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DISCORSO PRELIMINARE

tarla, più che padri è dover che si chiamino». A Matteo nostro ben presto, nel 1313, morì il padre: Dino Frescobaldi, de’ più leggiadri coltivatori dell’ultima poesia toscana del duecento: anche la madre gli mancò, resasi a vita religiosa nel monastero di San Donato a Rifredi. Di che forse la disordinata vita di lui descrittaci dal cronista Donato Velluti: «Matteo di Dino fu di comunale statura, grande giucatore, spesse volte vestito con bellissime vesti (e talotta tagliate e non cucite si vendevano o impegnavano), alcuna volta vilmente vestito. Morì nella mortalità del 1348, d’età di 40 anni o più: non ebbe mai moglie: rimasene una bastarda.»1

Delle rime di lui e di Sennuccio la nostra è per ora la più copiosa raccolta: pochissime ne escludemmo, sole cioè le cattive o troppo scadenti.


VII




Le rime dei tre ultimi Fiorentini, di cui tenemmo parola, attestano una seconda maniera lirica del secolo XIV: la quale, non che sia ancora imitazione del Petrarca, ma ne accenna pure alla squisitezza e intimità del buon testor degli amorosi detti; ed è tuttavia più culta e aggraziata, sebbene tanto meno alta di spiriti e d’intonazione, dell’ultima lirica de’ dugentisti; segna in fine o, meglio, annunzia il terzo stadio dell’arte. Ma, almeno per l’audacia e l’irregolarità delle forme, rimangono nel forte medio evo i due che si presentano ora: fra i coetanei essi stanno, come il Saladino di Dante, soli in disparte.

Reliquia del vecchio tempo, oramai quasi sconosciuta al trecento che ha prodotto il gran motteggiatore di Certaldo, ecco la visione profetica nella serventese di

  1. Donato Velluti; Cronica di Firenze (Firenze, Manni, 1731), pagina 40.

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