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DISCORSO PRELIMINARE |
del duecento più ancora che il padre suo Franceschino: onde non saprebbe trovar luogo fra gli altri rimatori meglio culti e meno vivaci.
VIII
A Giovanni Boccaccio, il quale nel suo epitafio gloriavasi «studium fuit alma pöesis» e terzo poeta d’Italia era salutato dai contemporanei e dal Petrarca quando lo persuadeva a non ardere le sue rime volgari1, come volea dopo lette quelle dell’amico; a Giovanni Boccaccio ricusano i posteri il nome che più dura e più onora, ripetendo un bisticcio del Salviati; «verso che avesse verso nel verso non fece mai, o così radi, che nella moltitudine de’ lor contradii restano come affogati»2. Chi ha letto le commedie versificate del Salviati crederà che l’erudito e giudizioso cavaliere grammatico parli per esperienza fatta su’ propri suoi versi. A tanto severo consenso v’è però qualche rara e gloriosa eccezione: il Tasso allega ne’ suoi Discorsi poetici l’autorità della Teseide, e non isdegnò di postillarla a suo studio: la cita spesso il Tassoni. A parer mio anche il Boccaccio fu inventore d’un genere e autore d’una maniera. Come Dante si elesse la parte specialmente intellettiva e ideale della letteratura, e il Petrarca l’affettiva ed intima; così il Boccaccio la sensibile. E della civiltà contemporanea descrisse nel Decamerone la forma; e si volse ad ornare e dilettare la vita esterna. Scrisse, per piacere alle gentili donne e a’ cavalieri, poemi romanzeschi; nei quali, come quegli che era novellatore e a un tempo erudito, fece prova d’accordare l’antichità e Virgilio col medio evo e co’ trovatori francesi. Allo stesso intento, da poi che nei versi d’amore far meglio del Petrarca e di Dante era
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