La vedova scaltra/Atto II
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ATTO SECONDO.
SCENA PRIMA.
Camera di Rosaura.
Il Dottore e Rosaura.
Rosaura. Pare che il mio genitore si sia scordato di me; non venite mai a vedermi.
Dottore. Figliuola mia, lo sapete; ho i miei affari, e non avendo entrate, conviene che mi procacci il vitto co’ miei sudori.
Rosaura. Se avete bisogno di qualche cosa, comandate.
Dottore. No, non voglio caricarvi di maggiori pesi. Pur troppo tenendo con voi Eleonora vostra sorella, mi sollevate dal maggior fastidio del mondo.
Rosaura. Bisognerebbe procurar l’occasione di maritarla.
Dottore. Per questo sono venuto da voi. Sappiate che il signor Pantalone vostro cognato inclinerebbe a sposarla.
Rosaura. Oh, non le date un vecchio.
Dottore. Un vecchio l’avete preso anche voi.
Rosaura. E per questo vi dico che non lo diate a lei.
Dottore. Basta, parlerò con la ragazza, e s’ella v’inclina, non le togliamo la sua fortuna.
Rosaura. Se v’inclina, lo faccia. Ma avvertite di non violentarla.
Dottore. E voi Rosaura, volete rimaritarvi?
Rosaura. Perchè no? Se mi capitasse una buona occasione, forse l’abbraccerei.
Dottore. Vi è un cavaliere spagnuolo, che ha dell’inclinazione per voi.
Rosaura. Come si chiama?
Dottore. Don Alvaro di Castiglia.
Rosaura. Lo conosco. Era ier sera alla festa di ballo.
Dottore. Egli m’ha pregato acciò l’introduca da voi, ed è venuto meco sin qui. So che è un cavaliere pieno di civiltà e di onestà, onde se non avete cosa in contrario, mi farete piacere a riceverlo, tanto più che può darsi non sia inutile per voi la sua inclinazione.
Rosaura. Quando mio padre me lo presenta, non ricuso ricevere il cavaliere spagnuolo.
Dottore. Figliuola mia, sarebbe bene che vi rimaritaste. Compatitemi, se ve lo dico. Una vedova sui festini non fa la migliore figura di questo mondo. (parte)
SCENA II.
Rosaura, poi Don Alvaro.
Rosaura. Mi mortifica gentilmente. Ma gran conquiste che ho fatte io ieri sera! Tutti rimasero incantati. Non so che cosa avessi di straordinario. Ma ecco lo Spagnuolo. Viene con passo geometrico. Solita gravità della sua nazione.
Alvaro. Riverisco donna Rosaura de’ Bisognosi.
Rosaura. M’inchino a don Alvaro di Castiglia.
Alvaro. Vostro padre mi ha obbligato ch’io venga a darvi il presente incomodo, ed io non ho mancato di compiacerlo, anche per il piacere di riverirvi.
Rosaura. Mio padre è stato troppo indiscreto a dare a voi un sì gran disturbo, e condurvi ad annoiarvi della mia stucchevole conversazione.
Alvaro. Voi siete una dama di molto merito, e però trovo bene ricompensata qualunque pena per voi mi prendo.
Rosaura. Vuol favorire? S’accomodi.
Alvaro. (È ancor più bella di giorno che di notte). (da sè, e siede)
Rosaura. (Mi mette in una gran soggezione). (da sè, e siede)
Alvaro. Eccovi una presa del mio tabacco. (le dà il tabacco)
Rosaura. Veramente prezioso.
Alvaro. Questo l’ebbi ieri, con una staffetta speditami dalla duchessa mia madre.
Rosaura. Certo non può esser migliore.
Alvaro. Eccolo al vostro comando.
Rosaura. Non ricuserò l’onore di metterne un poco nella mia tabacchiera.
Alvaro. Servitevi della mia.
Rosaura. Non permetterei che doveste restarne senza.
Alvaro. Ebbene, datemi in cambio la vostra.
Rosaura. Ma la mia è d’argento, e la vostra è d’oro.
Alvaro. Che oro! Che oro! Noi stimiamo l’oro come il fango. Fo più conto di una presa del mio tabacco, che di cento scatole d’oro. Favorite.
Rosaura. Per compiacervi. (fa il cambio della scatola) Don Alvaro, come vi piace la nostra Italia?
Alvaro. È bella, ma non ci vedo quell’aria maestosa, che spira per tutti gli angoli della Spagna.
Rosaura. E delle Italiane che ne dite?
Alvaro. Non conoscono la loro bellezza.
Rosaura. Perchè?
Alvaro. Perchè? S’avviliscono troppo, e non sanno sostenere bastantemente il decoro del loro merito.
Rosaura. Ma che? Le vorreste superbe?
Alvaro. Le vorrei più gravi e meno popolari.
Rosaura. Ma il nostro costume è tale.
Alvaro. Piano, non parlo di voi. Voi non sembrate italiana. La scorsa notte mi sorprendeste. Vidi sfavillare dai vostri occhi un raggio di luminosa maestà, che tutto mi empiè di venerazione, di rispetto e di maraviglia. Voi mi sembraste per l’appunto una delle nostre dame, le quali, malgrado la soggezione in cui le teniamo, hanno la facoltà d’abbattere ed atterrare co’ loro sguardi.
Rosaura. Vi ringrazio della favorevole prevenzione che di me avete. Ma avvertite a non ingannarvi.
Alvaro. Uno Spagnuolo non è capace di restare abbagliato. Noi abbiamo la vera cognizione del merito.
Rosaura. Lo credo 1 ma qualche volta la passione fa travedere.
Alvaro. No no, non è possibile che gli Spagnuoli amino per una passione brutale. Prima d’accendersi, vogliono conoscer l’oggetto delle loro fiamme. La bellezza appresso di noi2 non è il più forte motivo de’ nostri amori.
Rosaura. Ma di che dunque vi solete invaghire?
Alvaro. Del contegno e della gravità.
Rosaura. (Genio veramente particolare della nazione). (da sè)
Alvaro. Non vorrei esservi di soverchio incomodo. Che ora abbiamo?
Rosaura. Sarà il mezzogiorno poco lontano.
Alvaro. Vediamo che dice il nostro infallibile. (tira fuori l’orologio) Questa è l’opera più perfetta del Quare Inglese3.
Rosaura. In Ispagna non fanno orologi?
Alvaro. Eh pensate! In Ispagna pochi travagliano.
Rosaura. Ma come vivono le genti basse?
Alvaro. In Ispagna non vi è gente bassa.
Rosaura. (Oh questo è originale!) (da sè)
Alvaro. (Mentre vuol guardare le ore, gli casca in terra l’orologio) Va al diavolo. (gli dà un calcio, e lo getta in fondo della4 scena)
Rosaura. Che fate? Un orologio così perfetto?
Alvaro. Quello che ha toccato i miei piedi, non è più degno della mia mano.
Rosaura. Dice bene.
Alvaro. Ma voi, in mezz’ora che siete meco, non mi avete ancora richiesto cosa veruna.
Rosaura. Non saprei di che pregarvi, oltre l’onore della vostra grazia.
Alvaro. La grazia d’uno Spagnuolo non si acquista sì facilmente; siete bella, siete maestosa, mi piacete, vi amo, ma per obbligarmi ad esser vostro, vi mancano ancora delle circostanze.
Rosaura. Favorite dirmi che cosa manca.
Alvaro. Sapere in qual grado di stima teniate5 la nobiltà.
Rosaura. Essa è il mio nume.
Alvaro. Conoscere se sapete sprezzare l’anime basse ed ignobili.
Rosaura. Le odio e le aborrisco.
Alvaro. Sperimentare se avete la virtù di preferire un gran sangue ad una vana bellezza.
Rosaura. Di ciò mi pregio costantemente.
Alvaro. Or siete degna della mia grazia. Questa è tutta per voi. Disponetene a piacer vostro. (s’alza)
Rosaura. Volete di già lasciarmi? (s’alza ella6 pure)
Alvaro. Non voglio più a lungo cimentare il mio contegno. Comincerei a indebolirmi.
Rosaura. (Voglio provarmi se so dargli gusto all’usanza del suo paese.) (si mette in gravità) Da me non sperate uno sguardo men che severo.
Alvaro. Così mi piacete.
Rosaura. Vi lascerò penare prima d’usarvi pietà.
Alvaro. Lo soffrirò con diletto.
Rosaura. Ad un mio cenno dovrete trattenere sino i sospiri.
Alvaro. Che bel morire per una dama che sa sostenere la gravità!
Rosaura. Principiate ora a temermi. Partite.
Alvaro. Sono costretto ad ubbidirvi.
Rosaura. Non mi guardate.
Alvaro. Che incanto è questo! Che severità prodigiosa! Provo il massimo de’ contenti nel sofferire la maggior pena del mondo. (si volta un poco, e con un sospiro parte)
SCENA III.
Rosaura sola.
Oh! questo è il più ameno carattere di quanti ne abbia trattati. Ha piacere di essere tormentato, e in grazia di questa sua idolatrata gravità, fa più conto dei disprezzi che delle finezze. Eccomi provveduta di quattro amanti, ognuno dei quali ha il suo merito e le sue stravaganze. L’Italiano è fedele, ma troppo geloso: l’Inglese è sincero, ma incostante: il Francese è galante, ma troppo affettato: e lo Spagnuolo è amoroso, ma troppo grave. Vedo che volendo levarmi dalla soggezione7, uno di questi dovrei scegliere, ma quale ancor non saprei. Dubito poi che dovrò preferire il Conte ad ogni altro, tuttochè qualche volta mi si renda molesto co’ suoi sospetti gelosi. Egli è il primo che mi si è dichiarato; e poi ha il privilegio sopra degli altri d’essermi quasi paesano: privilegio che assai prevale in tutte le nazioni del mondo. (parte)
SCENA IV.
Camera nella locanda.
Monsieur le Blau ed Arlecchino.
Monsieur. Tu sei un uomo spiritoso; è peccato che ti perdi in una locanda, ove non può spiccare8 la tua abilità.
Arlecchino. Ghe dirò, patron; siccome la mia gran abilità la consiste in9 magnar, no me par de poder trovar meio d’una locanda.
Monsieur. No, amico, non è questa la tua abilità. Conosco io dalla tua bell’idea, che sei un capo d’opera per fare un’ambasciata amorosa.
Arlecchino. In verità l’è un cattivo astrologo, perchè mi non ho mai fatt el mezzan.
Monsieur. Ecco come in Italia si cambiano i termini a tutte le cose. Che cos’è questo mezzano? Un ambasciatore di pace, un interprete dei cuori amanti, un araldo di felicità e contenti; merita tutta la stima, ed occupa i più onorati posti del mondo.
Arlecchino. Ambasciator de pase, araldo de felicità e contenti, in bon italian vol dir batter l’azzalin10.
Monsieur. Orsù, io sarò quello che metterà in luminoso prospetto la tua persona. Conosci madama Rosaura, cognata di Pantalone de’ Bisognosi?
Arlecchino. Signor sì, la conosso.
Monsieur. Hai tu coraggio di presentarti ad essa in mio nome, e recarle in dono una preziosissima gioja che ti darò?
Arlecchino. Elo fursi qualche anello?
Monsieur. Oh, altro che anello! È una gioja che non ha prezzo.
Arlecchino. Perchè, se l’era un anello, no la lo toleva siguro. Basta, me proverò; ma la se arecorda che ogni fadiga merita premio.
Monsieur. Eseguisci la commissione, e sarai largamente ricompensato.
Arlecchino. La me diga, cara ela: Vussioria el mai stà in Inghilterra? Salo l’usanza de quel paese?
Monsieur. Non ci sono stato, e non so di qual usanza tu parli.
Arlecchino. La sappia che in Inghilterra se usa regalar avanti.
Monsieur. Questo da noi non si costuma. La mercede non dee precedere il merito. Opera bene, e non temere.
Arlecchino. Basta, mi stagh sulla vostra parola.
Monsieur. Non voglio però che tu dica esser un servitore di locanda, che non mi conviene mandarti con questo titolo.
Arlecchino. Chi oio da dir che son?
Monsieur. Devi passar per il mio cameriere, giacchè, come tu sai, sono tre giorni che l’ho licenziato dal mio servizio.
Arlecchino. Ghe voria mo i abiti a proposito. La vede ben...
Monsieur. Vieni nella mia camera. Ti vestirò alla francese.
Arlecchino. Alla franzese! Oh magari! Anca mi deventerò monsù.
Monsieur. Dovrai porti sul gusto della nostra nazione, dritto, svelto, spiritoso, pronto. Cappello in mano, riverenze senza fine, parole senza numero e inchini senza misura.
Arlecchino. (Sì va provando, e non gli riesce.)
Monsieur. Ecco la gioja che tu le devi recare. Questo è il mio ritratto; e son sicuro ch’ella apprezzerà la delicatezza di questa effigie, più che la ricchezza di tutte le gioje del mondo.
Arlecchino. Oh che zoggia! oh che bella zoggia!
Monsieur. Odi, mio caro Arlecchino, odi il complimento che le dovrai fare per me; apprendilo bene, non te ne dimenticare parola, poichè in ogni accento è rinchiuso un mistero.
Arlecchino. No la se dubita; la diga pur, che l’ascolto.
Monsieur. Tu le devi dir11 così: Madama, chi aspira a farvi l’intiero dono del rispettoso ed umile originale, v’invia anticipatamente il ritratto. Tenetelo in luogo di amoroso deposito, fintanto che la sorte gli conceda l’onore...
Arlecchino. Basta, basta, per amor del cielo. No me ne recordo più una parola.
Monsieur. Orsù, vedo che tu hai poca memoria. Sai leggere?
Arlecchino. Qualche volta.
Monsieur. Vieni nella mia camera, che lo registrerò sopra un foglio. Lo leggerai tante volte, finchè ti resti nel capo.
Arlecchino. Se l’ho da lezer fin che el me resta nella memoria, ho paura de averlo da lezer tutto el tempo de vita mia.
Monsieur. Caro Arlecchino, seguimi, non ti trattenere. Sono impaziente di sentir la risposta che madama averà la bontà di mandarmi, e a misura della risposta sarai ricompensato. Avverti di custodire con ogni esattezza la gioja che or ora ti diedi. Gioja che ha fatto sospirare le prime principesse d’Europa. (parte)
Arlecchino. Gioja che faria sospirar un pover om dalla fame. (parte)
SCENA V.
Il Conte, poi Foletto lacchè.
Conte. Rosaura restò meco sdegnata, chiamandosi offesa da’ miei gelosi sospetti. Convien placarla. Finalmente conosco che la gelosia è un tormento dell’amante, e un’ingiuria all’amata. Spero con questa lettera facilitarmi il di lei perdono, e ritornare al dolce possesso della sua grazia. Lacchè.
Foletto. Illustrissimo.
Conte. Sai dove stia di casa il signor Pantalone de’ Bisognosi?
Foletto. Illustrissimo sì.
Conte. Conosci la signora Rosaura sua cognata?
Foletto. Illustrissimo sì, la conosco.
Conte. Devi andare alla di lei casa, e portarle questa mia lettera.
Foletto. Vossignoria illustrissima sarà servita.
Conte. Procura farti dar la risposta.
Foletto. Illustrissimo sì.
Conte. Con questa occasione osserva se vi è nessuno a conversazione.
Foletto. Vossignoria illustrissima lasci fare a me.
Conte. Fallo con buona maniera.
Foletto. Non abbia timore. Illustrissimo, che questo è il nostro mestiere. Si stima più un lacchè che sappia portare una lettera, che uno che sappia correr la posta. (parte)
Conte. Convien poi dire la verità, i nostri servitori italiani son tutti pieni di civiltà; qualche volta col troppo lustrarci ci burlano12, ma non importa. L’adulazione è una minestra che piace a tutti. (parte)
SCENA VI.
Milord, e poi Birif.
Milord passeggia da se solo, senza parlare, su e giù per la scena; poi tira fuori uno scrignetto di gioje, e le guarda, indi lo chiude, e chiama.
Milord. Birif.
Birif. (Viene e si cava il cappello, senza parlare.)
Milord. Prendi questi diamanti, portali a madama Rosaura: la conosci?
Birif. Sì signore.
Milord. Dille che mando te, non potendo andar io.
Birif. Sì signore.
Milord. Portami la risposta.
Birif. Sì signore. (parte)
Milord. Mille ducati, ah! Costan poco. Merita più. Si farà, si farà. (parte)
SCENA VII.
Arlecchino con un foglio in mano, avuto dal Francese, poi Don Alvaro.
Arlecchino. Stavolta pol esser che arriva a far la me fortuna: a bon cont, el Frances me vestirà, e spereria de avanzar l’abit, se l’è galantomo come i altri Franzesi, che ho cognossù. No vorave scordarme el complimento, che ho da far a siora Rosaura. El tornerò a lezer, per cazzarmelo ben in te la memoria.
(apre il foglio, e vedendo venire lo Spagnuolo, lo serra e lo ripone)
Alvaro. Galantuomo.
Arlecchino. (Guarda intorno, non credendo parli con lui) Con chi parlelo?
Alvaro. Amico, parlo con te.
Arlecchino. La ringrazio della bona opinion.
Alvaro. Dimmi, conosci donna Rosaura, cognata di D. Pantalone?
Arlecchino. Signor sì, la conosco. (Diavolo, tutti intorno a custia!) (da sè)
Alvaro. Tu avrai l’onore di presentarle in mio nome un tesoro.
Arlecchino. Un tesoro? Una bagatella! Lo presenterò; ma la se recorda che ogni premio vol la so fadiga.
Alvaro. Prendi, portale questo foglio, e sarai largamente rimunerato.
Arlecchino. Elo questo el tesoro?
Alvaro. Sì, questo è un tesoro inestimabile.
Arlecchino. Cara ela, la perdona la curiosità, coss’èlo mo sto tesoro?
Alvaro. Questo è l’albero del mio casato.
Arlecchino. (Se ne ride) (L’è un tesoro compagno della zoggia del Franzese). (da sè)
Alvaro. Lo darai a donna Rosaura, e le13 dirai così: Gran Dama, specchiatevi nei gloriosi antenati di Don Alvaro vostro sposo, e consolatevi che avrete l’onore di passare fra l’eroine spagnuole.
Arlecchino. La senta, el tesoro lo porterò, ma tutte ste parole è impossibile che mi le diga. Se la vol che me le arecorda, bisogna che la le scriva.
Alvaro. Sì, lo farò; vieni alla mia camera, e se mi porti una lieta risposta, assicurati che vi sarà un piccolo tesoretto ancora per te.
Arlecchino. No vorave che el piccolo tesoretto fusse qualche piccolo alberetto. (Ma co ste do incombenze spero de far una bona zornada). (da sè, parte con D. Alvaro)
SCENA VIII.
Camera di Rosaura, con tavolino, carta, calamaro e sedie.
Il Dottore ed Eleonora.
Dottore. Figliuola mia, il partito ch’io vi propongo delle nozze del signor Pantalone è molto avvantaggioso per voi, mentre se il signore Stefanello era ricco, suo fratello, che ha aggiunte alle proprie le facoltà ereditate, deve essere ricco al doppio.
Eleonora. Caro signor padre, per dirvi la verità, non mi dispiace altro che la sproporzione dell’età: io troppo giovine, ed egli troppo vecchio.
Dottore. La di lui età avanzata non vi ha da far ostacolo. Egli è un uomo garbato14, sano e gioviale15, e quello che più importa, vi vuol bene, e vi tratterà da regina.
Eleonora. Mentre16 credete voi che possa essere un matrimonio conveniente per me, non ricuserò di farlo, coll’unico oggetto di obbedire un vostro comando.
Dottore. Brava, la mia figliuola; voi mi consolate. Vado subito dal signor Pantalone, e prima che qualche altra idea lo frastorni, vo’ procurare d’assicurar la vostra fortuna. (parte)
SCENA IX.
Eleonora, poi Marionette.
Eleonora. È una gran lusinga quel dire sarò ricca, sarò padrona. Ma quell’esser vecchio il marito, non mi finisce. Marionette, ti ho da dar una buona nuova. Son fatta la sposa.
Marionette. Me ne rallegro infinitamente; ma, s’è lecito, chi è lo sposo?
Eleonora. Il signor Pantalone.
Marionette. E questa la chiamate una buona nuova? E ne siete allegra e contenta?
Eleonora. Perchè no? Non è egli forse un buon partito?
Marionette. Sì, per una vecchia di cinquant’anni, ma non per voi, che siete una giovanetta.
Eleonora. Anch’io pensava prima così; ma poi, in riguardo della sua ricchezza, l’esser vecchio mi pare che poco importi.
Marionette. Importa moltissimo, importa tutto. Domandatelo a vostra sorella, che cosa voglia dire una giovane maritata ad un vecchio. Se fosse lecito il dirvi tutto, ve ne farei passare la voglia. Io non son vecchia, e dei mariti ne ho avuti tre, ma se dovessi rimaritarmi, lo vorrei giovinotto di primo pelo.
Eleonora. Certamente, se lo trovassi, anch’io non direi di no.
Marionette. Per voi che siete una giovane di buon garbo, disinvolta e di spirito, vi vorrebbe per l’appunto un Francese.
Eleonora. Trovarlo un Francese, che mi volesse.
Marionette. Eh, quando non volete altro, ve lo troverò io.
Eleonora. Ma oltre l’esser giovine, lo vorrei bello e ricco.
Marionette. Di questi non ne mancano in Francia.
Eleonora. Dovrò io andare in Francia a maritarmi?
Marionette. No, mia signora, in Venezia ne capitan tutto dì. Ce ne sarebbe uno a proposito, il quale mostra essere inclinato per vostra sorella, ed essa pare che poco gli corrisponda. Potrebbe darsi che si dichiarasse per voi.
Eleonora. Se ama mia sorella, non si curerà di me.
Marionette. Eh, facilmente poi questi Parigini si cambiano. Con due sospiri lo fate cader in terra.
Eleonora. Tu me lo dipingi per incostante.
Marionette. Che importa a voi? Quando siete maritata, vi basta.
Eleonora. E l’amor del marito?
Marionette. Oh, ne sapete poco. Parliamo d’altro. Lo volete vedere questo Francese?
Eleonora. Lo vedrò volentieri.
Marionette. Lasciate condurre l’affare a me. Già vostra sorella è perduta per il geloso e non fa stima di verun altro: peggio per lei. Sarà la vostra fortuna. Un Francese! Oh che matrimonio felice!
Eleonora. Ma la parola che ho dato a mio padre di sposar il signor Pantalone?
Marionette. Ditegli che avete cambiata opinione.
Eleonora. Mi chiamerà volubile.
Marionette. Scusatevi con dir: son donna.
Eleonora. Mi sgriderà.
Marionette. Lasciatelo dire.
Eleonora. Minaccerà.
Marionette. Non vi spaventate.
Eleonora. Vorrà obbligarmi per forza.
Marionette. La festa non si può fare senza di voi, battete sodo.
Eleonora. Ho paura di non resistere.
Marionette. Lo dirò a vostra sorella; tutte due vi assisteremo.
Eleonora. Cara Marionette, mi raccomando.
SCENA X.
Rosaura e dette.
Marionette. Venite, signora Rosaura, venite in soccorso della vostra cara sorella. Suo padre la vorrebbe dare in isposa al signor Pantalone, vostro cognato; ella apprende ciò per una disgrazia, ma non ha coraggio di opporsi ai comandi del genitore.
Eleonora. Cara Rosaura, mi raccomando a voi.
Rosaura. Non dubitate; vi amo di cuore, nè voglio17abbandonarvi ad una sicura disperazione. Il signor Pantalone me ne ha parlato; e quantunque mio padre gli abbia date buone speranze, io ho posta in campo la libertà che vi si conviene nella elezion dello stato, della quale mi sono io dichiarata garante a fronte di tutto il mondo.
Eleonora. Quanto vi devo! Giuro che il vostro amore per me non è inferiore a quello di madre.
Rosaura. Ritiratevi nella vostra stanza.
Eleonora. Se mio padre viene a sollecitarmi, che cosa mi consigliate ch’io gli risponda?
Rosaura. Ditegli che in questo non potete risolvere senza di me.
Eleonora. Mi dirà che è padre.
Rosaura. Rispondetegli che io son quella che vi dà la dote.
Eleonora. Questa risposta gliela darò col maggior piacere del mondo. (Marionette, ricordati del Francese). (piano a Marionette, e parte)
SCENA XI.
Rosaura e Marionette.
Marionette. Certamente una madre non farebbe tanto per la signora Eleonora, quanto esibite di far voi.
Rosaura. L’amo teneramente. Ella è sempre stata meco, e in premio della sua rassegnazione procuro di renderla, per quanto posso, felice.
Marionette. V’è in sala qualcuno che chiama. Permettetemi ch’io vada a vedere chi è. (parte)
SCENA XII.
Rosaura, poi Marionette, poi Arlecchino vestito alla francese.
Rosaura. È troppo barbara quella legge, che vuol disporre del cuor delle donne a costo della loro rovina.
Marionette. Signora, vi è un cameriere di monsieur le Blau, che desidera farvi un’ambasciata.
Rosaura. Fa che passi.
Marionette. Sapete per altro chi è costui? E il cameriere della locanda, è Arlecchino, il quale dal Cavaliere francese è stato fatto suo cameriere. (parte)
Rosaura. Il Francese va replicando gli assalti; ma io, prima di cedere, farò buon uso di tutte le mie difese.
Marionette. Venite, venite, signor cameriere francese.
Arlecchino. Viene facendo molti inchini caricati a Rosaura.)
Rosaura. Bravo, bravo, non ti affaticar davvantaggio. Parla, se hai qualche cosa da dirmi per parte del tuo padrone.
Arlecchino. Madama, per parte del mio padrone devo presentarvi una zoggia18. (parla con linguaggio alterato)
Rosaura. A me una gioja?
Arlecchino. A voi, madeuna, ma prima di darla o, per dir meglio, di presentarla, devo farvi un complimento, del qual ve assicuro che no me arecordo una parola.
Marionette. Arlecchino, fai torto al tuo spirito.
Rosaura. Se non te lo ricordi, sarà difficile che io lo senta.
Arlecchino. L’arte dell’omo suplisse alle avventure del caso. (Belle parole!) Ecco il gran complimento, registrato nel candido deposito di questa carta.
Rosaura. Bravo!
Marionette. Evviva.
Arlecchino. Ecco il foglio. Leggetelo voi, poichè, per confidarvi l’arcano, io non so nè lezer, nè scriver. (presenta il foglio a Rosaura)
Rosaura. Sentiamo, Marionette, che belle e galanti cose sa dire il nostro Francese. (legge) Madama, la poca memoria del nuovo mio servitore mi obbliga ad accompagnare con queste righe un pegno della mia stima, che a voi addrizzo. Degnatevi d’aggradirlo, e assicuratevi ch’ei viene a voi accompagnato da tutto il mio cuore.
Marionette. Che bello stile francese!
Rosaura. Ebbene, qual è la cosa che mi devi tu presentare?
Arlecchino. Una zoggia preziosa: una zoggia francese. Eccola. (le dà il ritratto)
Rosaura. È questa la gioja?
Marionette. Vi par poco? Il ritratto di un Parigino?
Rosaura. È qualcosa di particolare.
Arlecchino. Madama, vi prego della risposta, dalla qual dipende la consolazion del padron e l’interesse del servitor.
Rosaura. Volentieri19. Attendimi, che ora in un momento sono da te. (va al tavolino a scrivere)
Marionette. Caro Arlecchino, qual nume tutelare ti ha provveduto di questa buona fortuna?
Arlecchino. Za che la sorte me va beneficando sul gusto franzese, vago sperando de poderme infranzesar colla grazia de Marionette.
Marionette. Se coltiverai questo ottimo gusto, credimi, farò qualche conto di te.
Arlecchino. Vedo adesso che gh’ho della bona disposizion, e se non ho fatto fin adesso la mia figura, è sta causa, no so se diga el fato, la sorte, la fortuna o il destino.
Marionette. Grazioso, grazioso!
Rosaura. Prendi, ecco la breve risposta che dovrai recare a monsieur le Blau. Non essendo una lettera, non la chiudo e non le fo la soprascritta.
Arlecchino. Sarala una risposta consolatoria?
Rosaura. Mi par di sì.
Arlecchino. Posso sperar l’effetto delle belle promesse?
Rosaura. Ciò dipende dalla generosità di chi ti ha mandato.
Arlecchino. Madama, con tutto il core. (con varie riverenze)
Marionette. Troppo confidente.
Arlecchino. Con tutto lo spirito. (facendo riverenze)
Marionette. Troppo elegante.
Arlecchino. Con tutta confidenza. Bon zorno a V. S. (parte)
SCENA XIII.
Rosaura e Marionette.
Marionette. Credetemi, che lo spirito di costui mi piace infinitamente.
Rosaura. È un servitore grazioso.
Marionette. Quando l’ha preso un Francese, non può essere senza spirito.
Rosaura. Sappi, Marionette, che il signor Pantalone si è disgustato meco, per aver io parlato contro alle nozze di mia sorella. Quasi quasi pareva mi volesse licenziare di casa sua; ed io sono disposta a prevenire il di lui congedo.
Marionette. A voi non mancheranno case.
Rosaura. Sì, ma una vedova sola non istà bene.
Marionette. Conducete con voi la sorella.
Rosaura. Ella ancora ha bisogno d’essere custodita.
Marionette. Andate in casa di vostro padre.
Rosaura. Avrei troppa soggezione.
Marionette. Maritatevi.
Rosaura. Questo sarebbe il partito migliore.
Marionette. Dunque, perchè lo differite?
Rosaura. Son confusa fra quattro amanti.
Marionette. Sceglietene uno.
Rosaura. Temo ingannarmi.
Marionette. Attaccatevi al Francese, e non fallirete20.
Rosaura. Ed io lo credo peggio degli altri.
Marionette. Se non lo volete voi, lasciatelo prendere a vostra sorella.
Rosaura. Ci penserò.
Marionette. Osservate un lacchè, che viene dalla sala correndo.
Rosaura. Che vorrà mai? Fallo passare.
Marionette. Un lacchè non ha bisogno che gli si dica21, Sono sfacciati di natura.
SCENA XIV.
Foletto lacchè, e dette.
Foletto. Servo umilissimo di Vossignoria Illustrissima.
Rosaura. Chi sei?
Foletto. Sono Foletto, lacchè dell’illustrissimo signor Conte di Bosco Nero, ai comandi di V. S. Illustrissima.
Marionette. Lo volevo dire ch’era servitore di un Italiano. In Italia non vi è carestia di titoli superlativi.
Rosaura. Che dice il Conte tuo padrone?
Foletto. L’illustrissimo signor Conte, mio padrone, manda questa lettera all’illustrissima signora Rosaura, mia signora. (le dà la lettera)
Rosaura. (Legge piano.)
Marionette. Amico, siete stato a Parigi?
Foletto. Padrona no.
Marionette. Saprete poco servire.
Foletto. Perchè?
Marionette. Perchè la vera scuola si trova solamente colà.
Foletto. Eppure, benchè non sia stato a Parigi, so anch’io una certa moda molto comoda per i servitori, e la metterò in pratica, se volete.
Marionette. E qual è questa moda?
Foletto. Che quando il padrone fa all’amore colla padrona, il lacchè fa lo stesso colla cameriera.
Marionette. Oh, la sai lunga davvero!
Rosaura. Ho inteso: dirai al tuo padrone...
Foletto. Ma per amor del cielo, mi onori, illustrissima padrona, della risposta in carta; altrimenti...
Marionette. Non si busca la mancia, non è vero?
Foletto. Per l’appunto. Chi è del mestiere, lo sa.
Marionette. Che ti venga la rabbia, lacchè del diavolo.
Rosaura. Ora vado a formar la risposta. (va al tavolino)
Foletto. Francesina, come state d’innamorati?
Marionette. Eh, così così.
Foletto. La notte si calano prosciutti dalla finestra?
Marionette. Oh, io non sono di quelle.
Foletto. Già me l’immagino. Ma pure, se ci venissi io, vi sarebbe niente?
Marionette. Chi sa?
Foletto. Stassera mi provo.
Marionette. Eh birbone! Sa il cielo quante ne hai!
Foletto. Certo che col salario non potrei scialare, se non avessi quattro serve che mi mantenessero.
Marionette. Alla larga.
Foletto. Via via, sarete la quinta.
Rosaura. Eccoti la risposta.
Foletto. Grazie a Vossignoria Illustrissima. Ma volevo dir io, illustrissima padrona, vi è nulla per il giovane?
Rosaura. Sì, prendi. (gli dà la mancia)
Foletto. Obbligatissimo a V. S. Illustrissima; e viva mill’anni V. S. Illustrissima. Francesina, a rivederci stassera. (parte correndo)
SCENA XV.
Rosaura, Marionette, poi Birif.
Marionette. (Sì, vieni, che stai fresco).
Rosaura. Eppure, dal modo di scrivere del Conte, conosco ch’egli mi ama davvero.
Marionette. Dovreste meglio capirlo dal regalo fattovi da monsieur le Blau; egli, mandandovi il suo ritratto, mostra il desiderio che ha di star sempre con voi.
Rosaura. Non mi piace quell’espressione di mandarmelo come una gioja.
Marionette. Via via, v’ho capito. Avete per il Conte il cuore già dichiarato. Buon pro’ vi faccia.
Rosaura. Credimi, ch’io sono tuttavia indifferente.
Marionette. Poter del mondo! Ecco un’altra ambasciata. Questa è una gran giornata per voi.
Rosaura. Costui chi sarà?
Marionette. Non lo ravvisate? Un servitore inglese.
Rosaura. Sarà il cameriere di Milord.
Marionette. Passate. (verso la porta)
Birif. Madana. (fa una riverenza)
Marionette. (Oh, ecco la serietà). (da sè)
Rosaura. Che bramate, galantuomo?
Birif. Milord Runebif manda me, perchè non può venir egli.
Rosaura. Bene, e così?
Birif. Manda questa bagattella. (le dà le gioje)
Rosaura. Oh che bella cosa! Osserva, Marionette, che magnifiche gioje!
Marionette. (Quest’è ben altro che la lettera amorosa!)
Rosaura. (E che il ritratto!) Ha detto nulla? (a Birif)
Birif. No, madama.
Rosaura. Ringraziatelo.
Birif. Madama. (fa una riverenza, e vuol partire)
Rosaura. Prendete. (gli vuol dar la mancia)
Birif. Maraviglio22, madama. (non la vuole e parte)
SCENA XVI.
Rosaura e Marionette, poi Arlecchino vestito da servitore spagnuolo.
Marionette. Non ha fatto così l’Italiano, no.
Rosaura. E non l’avrebbe fatto nemmeno il Francese.
Marionette. Ma quest’Inglese dice davvero. Spende alla generosa e tratta da principe. Bisogna dir che sia molto ricco.
Rosaura. E quanto ricco, altrettanto generoso. E questo mantellone chi diamine è23?
Marionette. Oh! questi è Arlecchino, vestito da servitore spagnuolo.
Rosaura. Che mutazione è questa?
Marionette. Qualche bizzarria del suo vago cervello.
Arlecchino. Guardi il Cielo molti anni donna Rosaura. (si cava il cappello)
Rosaura. Che scene son queste? Quante figure pretendi di fare? Chi ti manda?
Arlecchino. Don Alvaro di Castiglia, mio signore. (si cava il cappello)
Rosaura. E che ti ha ordinato di dirmi?
Arlecchino. Manda a donna Rosaura un tesoro. (come sopra)
Marionette. Canchero! un tesoro? Gli sarà venuto dall’Indie.
Rosaura. E in che consiste questo tesoro?
Arlecchino. Ecco. (si cava il cappello) Chinate il capo. Questo è l’albero della casa di don Alvaro, mio signore, fa un inchino)
Marionette. Oh che prezioso tesoro!
Rosaura. Eh, non è cosa da disprezzarsi, (lo prende) Ha detto altro?
Arlecchino. Ha detto, ma tanto ha detto, che mai e poi mai me lo sarei ricordato, se prudentemente in questa carta non non me lo avesse scritto. (dà un foglio a Rosaura)
Rosaura. Ora ti porterò la risposta. (va al tavolino)
Marionette. Ma dimmi un poco, che pazzia è questa di mutarti d’abito?
Arlecchino. Rispetto e gravità.
Marionette. Che! Sei già entrato in superbia?
Rosaura. Eccoti la risposta.
Arlecchino. Servo di donna Rosaura. (si cava il cappello, e se lo rimette)
Rosaura. Buon giorno.
Arlecchino. Addio, Marionette. (parte con gravità)
SCENA XVII.
Rosaura e Marionette.
Marionette. Oh che figura ridicola! Se abbandona la grazia francese, ha perduto il merito.
Rosaura. Vuoi che ti dica che costui si porta molto bene, e che si sa perfettamente trasformare in tutti i caratteri?
Marionette. Signora padrona, i vostri quattro amanti vi hanno regalata. Chi di essi vi pare che sia più meritevole della vostra gratitudine? Già m’aspetto sentirvi dire gl’Inglese: quelle gioje sono assai belle.
Rosaura. No, Marionette, nemmen per questo lo preferisco agli altri. La pace e l’amore non si comprano con simil prezzo. E poi Milord non vuol moglie.
Marionette. Dunque mi do a credere non avrete difficoltà a decidere che abbia ad essere preferito quello del ritratto.
Rosaura. Nemmeno. Quei finti colori non mi possono assicurare della sua fedeltà.
Marionette. Fareste caso forse di quel bell’albero?
Rosaura. Non so disprezzare una nobiltà sì cospicua; ma ella non basta per porre in quiete il mio spirito.
Marionette. Eh già, lo so. La lettera del geloso avrà il primo luogo.
Rosaura. Marionette, t’inganni. So anch’io che un amante, per giustificarsi colla sua cara, sa fingere e inventare.
Marionette. Dunque non ne aggradite nessuno?
Rosaura. Anzi tutti.
Marionette. Ma tutti non li potete sposare.
Rosaura. Uno ne sceglierò.
Marionette. E quale?
Rosaura. Ci penserò. E credimi che nel risolvere non mi consiglierò col cuore, ma con la mente. Non cercherò la bellezza, ma l’amore e la fedeltà. Son vedova, conosco il mondo; e so distinguere che, per scegliere un amante, serve aprire un sol occhio, ma per scegliere un marito, conviene aprirli ben tutti due, e se non basta, aggiungervi anche il microscopio della prudenza. (parte)
Marionette. E poi farà come il solito di noi altre donne, si attaccherà al suo peggio. (parte)
SCENA XVIII.
Strada.
Milord e il Conte.
Conte. Milord, quant’è che non siete stato da madama Rosaura?
Milord. (Passeggia e non risponde.)
Conte. Veramente è una donna di grande spirito. Merita le attenzioni dei personaggi più riguardevoli. Voi avete fatto un’ottima scelta. Confesso che avevo per lei qualche poco d’inclinazione, ma dopo che ho veduto che vi siete per lei dichiarato, ho pensato di ritirarmi. (Ei non vuol parlare; non posso scoprir nulla). (da sè) Questa sarebbe l’ora opportuna di farle una visita. Quando io ci andavo, non perdevo questi preziosi momenti. Ma che diavolo! Siete mutolo? Non parlate? Che temperamento è il vostro? Da questa vostra serietà non capisco se siate allegro o malinconico.
Milord. Questo è quello che non capirete mai.
Conte. Lode al cielo, che avete parlato. Approvo molto il vostro costume; questa credo possa dirsi la più fina politica; ma noi altri Italiani non abbiamo l’abilità di praticarla. Parliamo troppo.
SCENA XIX.
Birif dalla parte di Milord, Foletto dalla parte del Conte, e detti.
Birif. Signore.
Foletto. Illustrissimo. (Il Conte fa24 cenno a Foletto che non parli, ed egli gli dà la lettera)
Milord. Facesti? (a Birif)
Birif. Sì signore. (a Milord)
Milord. Aggradì? (a Birif)
Birif. Ringrazia. (a Milord)
Milord. Non occorr’altro. (gli dà un borsellino con denari; Foletto osserva)
Birif. (Fa una riverenza e parte.)
Conte. (Fa cenno a Foletto, che se ne vada. Egli stende la mano per la mancia. Il Conte lo scaccia.)
Foletto. (Bella Italia! Ma cattivo servire!) (parte)
Conte. (Colui ha portato una risposta al Milord: dubito sia qualche ambasciata di Rosaura). (da sè) Amico, mi rallegro con voi. Ma! Così va a chi è fortunato. Le donne corrono dietro. Le ambasciate volano. Madama Rosaura...
Milord. Siete un pazzo. parte)
Conte. A me pazzo, viva il cielo! Si pentirà d’avermi ingiuriato. Risponderà all’invito della mia spada... Ma che dice la mia cara Rosaura? Mi consola o mi uccide? Leggiamo, qualunque sia, la sentenza dell’idol mio. (legge piano) Oh me felice! Oh cara Rosaura! Oh caratteri, che mi rendete la pace al cuore! E fia vero che io sia degno dell’amor tuo, unico mio tesoro? Posso dunque sperar pietà? M’incoraggisci ad amarti, a serbarti fede? Sì, lo farò, mia cara. Sì, lo farò, non temere. Milord, no, non ti temo; ben dicesti ch’io era pazzo a crederti amato, a temerti rivale. Io sono al possesso del di lei cuore. Rosaura sarà mia; lo bramo, lo spero, e questo foglio quasi quasi me ne assicura. (parte)
SCENA XX.
Don Alvaro passeggiando, poi Arlecchino vestito alla spagnuola.
Alvaro. O Rosaura sa poco le convenienze, o Arlecchino è un pessimo servitore. Farmi aspettare sì lungamente, è una cosa troppo indiscreta; non la soffrirei per un milione di doppie. Se viene colui, gli voglio dare cento bastonate. Così non si tratta co’ cavalieri miei pari... Ma... forse... l’esame de’ miei antenati la terrà occupata. Sono ventiquattro generazioni. Principia da un re. Tanti principi vi sono, tutti osservabili. E compatibile questa tardanza.
Arlecchino. Cavaliere. (non veduto da Don Alvaro, che passeggia)
Alvaro. Che rechi?
Arlecchino. Viva il Re nostro signore. (si cava il cappello ed anco Don Alvaro) Donna Rosaura vi vuol gran bene.
Alvaro. Lo so. Che ha detto del mio grand’albero?
Arlecchino. L’ha baciato e ribaciato più volte. Inarcava le ciglia, stringeva i denti per meraviglia.
Alvaro. Le hai fatto puntualmente il complimento?
Arlecchino. A tutta perfezione.
Alvaro. Che ha risposto?
Arlecchino. Ecco i venerandi caratteri di donna Rosaura. (si cava il cappello e gli dà un foglio)
Alvaro. Mio cuore, preparati alle dolcezze. (legge) Accetto con sommo aggradimento il ritratto che vi siete degnato mandarmi... Che dice di ritratto? (ad Arlecchino)
Arlecchino. (Oh poveretto mi! l’ho fatta. Invece de darghe la risposta che andava a lu, gh’ho dà quella del Franzese. Ma niente, spirito e franchezza, e ghe remedierò).
Alvaro. Ebbene, non rispondi?
Arlecchino. L’albero della vostra casa è il ritratto della vostra grandezza.
Alvaro. Così l’intendevo ancor io Per la stima ch’io faccio dell’originale. E l’originale come c’entra? (ad Arlecchino)
Arlecchino. Ditemi un poco. Chi è il primo in quell’albero?
Alvaro. Un re di Castiglia.
Arlecchino. Vedete la furberia della donna! la superbia del sesso! Fa stima di quel re, che è l’origine o sia l’originale della vostra casa.
Alvaro. Così l’intendeva ancor io. Il mio non ve lo posso mandare, perchè non l’ho.
Arlecchino. Ella non ha albero. Vedete bene.
Alvaro. L’intendo ancor io. Tanto stimo questa gioja preziosa... Gioja preziosa? (ad Arlecchino)
Arlecchino. Vuol dir un tesoro, che è l’albero.
Alvaro. L’intendo ancor io. Che lo voglio far legare in un cerchio d’oro. Oh diavolo! In un cerchio d’oro il mio albero?
Arlecchino. Vuol dire in una cornice dorata.
Alvaro. Così l’intendeva ancor io. E portarlo attaccato al petto. Un quadro di quella grandezza attaccato al petto?
Arlecchino. Eh, non l’intendete? è frase poetica. Lo porterà sempre nel cuore.
Alvaro. Per l’appunto così l’intendevo ancor io. Addio. (vuol partire)
Arlecchino. Cavaliere.
Alvaro. Che vuoi?
Arlecchino. Come state di memoria?
Alvaro. Che temeraria domanda!
Arlecchino. I cavalieri che promettono, mantengono la parola.
Alvaro. Hai ragione; non me ne ricordava. Mi hai servito bene, devo ricompensarti. Tu hai portato un tesoro a donna Rosaura; ecco un tesoretto anche per te. (gli dà un foglio piegato)
Arlecchino. Che è questo?
Alvaro. Questa è una patente di mio servitore. (parte)
Arlecchino. Ah maledettissimo! A mi sto tesoretto? Cussì se burla i poveri galantomeni? Ma me vôi vendicar. Certo, certo qualche vendetta vôi far. Ma l’è qua el Francese; presto presto, che noi me veda; che se el Spagnol m’ha burlado, questo fursi me refferà. (parte)
SCENA XXI.
Monsieur le Blau guardandosi in uno specchietto, poi Arlecchino vestito alla francese.
Monsieur. Eppure questa parrucca non mi pare accomodata a dovere. Questo riccio non vuol riposarsi bene sopra quest’altro. La parte dritta mi sembra un taglio di temperino più lunga della sinistra. Ah, converrà ch’io dia il congedo al mio parrucchiere, e ne faccia venir uno di Parigi. Qui non sanno pettinare una parrucca. E questi calzolai non si possono soffrire. Hanno il vizio di fare le scarpe larghe, e non sanno che non è ben calzato, chi non si sente stroppiare. Ah gran Parigi! gran Parigi! (Arlecchino fa molte riverenze ed inchini caricati a Monsieur Monsieur). Bravo, bravo; ti porti bene. Sei stato da Madama?
Arlecchino. Sono stato. Ah, non ci fossi stato!
Monsieur. Perchè di’ tu questo?
Arlecchino. Che bellezza! Che grazia! Che occhi! Che naso! Che bocca! Che senato! (con affettazione)
Monsieur. (Costui pare sia stato a Parigi. Questo è il difetto de’ nostri servitori. S’innamorano anch’essi delle nostre belle). (da sè) Presentasti il ritratto?
Arlecchino. Lo presentai; ed essa lo strinse teneramente al seno.
Monsieur. Ah taci, che mi fai liquefar di dolcezza.
Arlecchino. Non si saziava di mirarlo e baciarlo.
Monsieur. Oh cara! Le recitasti il mio complimento?
Arlecchino. Lo recitai, accompagnato da qualche lagrima.
Monsieur. Bravo, Arlecchino; l’ho detto che sei nato a posta. (lo bacia)
Arlecchino. Ah signore, consolatevi. Ella... oh cielo!
Monsieur. Che fece, caro Arlecchino, che fece?
Arlecchino. Sentendo quelle belle parole, si svenne25.
Monsieur. Tu mi arricchisci, tu mi beatifichi, tu m’innalzi al Trono della felicità. Ma, dimmi, ti diè la risposta?
Arlecchino. (Diavolo! Adess che penso, l’ho dada a quell’altro! ) (da sè) Me l’ha data... ma...
Monsieur. Che ma?
Arlecchino. L’ho persa.
Monsieur. Ah indegno, scellerato che sei! Perdere una cosa così preziosa? Giuro al cielo, non so chi mi tenga che non ti passi il petto con questa spada. (cava la spada)
Arlecchino. L’ho trovada, l’ho trovada. (Più tosto che farme ammazzar, ghe darò quella del Spagnolo), (da sè) Tegnì, eccola qua.
Monsieur. Ah caro il mio Arlecchino, refrigerio delle mie pene, araldo de’ miei contenti! (l’abbraccia)
Arlecchino. (Adesso el me abbrazza, e prima el me voleva sbudelar). (da sè)
Monsieur. Oh carta adorata, che rinchiudi il balsamo delle mie piaghe! Nell’aprirti mi sento strugger il cuore dal contento. Leggiamo. Ammiro sommamente il magnifico albero della vostra casa. Come! l’albero della mia casa? (ad Arlecchino)
Arlecchino. (Ecco la solita istoria). (da sè) Non la capite?
Monsieur. Io no.
Arlecchino. Ve la spiegherò mi. Voi non siete unico di vostra casa?
Monsieur. Sì.
Arlecchino. Non dovete voi ammogliarvi?
Monsieur. Bene.
Arlecchino. Il matrimonio non rende i frutti?
Monsieur. Sicuro.
Arlecchino. Quello che fa i frutti non si dice albero?
Monsieur. Egli è vero.
Arlecchino. Dunque voi siete l’albero di vostra casa.
Monsieur. E madama Rosaura è così sottile?
Arlecchino. Anca de più.
Monsieur. Che donna di spirito! Ed ho veduto che voi traete l’origine da principi e da monarchi. E questo come e entra?
Arlecchino. Eppure voi altri Francesi siete acuti, e non la capite?
Monsieur. Confesso il vero, non l’intendo.
Arlecchino. Guardando el vostro ritratto, vede quella bella idea, quell’idea nobile e grande, e vi crede di razza de’ principi e de’ monarchi.
Monsieur. Sei un grand’uomo, (lo bacia) Avanti. Se avrò l’onore di esser ammessa fra tante eroine... Quali sono queste eroine?
Arlecchino. Quelle che vi amano.
Monsieur. Dici bene, e son molte. Sarà nobilitato anche l’albero della mia casa. E questo che vuol dire?
Arlecchino. Allora sarà nobile lei ed anche il vecchio suo padre, che è l’albero della sua casa.
Monsieur. Evviva il grande Arlecchino! Meriti una recognizione senza misura.
Arlecchino. (Oh, manco mal!) )da sè)
Monsieur. Vo pensando che posso darti, per un’opera così bene eseguita.
Arlecchino. Un Inglese per una cosa simile m’ha dà una borsa.
Monsieur. Una borsa? È poco. Non avrai fatto per lui quello che hai fatto per me. Meriti un premio illimitato, una recognizione estraordinaria. Ma ecco ch’io già m’accingo a premiarti in una maniera corrispondente al tuo gran merito. Eccoti un pezzo di questa carta, ch’è la gioja più preziosa di questo mondo. (gli dà un pezzo di carta di Rosaura, e parte)
SCENA XXII.
Arlecchino, poi Marionette, ch’esce di casa.
Arlecchino. (Resta attonito colla carta in mano, guardando dietro a Monsieur).
Marionette. Monsieur Arlecchino, che fate voi?
Arlecchino. Stava pensando alla generosità d’un Francese.
Marionette. Di monsieur le Blau?
Arlecchino. Giusto de quello.
Marionette. Vi ha forse regalato?
Arlecchino. E come!
Marionette. Sentite, voi che volete essere un servitor parigino, imparate le buone usanze di quel paese. Quando il servitor dell’amante guadagna qualche mancia, deve farne parte colla cameriera della sua bella. Perchè poi la cameriera è quella che fa che le cose passino bene, e che tutti godano.
Arlecchino. Evviva Marionette, meriti una recognizione senza misura.
Marionette. Certo ch’io ho molto giovato al tuo padrone.
Arlecchino. Vo pensando che posso darti, per un’opera così bene eseguita.
Marionette. Dieci scudi non pagherebbono26 i buoni uffici che ho fatti per lui.
Arlecchino. Dieci scudi? Meriti un premio illimitato, una recognizione estraordinaria. Ma ecco, ecco ch’io già m’accingo a premiarti in una maniera corrispondente al tuo gran merito. Para la mano. Eccoti un pezzo di questa carta, ch’è la cosa più preziosa di questo mondo. (straccia un pezzo di foglio, glielo dà, e parte)
SCENA XXIII.
Marionette sola.
Ah Italianaccio senza creanza! Mi pareva impossibile che fosti capace di sentimenti men che plebei. A me un pezzo di carta? A me uno scherzo di questa sorta? Marionette burlata e derisa? Se non mi vendico, non son chi sono. E sai chi sono? Son Marionette, son figlia della cameriera della balia del Re. Son donna, e le donne sanno l’arte di pretendere e di comandare. E se pretenderò e se comanderò che tu sia bastonato, mille amatori della mia grazia faranno a gara per vendicare il decoro della nazione ed il disprezzo della mia condizione. (parte)
Fine dell’Atto Secondo.
Note
- ↑ Bettin., Paper, ecc.: Lo vedo.
- ↑ Bettin.: appo noi; Paper, ecc.: appresso noi.
- ↑ Bettin., Paper, ecc. hanno solo: del Quare. - Il Quare, inglese, sulla fine del Seicento, si sa che perfezionò l’orologio a ripetizione.
- ↑ Bettin., Paper, ecc.: in fondo la.
- ↑ Bett., Paper, ecc.: tenghiate.
- ↑ Bettin.: lei.
- ↑ Bettin., Paper, ecc. aggiungono: del cognato.
- ↑ Bettin., Paper, ecc.: ove non puoi far spiccare.
- ↑ Bett., Pap. ecc.: in saver.
- ↑ Acciarino.
- ↑ Bettin.: Tu devi dire.
- ↑ Betin., Paper., Sav. ecc.: minchionano.
- ↑ Bettin.: gli.
- ↑ Betin.: polito.
- ↑ Bettin., Paper., Sav. ecc.: giojate.
- ↑ Bettin.: Quando.
- ↑ Bettin.: vi amo troppo per.
- ↑ Bettin. qui e dopo: zoja.
- ↑ Nelle edd. Bettin., Paper., Savioli ecc.: Volentieri, soddisfarò l’uno e l’altro nello stesso tempo.
- ↑ Bettin.: fallarete.
- ↑ Bettin.: che se gliel’ dica
- ↑ Bettin.: Mi meraviglio.
- ↑ Si legge nelle precedenti edizioni: «Ros. E quanto ricco, altrettanto generoso. Mar. Vi dirò anche perchè gli Inglesi sono così amorosi colle Italiane e colle Francesi. Io ho servito tre anni in Inghilterra, e so che le loro donne vivono in un gran ritiro, e con una gran soggezione. Vengono qui; trovano un poco di conversazione, spenderebbero il cuore. Ros. Questa ragione non è fuor di proposito. E questo mantellone chi diamine è?»
- ↑ Così Bett., Pap. ecc.; Pasq. e Zatta: facendo.
- ↑ Bettin.: è svenuta.
- ↑ Bettin.: pagherebbero.