente e con gran consiglio usò. Ma nella vecchiezza voltosi a miglior consiglio e imitando Dante compose un libro a’ volgari assai grato e piacevole Del sito e investigazione del mondo... Dopo molti dì della sua vecchiezza modestissimamente passati in tranquillità, morì a Verona, e quivi fu seppellito.» La sua discendenza, perocchè egli ebbe moglie, si conservò per quasi duecento anni in Venezia nell’ordine de’ gentiluomini popolari, da Leopardo suo figliuolo fino ad Antonio segretario del senato nel secolo XVI. Storici ed eruditi posteriori affermano ch’e’ fosse laureato: ma tacciono di questo le notizie del tempo. Certo non morì prima del 1360; perchè nel Dittamondo (II, 3) parla di Carlo di Lussemburgo coronato Nello mille trecento cinquantuno E cinque più; e nel 1355 o poco dopo dovette essere scritta la canzone contro l’indegno nipote d’Arrigo VII. Così la vita poetica di Fazio si contiene fra due limiti storici, che segnano pure due differenti modi del pensiero ghibellino. Imperocchè la prima sua poesia del cui tempo abbiamo notizia certa è la canzone citata dal Trucchi pel parlamento tenuto in Trento nel 1326 da Lodovico il Bavaro co’ Ghibellini d’Italia, nella quale il giovane poeta fa istanza all’imperatore: «Che venga o mandi e non indugi ’l bene: Perchè a lui si conviene Risuscitar il morto Ghibellino E vendicar Manfredi e Corradino.» Qual differenza da quella al lussemburghese, ultima di cui sappiamo il tempo certo, dove si prega a Dio: «perchè ’l santo uccello... Da questo Carlo quarto Imperator non togli e dalle mani Degli altri lurchi moderni germani Che d’aquila un allocco n’hanno fatto? Rendilo sì disfatto Ancora a’ miei latini e ai romani: Forse allor rifarà gli artigli vani.» E di fatti il ghibellinismo propriamente detto era finito con Arrigo VII se pur non con Federigo II: a farne anche spregevole il fantasma non mancava che la calata di Carlo IV. Dopo costui, il desiderio e il canto del poeta mira più alto: e in una canzone, da noi edita, crediamo, la prima volta, introduce la grande ombra di Roma a domandare che l’Italia soggiaccia a un solo re che al suo volere consenta. Magnanimo pensiero, e lo stesso che ha informato il movimento italico del 60: tanto che nelle note che l’Uberti appropriò al monarca desiderato pare prefigurarsi il re cavaliere, «La destra fiera e la faccia focosa Contro a’ nemici, e agli altri grazïosa». Magnanimo pensiero, e da più magnanimo voto seguito: «Canzon mia, cerca l’italo giardino Chiuso da’ monti e dal suo proprio mare, E PIÙ LÀ NON PASSARE.» Ahimè, era omai troppo tardi! Ad altri lasciamo l’indagare qual potesse essere il monarca desiderato dall’Uberti: forse un Visconti? Avvertiamo che nella nostra stampa la canzone che s’intitola da Roma precede per errore quella a Carlo IV, quando dovrebbe seguitarla. Dal detto fin qui si può arguire quanto sarebbe desiderabile una accurata raccolta delle poesie liriche di Fazio; le più delle quali, d’argomento storico, giacciono inedite per le biblioteche toscane e romane. Noi, delle stampate rigettando pochissime troppo o scorrette o scadenti e restituendogli le male attribuite ad altri, ne diamo un fascette che è per ora il più copioso. E speriamo che piaceranno, a coloro almeno che non cercano le cose antiche con quel senso superficiale e limitato che non sa uscire delle condizioni e forme presenti. Nerbo ed impeto lirico e sprezzata franchezza troveranno nei versi politici; dolor vero e pieno di fantasie nuove in quelli co’ quali si lamenta della sua condizione; affetto e imaginazione graziosa nei versi d’amore. Nei quali, lontano dal misticismo del duecento e dal sensualismo del quattrocento, pare aver fatto un’accorta meschianza della gaiezza provenzale con qualche solenne ricordo dei poeti latini. In questo e nell’uso notevole, benchè raro, del linguaggio mitologico e degli sdruccioli rimati prenunzia il quattrocento; come prenunzia le rappresentanze sacre di quel secolo con la prosopopea a dialogo dei sette peccati mortali. Perchè anche fra noi la lirica fu culla della drammatica.
A’ due poeti di cui abbiam discorso finora vuol essere aggiunto Riccardo degli Albizzi, non solamente pel tempo in cui fiorì che fu circa il 1360 ma anche, se non per l’originalità, certo perchè serba il sapore della lirica del duecento più ancora che il padre suo Franceschino: onde non saprebbe trovar luogo fra gli altri rimatori meglio culti e meno vivaci.
VIII
A Giovanni Boccaccio, il quale nel suo epitafio gloriavasi «studium fuit alma pöesis» e terzo poeta d’Italia era salutato dai contemporanei e dal Petrarca quando lo persuadeva a non ardere le sue rime volgari56, come volea dopo lette quelle dell’amico; a Giovanni Boccaccio ricusano i posteri il nome che più dura e più onora, ripetendo un bisticcio del Salviati; «verso che avesse verso nel verso non fece mai, o così radi, che nella moltitudine de’ lor contradii restano come affogati»57. Chi ha letto le commedie versificate del Salviati crederà che l’erudito e giudizioso cavaliere grammatico parli per esperienza fatta su’ propri suoi versi. A tanto severo consenso v’è però qualche rara e gloriosa eccezione: il Tasso allega ne’ suoi Discorsi poetici l’autorità della Teseide, e non isdegnò di postillarla a suo studio: la cita spesso il Tassoni. A parer mio anche il Boccaccio fu inventore d’un genere e autore d’una maniera. Come Dante si elesse la parte specialmente intellettiva e ideale della letteratura, e il Petrarca l’affettiva ed intima; così il Boccaccio la sensibile. E della civiltà contemporanea descrisse nel Decamerone la forma; e si volse ad ornare e dilettare la vita esterna. Scrisse, per piacere alle gentili donne e a’ cavalieri, poemi romanzeschi; nei quali, come quegli che era novellatore e a un tempo erudito, fece prova d’accordare l’antichità e Virgilio col medio evo e co’ trovatori francesi. Allo stesso intento, da poi che nei versi d’amore far meglio del Petrarca e di Dante era impossibile, dedusse dalle fonti classiche l’elegia e l’idillio nelle rime toscane. Che se poi cotesta infusione fu meglio contemperata nella corte medicea, se nelle altre corti del cinquecento l’epopea romanzesca toccò l’ultime cime; ciò non dee togliere al Boccaccio il pregio dell’invenzione e del primato nell’una cosa e nell’altra. Con questi riguardi s’hanno a leggere le rime del Boccaccio. Nelle quali; se imita qualche volta il Petrarca e sempre gli cede, e talora non a lui solo; beatissima è pur sempre la vena della favella e dell’eleganza.
IX
Marchionne Torrigiani, Federigo d’Arezzo, Coluccio Salutati, Malatesta Malatesti, Roberto conte di Battifolle, Buonaccorso da Montemagno.
Eccoci al terzo stadio della poesia ed alla imitazione. Questa bella brigata di petrarchisti del secolo XIV, puliti e corretti a preferenza d’ogni altro de’ loro coetanei, tuttavia non aggiungono nulla nè alla storia dell’arte nè a quella del pensiero. Tale è il destino di tutti gl’imitatori d’una poesia individuale.
Di Marchionne Torrigiani, probabilmente fiorentino, e di Federigo di messer Geri del Bello d’Arezzo, non altro hanno a dirci i vecchi storici della poesia se non ch’e’ mostrano essere coetanei e seguaci non indegni del Petrarca. Tanto ciò è vero, che i due loro sonetti da noi riprodotti sono in due codici Soranzo del museo Correr di Venezia attribuiti a M. Francesco.58
Non è da questo luogo la vita di Coluccio Salutati (1330-1406), amico del Boccaccio e del Petrarca, raccoglitore e correttore di classici, scrittore il meglio latino del secolo XIV, segretario pontificio e della repubblica fiorentina; a nome della quale dettava le lettere che più di mille cavalieri fiorentini facean paura a Giovan Galeazzo. Hanno le biblioteche di Firenze lettere di lui anche nella lingua materna; le quali dispiace che in tanto diluvio di pubblicazioni dei testi di lingua giacciano inedite. Egli era anche poeta, e si ricordava d’aver studiato nel canzoniere del Petrarca e nei latini, come appare da un suo sonetto; indirizzato, secondo il Crescimbeni, a una madonna Elena che era l’innamorata di Alberto degli Albizzi, il quale rimava anch’egli, come tutta la famiglia degli Albizzi, a quel che pare.
«In poesia compose molto e assai bene», dice il Crescimbeni ch’ebbe a vederne rime nei codici romani, Malatesta de’ Malatesti di Rimini, signore di Pesaro e senatore di Roma (1370-1429). — A noi piaccion più i quattro sonetti che pubblichiamo del conte di Battifolle; dei quali il primo poco conosciuto, inediti gli altri tre. È di lui a stampa un sonetto al Petrarca che incomincia: «Benchè ignorante io sia, io pur ripenso Nella mia mente i valorosi fatti De’ buon del tempo antico ed i lor atti, Che solo in ben fero ogni lor dispenso»;59 e v’è la risposta del poeta. E sono nella Riccardiana due epistole latine di Roberto al Petrarca, con le quali lo invita a visitarlo in Casentino ed a riconciliarsi colla patria60. Il Petrarca rispose rallegrandosi col conte del suo stile latino, e di trovar anxie doctum tale che egli avrebbe creduto militariter eruditum: tutto nella lettera del conte è pieno di filosofici e poetici fiori. Su ’l conto della patria risponde altieramente: «Non io lei, ma ella me abbandonò.61» Roberto era del ramo guelfo dei conti Guidi, e signoreggiò Poppi e altre parti del Casentino: fu bene affezionato ai Fiorentini, che gli commisero il comando delle loro milizie; colle quali espugnò San Miniato e disfece l’esercito de’ Visconti nel 1370: morì nel 74.
Per Buonaccorso di Montemagno i vecchi critici e molti de’ più recenti non hanno che lodi. Vincenzo Calmetta62, che scriveva su la fine del secolo XV, lo mette a paro con Giusto de’ Conti e Agostino Staccoli, dicendo che tutti tre si sono ingegnati d’imitare il Petrarca. Celso Cittadini lo pone immediatamente dopo di lui fra i poeti della quarta ed ultima lingua che ebbero sceltezza di parole63. Molto conto ne fa il Tassoni nelle Considerazioni su ’l Canzoniere. Il Quattromani asserisce che dal Petrarca in fuori scrisse meglio di tutti quanti del suo tempo64; e il Crescimbeni che tanto egli si mostra superiore de’ coetanei quanto il Petrarca di lui. Con miglior giudizio scrisse del Conti e di Buonaccorso il Gravina: «benchè non spandano sì largamente le ali nè poggino a tanta altezza quanto il Petrarca ne tal dottrina abbraccino, pure nella loro linea di gentilezza e tenerezza son tali che non molto in loro si desidera di quello onde in questa parte più fiorisce il Petrarca»65. Ma dalle notizie confuse e contradditorie dei biografi di Buonaccorso è difficile ricavare qualche cosa d’appurato e di certo; più difficile sceverare le rime del Montemagno trecentista da quelle d’un suo nipote dello stesso nome vissuto nel secolo XV e di Niccolò Tinucci pur quattrocentista; difficilissimo, a chi non cerchi tutti i codici, chiarirsi se quel piccolo ed elegante canzoniere sia opera schietta e genuina del trecento o pur supposta o almeno rammodernata secondo il gusto del secolo XVI dal Varchi e dal Tolomei che dettero le rime di Buonaccorso al Pilli primo editore. Mi fa inchinare a questo ultimo sospetto, che è di molti valenti critici, l’aver veduto ne’ Ricordi filologici la lezione d’uno dei sonetti attribuiti al pistoiese e ivi pubblicato dal signor Bindi di sur un codice magliabechiano ben diversa dalla conosciuta, e meglio consentanea al gusto dei trecentisti66. Più; il primo e celebre sonetto di Buonaccorso è dato in una stampa del quattrocento a Bernardo di Montalcino: cinque altri leggonsi impressi nel canzoniere del Trissino come opera del poeta vicentino. In somma: fin che più chiara luce non si sparga su ’l poeta e su le poesie (e il signor Bindi avea promesso di mettersi a questa impresa); ci contenteremo a dire che circa la metà del secolo XIV fiorì in Pistoia un messer Buonaccorso da Montemagno giureconsulto e cavaliere, e che a lui si attribuiscono i sonetti da noi ammessi nella nostra scelta in ossequio al bel nome procacciatogli dai critici e dagli storici della letteratura.
X
Quando la critica degli autori del secolo XIV e XV sarà trattata non da grammatici puri e la storia di quella letteratura verrà scritta non da declamatori che dican villanìa a questo e a quello ove si converrebbe ragionare; allora si noterà come negli estremi anni del trecento, decaduto l’ideale e mancata la gran poesia di Dante e del Petrarca, si manifestasse in Firenze, e propriamente circa i tempi dell’ultima democrazia e del Tumulto de’ Ciompi, una poesia ch’io chiamerei borghese; poesia che ha fondamento nel reale e move dai fatti; ragiona, e poco inventa ed imagina; racconta, non narra; arringa, scherza, satireggia; tutto ciò con le umili forme della lingua del popolo. Forse si riattacca a tradizioni anteriori; certo seguitò più rigogliosa mano a mano che più declinavano i tempi; finchè usurpò col Burchiello e col Berni il luogo della lirica del Petrarca, fece col Pulci una stupenda caricatura, tutta borghese e fiorentina, della epopea cavalleresca, straniera ai repubblicani di Firenze, ma cominciata ad allignare in corte a Ferrara. I cinque sopra nominati sono i primi autori di siffatta poesia.
Di Andrea Orcagna, pittore, scultore, architetto (morto 1375), lasciò scritto il Vasari che «si dilettò di far versi e altre poesie: egli già vecchio scrisse alcuni sonetti al Burchiello allora giovanetto»67. Di questo ultimo asserto rimanga la fede presso il Vasari: ma rime dell’Orcagna il Biscioni le avea vedute in un codice strozziano. E molti de’ sonetti che vanno sotto il nome del Burchiello trovansi in altro codice strozziano sotto nome del grande architetto, il quale anche col far versi volle assomigliarsi al suo maggior successore, il Brunelleschi. Il Trucchi ne pubblicò alcuni, di quelli così detti alla burchia: noi, lasciando da parte gli enigmi, ci attenemmo nella scelta a quel che s’intende.
Antonio Pucci, «piacevole fiorentino (come lo qualificò il Sacchetti amico suo), dicitore di molte cose in rima»68, era d’una famiglia di gettatori di campane; e tenne bottega e avea casa ed orto in Via Ghibellina, ov’erano le fornaci da quel mestiere, onde ha oggi nome una strada ivi prossima. Dell’orto suo si teneva come d’un luogo di delizie: infastiditi certi amici glie ne fecero una burla: della quale datosi pace, volle che il Sacchetti la mettesse in novella. Fra gli avvenimenti della città ch’ei racconta nel Centiloquio, nota pure come pel diluvio del 1333 gli convenisse lasciare la casa di Via Ghibellina e Firenze. Fu poi trombetta del Comune; e dalla minuta descrizione che fa de’ luoghi nella Guerra di Pisa pare ch’ei v’intervenisse, se non altro ad accompagnarvi i commissarii. In ultimo scrisse istanze in versi alla signoria per essere nominato approvatore de’ sodamenti che si faceano dai debitori del Comune. Gli dispiacevano le guerre: non però quelle che si prendessero per onore e accrescimento della città. Fu uomo di gran religione: ma non sì che risparmiasse il papa e i cardinali, quando s’inframettevano nelle cose del Comune, e non avesse che dire dei frati. Ma sopra tutto egli amò Firenze: Mercato vecchio gli pareva la più bella piazza anzi la più bella cosa del mondo, e scrisse un capitolo delle sue proprietà: parevagli una nuova iliade la guerra con Pisa del 62; la quale descrisse, con minuzia di cronista e talvolta con ardor più che di rimatore, in sette cantari d’ottava rima: compendiò in terzetti la cronaca del Villani nel suo Centiloquio. Dovea questo prolungarsi a cento canti: ma trovandosi vecchio nel 1375 l’abbandonò al novantunesimo: «contento Perch’io la veggio (Firenze) riposata in pace E veggiole recate al suo mulino Di molte terre, onde molto mi piace... E veggio Pisa con Firenze in gioia, E Lucca in libertade: laond’io Poco mi curo omai perch’io mi muoia, Poi che acquistato ha tanto al tempo mio»69. Nè se ne hanno altre notizie.
E per la guerra pisana del 62 è scritto il sonetto di Filippo de’ Bardi: del quale nulla più si ha o si conosce. — La lingua e lo stile d’Adriano de’ Rossi, che è quello stesso del Pucci e del Sacchetti, ce lo fa credere vissuto verso quei tempi (1380 c.). Delle cose di lui vedute dal Crescimbeni «la più parte sono burlesche e satiriche, di buona forza e maniera». E il sonetto da noi riportato rammenta la novella LXXVII del Sacchetti.
«Vivo fonte gentil del bel parlare» era questi salutato dall’amico suo Pucci: e niuno in vero meglio del Sacchetti fece ritratto sì in prosa che in versi della favella franca spigliata potente del popolo fiorentino libero. Di men facile vena che l’amico suo campanaio, il cittadino del primo cerchio, di puro sangue romano, procede nella sua raccoltezza più efficace e talvolta più elegante. Poco riuscì nella lirica amatoria del tenore petrarchesco: fu singolare nelle ballate, nelle quali segnò meglio d’ogni altro e primo il passaggio dalla lirica elegiaca del Cavalcanti al famigliare e scherzoso del Medici. Fe buona prova nel poemetto tra imaginoso e burlesco, tra cavalleresco e satirico, della Guerra delle Donne: ottima nella poesia politica, dove, senza lasciare il carattere borghese, si leva tal volta allo sdegno eloquente dell’Alighieri. Descrittore egregio di costumi nelle novelle, fu satirico egregio in alcune poesie, cittadino ottimo in tutte. Nelle quali molti dei grandi avvenimenti, molto abbracciò de’ pensieri dell’ultima metà del secolo. Da molte raccolte e libercoli abbiam fatto assai larga mèsse delle rime di Franco: ma quante non ne aggiungerà d’importanti alle già conosciute il volume che attendiamo dalla istancabile solerzia del signor Gigli! Il quale con dottrina vera e non comune agli editori odierni ci ha dato fin qui le opere in prosa e un ottimo discorso su lo scrittore70. E a questo rimettiamo i desiderosi di più ampie illustrazioni: al proposito nostro bastando accennare ch’ei visse fra il 1335 e il 1400.
XI
La prima coppia di questi ultimi rimatori con la rozzezza di certe forme e con la orridezza dei latinismi annunzia già il troppo vicino quattrocento; la seconda con la freschezza delle imagini e degli affetti ci respinge indietro al primo trecento.
Del Vannozzo o Vannoccio lasceremo parlare a N. Tommasèo che ne fu il primo editore: «Poche notizie di questo poeta pervennero a noi. Lo nomina a pena il Maffei nella Verona illustrata, facendolo veronese; e ne tocca di volo il padre Degli Agostini nelle notizie degli scrittori veneziani. Pure sappiamo ch’egli fu caro al Petrarca, a Gian Galeazzo Visconti, a que’ della Scala. Qual fosse per lui la stima de’ Carraresi cel dice un sonetto che gli scrive Marsilio fratello di Francesco I signore di Padova: = A vo’, gentil Francesco di Vannozzo, Sovran maestro d’ogni melodia. = Ma che il Maffei s’inganni a crederlo veronese, cel dimostra quel verso del Vannozzo stesso: = E ben che trivigiano a popol sia. = Dell’amicizia ch’egli ebbe col Petrarca fa fede la canzone a Giovan Galeazzo conte di Virtù, dove l’ombra del poeta gli apparisce per mandarlo messaggero di sani consigli al nuovo signore di Milano, e gli dice: = Che da quel dì che uscisti delle fasce Amore in un le nostre voglie serra. = Dalle parole che seguono parrebbe che il nostro Vannozzo non sol fosse vissuto amico al Petrarca, ma co’ suoi consigli giovasse anche a vincere in esso l’amore di Laura od altra passione non degna di lui. Perchè dice: = E dall’ontosa guerra Già mi levasti... = ... La lode che gli attribuisce Marsilio di Carrara è maggiore del vero, pure mostra la stima in ch’egli era tenuto dagli uomini del suo tempo. E certo i suoi versi fra molte negligenze di lingua e di stile provano ingegno franco ed ornato.»71
«Simon sanese cantò in vulgar stile, Ma mal sè resse e morì in poco onore»72: così un poeta quasi contemporaneo a Saviozzo. Simone di ser Dino Forestani, detto il Saviozzo, fu cancelliere di Federigo da Montefeltro conte di Urbino. Gran veneratore di Dante, prese parte colla poesia agli avvenimenti del tempo suo: e la canzone al conte di Virtù è l’ultimo grido del ghibellinismo, se pur a tenerla per un magnanimo voto nazionale non fa ostacolo l’ira contro Firenze che sa forse di municipio. Oltre i saggi da noi riprodotti, de’ versi politici abbiamo a stampa una canzone infelice a Venezia: altre se ne citano inedite: a Pandolfo Malatesta, padre del signore di Pesaro versificatore; a Federigo Montefeltro; a Niccolò d’Este; al papa Martino V; e per l’assunzione d’Innocenzo VII (1404); dal Crescimbeni: una pel tradimento commesso dall’Appiani su ’l Gambacorta, dall’annotatore del Quadriregio73. Nè oltre al 1404 abbiamo altre notizie di lui; se non se ch’ei s’uccise di coltello essendo in carcere, dopo aver rimato imprecazioni a Dio agli uomini alla natura. Questa canzone fu con altre cose sue stampata da Cesare Tonto sul cadere del secolo XV: ma la stampa è più difficile a rinvenire che non i codici: nè veramente quei versi meritano tante ricerche. — Il sonetto d’Incerto fa sèguito per l’argomento alla canzone politica da noi riprodotta; e mostra che la idea di Giovanni Galeazzo avea partigiani in Italia. Ma la morte fece riporre la corona che quell’ambizioso avea preparato per fregiarsi del regno d’Italia nella vinta Firenze.
Di Sinibaldo perugino «non si trova notizia (scrive F. Trucchi che ne pubblicò l’unica canzone a stampa). Dalla sua maniera di dettare si può argomentare che fiorisse intorno al finire del trecento, tempo in cui erano ancora in gran voga queste poesie mistiche e allegoriche al modo di Cecco d’Ascoli... e dello stesso Dante.»
Meglio conosciuto per la corrispondenza d’amicizia e di lettere ch’ebbe col beato Giovanni dalle Celle e col teologo Marsigli, e più ancora pei carichi sostenuti nella sua repubblica, è Guido del Palagio di nobilissima famiglia fiorentina. Fu ambasciatore del Comune al re d’Ungheria nel 1380, a Genova nel 91, al Visconti nel 95, ai Veneziani nel 98; fu dei Dieci di guerra nel 1388 e nel 95; gonfaloniere di giustizia nel 94: ed ebbe famigliarità coi conti di Battifolle, d’uno de’ quali pubblicammo gentilissime rime. E alla sua Firenze, dopo servitala con ogni opera di cittadino, parla il degno repubblicano con ardore d’innamorato nella bella canzone, unica di lui a stampa.
XII
Avvertenza.
Con la quale e con le laudi di Firenze, madre e nutrice della forte e bella arte antica italiana, ci piace terminare la nostra scelta. Dove non hanno luogo nè i poemetti allegorici e narrativi, nè i cantici e le laude spirituali, nè le canzoni a ballo e altri versi musicali di poeti men noti o anonimi o incerti: perchè di questi tre generi della vecchia poesia che ebbero vita e storia determinata ci proponiamo dare in altri volumetti gli esempii migliori. Ed esclusi volemmo alcuni componimenti dei quali ci parve sospetta l’autenticità o alterata essenzialmente la dicitura originale; come i quattro sonetti di Cino che incominciano — Qual dura sorte mia — Druso, se nel partir vostro — Se tra noi puote — Già trapassato oggi — e qualche altro. Eguali sospetti avemmo intorno al sonetto Mille dubbi in un dì, ma non lo stesso coraggio di dargli bando, come quello che vanta troppo lunga e nobile cittadinanza in tutte le scelte e raccolte. Ma il coraggio non ci mancò, o, meglio, ci venne meno la cavalleria verso le gentili donne Ortensia di Guglielmo, Giustina Levi Perotti, Giovanna Bianchetti, Leonora della Genga; alla cui fama di poetesse, e di poetesse forbitamente petrarcheggianti, parendoci debole appoggio la Topica del cinquecentista Andrea Gilio e le Mescolanze del secentista e francese Menagio, escludemmo i loro sonetti. L’amore della critica ci scusi qui gentilezza. Ognun sa, per quanto di poche lettere fornito, come gli eruditi del secolo XVI facilmente per antiche spacciassero rime e prose foggiate da loro o loro amici e con quanta franchezza nelle veramente antiche mettesser le mani per rabberciarle al gusto del tempo.
Delle rime da noi riprodotte seguimmo e tenemmo a confronto i testi a stampa: chè nè da noi era nè da questa modesta impresa ricorrer sempre ai manoscritti; benchè talvolta il facessimo specialmente nelle rime dell’Uberti e qualche cosa abbiam dato di nuovo. Ma cogliam l’occasione per ricordare quanto tempo è che aspetta l’Italia da’ suoi molti filologi una collezione critica de’ suoi antichi poeti, che sia fondamento saldo alla storia della lingua e dell’arte. Ed ora che v’è una Commissione dal Governo instituita pe’ testi di lingua, Commissione che a mano a mano allargatasi più che dell’Emilia può oramai riputarsi italiana; sarebbe desiderabile che a suo tempo o tutti o alcuni de’ valenti che la compongono prendessero il faticoso e bello assunto. Perocchè, prima che a dar fuori cose nuove le quali radamente vincono in bellezza e utilità le già conosciute, parrebbe opportuno che si provvedesse a rifar bene il già fatto male e a fornire ed a compiere. Ma non conviene a me far da maestro a’ maestri e torno alla mia scelta. Delle cui fonti non parlo qui, perchè le additai a piè di ciascun componimento, e nè pur della cura e fatica spese a ricercar tanti libri antichi e recentissimi, tanti e giornali e raccolte e fascicoli fuor di commercio. Piuttosto a cui sia in acconcio di correggermi debbo chiedere scusa e ammonimento degli errori che avrò commessi. Ma molte grazie debbo al dottor Carlo Gargiolli, giovine di ottimi studi, che m’ha prestato giudizioso e oneroso aiuto nela elezione e nel confronto dei testi migliori; e al prof. Emilio Teza, in cui la conoscenza delle cose straniere non esclude l’amore e lo studio delle nostrali, nè la dottrina impedisce l’arte, che ha voluto dare a questo libretto la lezion genuina e la illustrazione d’una delle più belle poesie minori del secolo XIV.
- 6 Aprile 1862.
Note
- ↑ G. Leopardi: Prefazione alla Crestomazia poetica. (Milano, Stella, 1828.)
- ↑ Citato da F. Trucchi nelle notizie di M. Cino in Poesie italiane inedite (Prato, Guasti, 1846), vol. I.
- ↑ Petrarca: Invect. contro Galli calumn.
- ↑ M. Cino: Rime; CV di questa edizione.
- ↑ D. Compagni: Cronica, III.
- ↑ Dante: Paradiso, XXX.
- ↑ S. Ciampi: Vita e memoria di messer Cino, terza edizione. (Pistoia, Manfredini, 1826.)
- ↑ M. Cino: Rime, LXXVIII di questa edizione.
- ↑ Petrarca: Rime, s. IX, p. III, edizione Marsand.
- ↑ Bertrans de Born; in Raynouard: Choix des poésies des troubadours (Paris, Didot, 1817). II, 243.
- ↑ Bonagiunta Urbiciani: Rime, in Poeti del primo secolo (Firenze. 1816), I, 512.
- ↑ Boccaccio: Decamerone, giornata VI, nov. IX.
- ↑ G. Villani: Cronica, VI, 41.
- ↑ G. Cavalcanti: Rime, in Poeti del primo secolo (Firenze, 1816), II, 355.
- ↑ M. Cino: Rime, VI di questa edizione.
- ↑ Dante: Inferno, X.
- ↑ M. Cino: Rime, XC-XCI di questa edizione.
- ↑ Dante: Epistolæ, IV, in Opere minori (Barbèra, 1857), III,
- ↑ M. Cino: Rime, XCV di questa edizione.
- ↑ Dante: De vulgari eloquio, I, XIV.
- ↑ M. Cino: Rime, CXIII di questa edizione
- ↑ Lo stesso, ivi.
- ↑ Dante: De vulgari eloquio, I, XVII.
- ↑ L. de’ Medici: Lettera all’illustriss. sig. Federigo; in Poesie dell’edizione Diamante Barbèra, 1858.
- ↑ Ugo Foscolo: Epistolario (Firenze, Le Monnier, 1852), lett. 361.
- ↑ L. Bruni: Vita di Dante.
- ↑ Dante: Vita nuova, XXXV.
- ↑ G. Vasari: Vita di Giotto.
- ↑ S. Bargagli: Dialogo int. Il Turamino.
- ↑ A. Dei: Cronica, in Rer. Italic. Scriptores, XV, 88.
- ↑ Crescimbeni: Comentarii alla St. della volg. poes., volume II, p. II, l. III. E ogni volta che nel testo citiamo o riportiamo dal Crescimbeni senza nota speciale, s’intenda di questa parte dell’opera sua.
- ↑ U. Benvoglienti: Note alla Cronica del Dei, in Rer. Italic. Scriptores. XV, 96.
- ↑ Leandreide, c. 7: cit. dal Mazzuchelli nel vol. III degli Scrittori italiani.
- ↑ F. Ubaldini nella Lettera al lettore posta innanzi alle Rime di M. F. Petrarca estr. da un suo originale, etc. (Roma, Grignani, 1642).
- ↑ Dante: Paradiso, VIII.
- ↑ G. Villani: Cronica. XI, 3.
- ↑ F. Ubaldini: l. c.
- ↑ Boccaccio: De Genealogia Deorum, XIV.
- ↑ G. Fantuzzi: Notizie degli scrittori bolognesi, t. I, Bologna, 1781; e S. Muzzi: I poeti bolognesi anteriori a Dante, nell’Almanacco statistico bolognese pel 1840.
- ↑ F. Ubaldini; edizione cit. delle Rime originali del Petrarca; Trattato delle virtù morali e Canzoni del Bonichi.
- ↑ L. Allacci: Lettera agli Accademici della Fucina, premessa a’ Poeti antichi, ecc. (Napoli, d’Alecci, 1661); e a questa lettera ci riportiamo citando altrove l’Allacci.
- ↑ F. Trucchi, nelle Notizie di Pieraccio Tedaldi, in Poesie inedite italiane, vol. II (Prato, Guasti, 1846). Citando o nominando il Trucchi nel testo, intendiamo sempre di questo volume della sua raccolta.
- ↑ F. M. Raffaelli: Della famiglia, della persona di M. Bosone da Gobbio, ecc.; Deliciae eroditorum, di G. Lami, Firenze, 1755, volume XVII.
- ↑ Mehus: Vita Ambr. Traversari, 274
- ↑ P. Fraticelli: Storia della vita di Dante, IX. (Firenze, Barbèra, 1861.)
- ↑ Sertorio Quattromani: Lettere, 157.
- ↑ G. Villani: Cronica, XII, 28.
- ↑ Petrarca: Trionfo d’amore, IV.
- ↑ Petrarca: Epist. famil., VII, 12.
- ↑ Petrarca; Rime, p. II, s. 19, edizione Marsand.
- ↑ Dante: Purg., VIII.
- ↑ Petrarca: Rime, p. 1, sonetti 76, 77, 207, edizione Marsand; Epist. famil., IV, 14.
- ↑ Donato Velluti; Cronica di Firenze (Firenze, Manni, 1731), pagina 40.
- ↑ F. Villani: Vite degli uomini illustri fiorentini (Venezia, 1747).
- ↑ F. Sacchetti: Novelle, XLIX.
- ↑ Petrarca: Epist. sen., V, 3.
- ↑ L. Salviati: Avvertimenti, ecc. (Napoli, 1712), vol. I, pag. III.
- ↑ A. Sagredo: Sonetti inediti di Fr. Petrarca, per nozze. (Venezia, Gaspari, 1852.)
- ↑ Delizie degli eruditi toscani (Firenze, 1745), t. XIV.
- ↑ G. B. Baldelli: Vita del Petrarca, illustrazione VI.
- ↑ Petrarca: Senil., II, 6, 7.
- ↑ Cit. dal Corbinelli in Prefazione alla Bella Mano di Giusto de’ Conti.
- ↑ C. Cittadini: Origini della toscana favella.
- ↑ S. Quattromani: Lettere, 56.
- ↑ G. Gravina: Della ragione poetica, II, 30.
- ↑ Ricordi filologici e letterarii (Pistoia, 1847), n. 1.
- ↑ Vasari: Vita dell’Orcagna.
- ↑ F. Sacchetti: Novelle, CLXXV.
- ↑ A. Pucci: Centiloquio, cap. CXI; in Delizie degli eruditi (Firenze, 1772). vol. VI.
- ↑ O. Gigli: Della vita e delle opere di F. Sacchetti; in Sermoni e Lettere di esso Sacchetti. (Firenze, Le Monnier, 1857.)
- ↑ N. Tommasèo: Dizionario estetico (Milano, 1860), vol. I.
- ↑ Benedetto di Cesena, citato dal Crescimbeni in Coment. St. volg. poes., III, parte II, l. II.
- ↑ Frezzi: Quadriregio (Foligno, 1725), note al c. 16, l. II.