Proprietà di Mercato Vecchio

Antonio Pucci

XIV secolo Poesie Letteratura Proprietà di Mercato Vecchio Intestazione 20 luglio 2013 75% Poesie

     I’ ho vedute già dimolte piazze
per diverse città; ma de’ vicini
3vo’ ragionar, lasciando l’altre razze.
     Bella mi par quella de’ perogini,
di molte cose adorna per ragione,
6e anche la fan bella i fiorentini;
     ma dell’altre città non far menzione;
che, se ’l ti bisognasse per tuo scampo,
9trovar non vi potresti un testimone.
     Quella di Siena, che si chiama il Campo,
par un catino, e di freddo di verno
12vi si consuma e di state di vampo.
     Ma queste e l’altre, se chiaro discerno,
niente son di frutte e di bellezza
15e di ciò ch’alla gente dà governo
     appetto a quella che mi dà vaghezza
di dirne in rima, perché in quella terra
18nacqui dov’ella a tutti dà allegrezza,
     cioè Firenze; e se ’l parer non erra,
Mercato Vecchio nel mondo è alimento,
21sì che d’ogni altra piazza il pregio serra.
     Ond’io fermai il mio intendimento
di raccontarvi con parole preste
24le proprietà che nel Mercato sento.
     E brievemente dico che son queste:
che quattro chiese ne’ suo quattro canti
27e ’n ogni canto ha due vie manifeste.
     Artefici ha dintorno e mercatanti
di più e più ragion: parte de’ quali
30raccontarò a voi, signor, davanti.
     Medici v’ha maestri a tutti i mali,
e havvi pannilini e linaiuoli,
33pizzicagnoli v’ha e speziali;
     èvvi chi vende bicchieri e orciuoli,
e chi alberga e dà mangiare e bere
36a più ragion di cattivi figliuoli.
     Fondachi grossi v’ha di più maniere
ed èvvi la più bella beccaria
39che sia, di buona carne, al mio parere.
     E sempre quivi ha gran baratteria:
contentanvisi molto e barattieri,
42perché v’è pien di lor mercatantia,
     cioè di prestatori e rigattieri,
tavole di contanti e dadaiuoli,
45e d’ogni cosa ch’a lor fa mestieri.
     Ancor da parte stanno i pollaiuoli,
forniti sempre a tutte le stagioni
48di lepre e di cinghiali e cavriuoli
     e di fagiani e starne e di capponi
e d’altri uccelli, ch’al conte d’Isprecche
51si converrian, sparvieri e falconi.
     Sempre di più ragion vi stanno trecche:
diciam di quelle con parole brutte,
54che tuttodì per due castagne secche
     garrono insieme chiamandosi putte:
e sempre son forniti di vantaggio,
57secondo il tempo, i lor panier di frutte.
     E altre vendon uova con formaggio
per far degli erbolati e delle torte
60o raviuoli o altro di paraggio.
     Appresso a queste son le trecche accorte,
che vendon camangiare e senapina
63e d’ogni ragion erbe, dolce e forte.
     E contadin vi vengon la mattina
a rinnovar le cose alle fantesche:
66ciascuna rifornisce sua cocina.
     Quando le frutte rappariscon fresche,
vengon le foresette co’ panieri
69di fichi e d’uve, e di pere e di pesche:
     se le motteggi, ascoltan volentieri,
e havvi di più belle che ’l fiorino,
72che recan fiori e rose di verzieri.
     Non fu giammai così nobil giardino
come a quel tempo gli è Mercato Vecchio,
75che l’occhio e ’l gusto pasce al fiorentino.
     Non credo che nel mondo abbia parecchio,
e ciò si pruova per vive ragioni:
78non voglia più chi del mio dir fa specchio.
     Or che ricchezza è quella de’ poponi
che vendon que’ che soglion vender biada,
81perch’hanno pronte a ciò loro stazzoni!
     Ogni mattina n’è piena la strada
di some, e di carrate nel mercato
84è la gran pressa, e molti stanno a bada.
     Gentili uomini e donne v’ha da lato,
che spesso veggion venire alle mani
87le trecche e’ barattier ch’hanno giucato.
     E meretrici vi sono e ruffiani,
battifancelli, zanaiuoli e gaioffi
90e i tignosi e scabbiosi cattani.
     E vedesi chi perde con gran soffi
biastimar colla mano alla mascella
93e ricevere e dar dimolti ingoffi.
     E talor vi si fa colle coltella,
e uccide l’un l’altro, e tutta quanta
96allor si turba quella piazza bella.
     E spesso ancor vi si trastulla e canta,
perocché d’ogni parti arrivan quivi
99chi va gabbando e di poco s’ammanta.
     E, per lo freddo, v’ha di sì cattivi
che nudi stan colle calcagne al culo,
102perché si son di vestimenti privi;
     e mostran spesso quel che mostra il mulo,
pescando spesso a riposata lenza,
105perch’è ciascun di danar netto e pulo.
     Quando fa oste il comun di Firenza,
quinci si traggon guastatori assai
108per ardere e guastare ogni semenza;
     esconne manigoldi e picconai,
di cui la gente spesso si rammarca
111perché guadagnan pur degli altrui guai.
     Incoronati v’ha che della marca
vengono a farsi caricar la schiena:
114beato quello a cui più spesso è carca!
     E quando i tordi son, sempre n’è piena
la bella piazza, e certi gentilotti
117co’ dadi fanno desinare e cena:
     talor costan lor cari i boccon ghiotti,
ché tal vincer si crede il desinare
120ch’accorda per altrui dimolti scotti.
     E pochi isdegnan quivi di giucare,
quivi giuocan donzelli e cavalieri
123e rade volte sanz’essi, mi pare.
     Maestri v’ha di ceste e panattieri,
rimondator di pozzi e di giardini,
126e di molte ragion cacapensieri.
     Recanvi, quand’è ’l tempo, i contadini
di mele calamagne molte some
129da Poggibonisi e d’altri confini;
     e di più cose ch’io non dico il nome,
di fichi secchi e pere carvelle,
132mele cotogne e ogni simil pome.
     Evvi chi vende taglieri e scodelle,
chi vende liscio, ed èvvi il calzaiuolo
135che vende calze e cappelline belle;
     e ’l fabbro e ’l ferrovecchio e il chiavaiuolo
e, quando è il tempo, molte contadine
138con pentole di latte fanno stuolo.
     Per carnasciale capponi e galline,
partendosi dal viver tra le zolle,
141vengono a farsi a’ cittadin vicine.
Di quaresima poi agli e cipolle,
e pastinache sonvi, e non più carne,
144siccom’a santa Chiesa piacque e volle:
     erbette forti da frittelle farne,
fave con ceci e ogni altra civaia,
147che di quel tempo s’usa di mangiarne.
     E poi, quando ne vien la Pasqua gaia,
la piazza par che tutta si rinfreschi,
150che di giardini pare fatta un’aia:
     rinnuovansi e racconcian tutti i deschi,
veggonsi pien di cavretti e d’agnelli
153e di castron nostrali e gentileschi;
     similemente vitelle e vitelli
ed altre carni; e molti cittadini
156chi compera di queste e chi di quelli.
     Di più ragion v’arrivano uccellini,
sì da tenere in gabbia per cantare,
159fruson per li fanciulli e passerini;
     e colombi e conigli per figliare;
e donnole vi son, gatte e gattucci;
162e massarizie assai da comperare,
     botti, lettier, cassapanche e lettucci.
Ed èvvi quella che accatta le fanti
165(pognàm ch’el non bisogni a Antonio Pucci).
     Del mese di dicembre i buon briganti,
che quivi son, si ragunano insieme
168e chiaman un signor di tutti quanti.
     Quand’è fatto il signore, ciascun preme
per farsi bel di robe e di cavagli,
171né allor paion colle borse sceme.
     Coll’aste in man, forniti di sonagli,
armeggian per la terra, ognun sì gaio
174ch’ogn’altro par che di suo fatto abbagli.
     E poi il dì di calen di gennaio
vanno in camicia con allegra fronte
177curando poco grisoppo o rovaio,
     e ’n sulla terza sopra ’l vecchio ponte,
si fanno cavalier, gittansi in Arno
180dov’è dell’acqua più cupa la fonte.
     Qando bagnati son, com’i’ v’incarno,
si ciban di cocomar per confetto,
183e poi tornano in piazza non indarno;
     ma con le trombe e con molto diletto
ismontan da cavallo al fuoco adorno,
186che a lor costa poco nell’effetto,
     perchè da’ gintiluomini dintorno
donato è lor legname e salvaggiume,
189vitello e polli, in così fatto giorno.
     Cacciato il freddo che recon del fiume,
non barattieri paion, ma signori,
192andando a mensa con gentil costume:
     appresso v’ha dimolti sprendori,
nappi d’argento v’ha da tutte bande,
195sonator di stormenti e cantatori,
     lesso ed arrosto con molte vivande;
e poi di presentare e’ par cortese
198ciascun secondo che tra loro è grande.
     Poi ch’hanno desinato all’altrui spese
(ché tutto viene di dono e di giuoco),
201ed e’ cavalcan veggendo il paese.
     Da quella sera in là fan sanza cuoco,
perocché, forse per le borse vote,
204non è chi più per loro accenda il fuoco;
     ma ricomincian le «dolenti note»,
tornando al pentolin con tal tenore
207che ’n pochi dì sottiglian lor le gote;
     e posson dir: «nessun maggior dolore
ch’a ricordarsi del tempo felice
210nella miseria», e ciò disse l’autore;
     ché dove avean capponi e pernice,
la vitella e la torta con l’arrosto,
213hanno per cambio il porro e la radice.
     E quel ch’era signor si vede sposto:
non fe’ maggiore istoscio Simon Mago
216ch’a lui pare aver fatto brieve e tosto;
     ché di signor si ritruova nel brago,
non può soccorrer sé e non è soccorso,
219e dice «Ohmè, perché ne fu’ io vago?»
     Quando nel pane asciutto dà di morso
e beve l’acqua, si reca a memoria
222che ber soleva il vino a sorso a sorso.
     Oh quanti della rota hanno vittoria
per questo modo, che similemente
225iscendon dal trionfo a grande storia.
     Foll’è chi vuole oprar, signor, per boria.


Di questo Antonio Pucci fu poeta.
228Cristo vi guardi sempre in vita cheta.