La tecnica della pittura/CAP. IX.
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CAPITOLO IX
I Colori principali della pittura.
Il processo detto olandese, dei più antichi, non differenzia molto da questo ricordato da Plinio. Si pongono delle lamine di piombo ravvolte a spirale e sostenute da un peduccio entro vasi di terra verniciata contenente certa quantità di aceto. I vasi posti l'uno accanto all'altro si collocano sopra uno strato di concime di poi coperti con tavole di legno, si procede ad un nuovo strato di concime e vasi e così via via sino a riempirne grandi fosse e farne ammassi alti quattro o cinque metri che non si toccano più per circa un mese.
Bentosto la temperatura si innalza per le combinazioni chimiche che si svolgono. L'aceto opera sul piombo trasformandolo in acetato di piombo, che l'acido carbonico sprigionato dal concime cambia in carbonato di piombo. Così le lamine si coprono di squame bianche e dure che si fanno cadere per mezzo della battitura, e le squame raccolte e macinate ad acqua formano la cerusa o biacca comune.
Nel processo francese, detto di Clichy, si prepara la biacca per mezzo dell'acetato neutro di piombo. Si aggiunge a questo acetato del litargirio per farne un acetato con eccesso di base. Si fa quindi arrivare nella dissoluzione d'acetato di piombo basico, una corrente d'acido carbonico, che precipita l'eccesso di base allo stato di carbonato (cerusa) lasciando libero l'acetato di piombo diventato neutro. Si aggiunge nuovo litargirio all'acetato neutro di piombo e l'operazione si riprende da capo. Con questo processo, detto anche per precipitazione, si ottiene in poco tempo gran quantità di biacca. Questa però ha minor corpo di quella ottenuta col processo olandese, pure essendo più bianca.
Il bianco di Krems o d'argento si fa col processo olandese ridotto ad operazione di laboratorio. Le lamine di piombo sono collocate su dei graticci in una camera oscura e mantenuta a 30° da un getto di vapore acqueo, mentre dei recipienti appositi sviluppano l'acido acetico e l'acido carbonico.
Il bianco di Krems o Cremintz è il migliore di tutti i bianchi in uso nella pittura ad olio.
Le operazioni tutte di questa fabbricazione che abbreviava la vita degli operai che vi attendevano, sono oggidì compiute meccanicamente da congegni appositi, e pure rimanendo inalterato il processo, nelle condizioni principali di provocare l'ossidazione del piombo e fargli assorbire l'acido carbonico, i sistemi sono diventati diversi per quante fabbriche producono il bianco di piombo, ed ogni fabbricante naturalmente tiene segreto il suo metodo.
Le cause della bianchezza essendo nella completa ossidazione del piombo, bisogna che nel bianco non vi siano particelle di metallo vivo. Il bianco in pezzi deve essere pesantissimo, di una bianchezza assoluta, cioè senza tendenze ad alcun colore e bagnandolo mostrarsi molto assorbente. Avanti d'essere mescolato coll'olio deve essere macinato tre o quattro volte ad acqua e raccolto con una spatola non di ferro, ma di corno e lasciato seccare perfettamente.
Il bianco di piombo si può dire il colore principale della pittura ad olio, perchè vi si adopera nel maggior numero di tinte. Questo colore essicca facilmente, dà corpo ed essiccabilità agli altri colori coi quali si mescola; però ingiallisce per l'azione dell'olio, e annerisce, col tempo, all'aria, e rapidamente alle emanazioni sulfuree. Non bisogna mescolarlo ai gialli di cadmio e al vermiglione che smorza e fa annerire. Alla temperatura di 100-120° si decompone sino a trasformarsi in minio.
Il bianco di piombo non è adatto per la pittura a fresco. Nella tempera si usa per le sue qualità coprenti, ma occorre verniciarlo affinchè non annerisca, come annerisce se nella tempera entrano colle contenenti sostanze acide. Per la miniatura si mescola a metà di allumina per renderlo più leggero.
La cerusa è l'infimo dei prodotti. Si deve macinare, come tutti i bianchi di piombo, in luogo, arioso essendo assai nociva la sua esalazione.
Si trova spesso in commercio il bianco di piombo mescolato con altre sostanze bianche quali il solfato di barite, il solfato di piombo, la calce, il bianco di zinco. Queste sofisticazioni si scoprono sciogliendo il bianco di piombo in piccola quantità d'acqua forte (acido nitrico allungato coll'acqua). Il bianco di piombo deve sciogliersi con effervescenza. Se vi è precipitato, questo è solfato di barite, o solfato di piombo. Filtrando il liquido ed aggiungendovi una soluzione satura di sale comune o di ossalato di ammoniaca si potrà scoprire se il bianco di piombo conteneva calce o bianco di zinco dal colore bianco del precipitato che si formerebbe.
È necessario avvertire che le sofisticazioni del bianco di piombo del quale si tratta qui, come di tutti i colori che si descrivono in seguito, bisogna rintracciarle operando sul colore secco ed in polvere, cioè avanti che esso sia mescolato a qualsiasi solvente, oppure se si tratta di colori già preparati ad olio, o per la tempera o l'acquerello, procedere dapprima ad una perfetta depurazione dai conglutinanti sino al primitivo stato secco e polveroso.
Il bianco di zinco (ossido di zinco). — Questo bianco fu pure conosciuto dagli antichi sotto il nome di lana filosofica, bianco assoluto, nil album. Si otteneva facendo fondere sino all'ebullizione dello zinco in un crogiuolo e raccogliendo i fiocchi lanugginosi, di un bellissimo bianco, che i vapori dello zinco sollevatisi nell'aria lasciano cadere. Il bianco di zinco rimase come una curiosità scientifica finchè Gustavo Morveau ebbe l'idea di utilizzarlo in sostituzione del bianco di piombo.
Ora il bianco di zinco si fabbrica in serie di storte che proiettano i vapori del metallo in apposita stanza dove vengono attraversati da una corrente di gas che li abbrucia trasformandoli in ossido di zinco. L'ossido di zincò stemperato poi in acqua, viene compresso fortemente e formato in panni che si essiccano alla stufa. Questo prodotto che non equivale il bianco di piombo per facoltà di coprire, ha però il vantaggio di potere essere adoperato tanto ad olio che a tempera. È il bianco necessario per i gialli di Cadmio ed il solfuro di mercurio (vermiglione). Resiste molto di più del bianco di piombo all'azione dell'aria e dei gas solforosi e non danneggia la salute di chi lo fabbrica, nè di chi lo adopera.
Le adulterazioni più comuni dell'ossido di zinco sono fatte con solfato di barite, amido, creta, biacca, carbonato di calce, e si rintracciano trattando il bianco di zinco con l'aceto. Se il liquido deposita un fondo bianco e pesante rivela la presenza del solfato di barite. Aggiungendo alla soluzione di bianco di zinco e aceto una soluzione di sale di due volte il volume del bianco di zinco se questo contiene della biacca e del carbonato di piombo si formerà in precipitato bianco. La calce si scopre sciogliendo il bianco di zinco nell'aceto, e aggiungendo acido ossalico e quindici volte il volume dell'ossido di zinco d'acqua pura. Il liquido deve rimanere chiaro e se vi è precipitato esso è di carbonato di calce. Con la tintura di iodio si conosce l'amido che si colora in violetto.
Il giallolino di Napoli (antimoniato di piombo). — Di questo colore antichissimo che al tempo del Cennini si diceva giallorino, non si conobbe mai la formula chimica esatta.
Secondo Thenard, Mérimée, Brunner e Lefort si ritiene fabbricato in questo modo: Si calcina portando il crogiuolo al calore rosso, una miscela di ossido di piombo ed antimonio diaforetico, sal marino ed allume. Le proporzioni diverse di queste sostanze dànno luogo a tante gradazioni di tinte quante se ne desidera; e stando alle ricette esse corrono da 24 parti di piombo, 16 d'antimonio, I di cloruro di sodio, I d'allume ad una parte d'antimonio, 2 di ossido di piombo e 4 di sal marino.
Raggiunto colla calcinazione il grado di colore che si desidera, il crogiuolo si spezza o si batte finchè n'esca la massa colorata di un bel giallo, di gran peso e di tessitura compatta. Sottoposto alla triturazione e lavatura ad acqua infine si modella in trocischi che si essiccano alla stufa.
In commercio si trova spesso impuro. Quando è fabbricato bene il giallolino di Napoli è compatto, molto coprente e dei più solidi che abbia la pittura. Si può adoperare ad olio, a tempera, ed a fresco, ma bisogna evitare di mescolarlo con spatole di ferro o di acciaio che lo rendono verdognolo. Non sono noti mezzi per conoscerne la purezza. Il giallolino di Napoli è poco venefico.
Giallo Cadmio (giallo chiaro, medio e scuro di cadmio; solfuro di cadmio). — Il giallo di cadmio è un colore di data recente, cioè dalla scoperta del cadmio, metallo che per la prima volta fu osservato nel 1818 da Hermann di Magdeburgo esaminando un precipitato giallo risultato dal trattamento di solfato di zinco coll'idrogeno solforato. Strameyer ritornando con maggiore cura sulle osservazioni di Hermann in alcune galene di zinco di Boemia, verificò trattarsi di un metallo sino allora sconosciuto e gli diede il nome di cadmio.
Il cadmio si ricava principalmente dai prodotti di sublimazione dello zinco, ha il colore e lo splendore dello stagno, la sua frattura è fibrosa. ed è suscettibile di cristallizzare in ottaedri regolari. Presenta alla superficie l'apparenza di foglie di felce come l'antimonio. È malleabile, duttile, tenace, ma meno molle dello stagno, tinge molto al tatto, fonde al disotto del calore rosso, e brucia all'aria con fiamma gialla scura trasformandosi in ossido di cadmio.
I gialli di cadmio si ottengono facendo passare una corrente d'idrogeno solforato (acido idrosolforico) attraverso una dissoluzione di un sale di cadmio. Si forma così un precipitato di un bel colore giallo tendente all'aranciato che si deposita in fondo al vaso. Lavato e raccolto su tele si espone a seccare.
Dal solfuro di cadmio si ricavano varie gradazioni di gialli dette giallo chiaro di cadmio, giallo di cadmio, giallo aranciato di cadmio od anche colla sola distinzione di chiaro, medio e scuro.
Bisogna evitare di mescolare questi gialli al bianco di piombo, adoperando invece il bianco di zinco per quanto si è già detto dell'effetto degli ossidi di piombo sui solfuri.
I gialli di cadmio si possono trovare adulterati con giallo di cromo o col cinabro rosso. Si verifica la presenza del cromato di piombo sciogliendo il giallo di cadmio in quattro volte il suo volume di acido nitrico. Dopo il deposito che si forma il liquido rimane verdastro. Se il liquido diventa rosso denota la presenza del cinabro. Quando il cadmio è puro la soluzione diventa lattiginosa e dello zolfo in certa quantità galleggia sul liquido. I gialli di cadmio sono venefici.
Ocrie gialle o terre gialle, chiare e scure. — Questi colori dimostrati esistere sulle più antiche pitture egiziane, descritti da Plinio e Vitruvio fra i colori adoperati dai Greci e dai Romani, confermati dall'uso sempre più divulgatosi, fra i più solidi della pittura, ad eccezione della terra gialla scura e di quella bruciata che si alterano facilmente, sono composti di parti argillose e marnose, qualche volta mescolate a silice, e colorati dal ferro decomposto per azione d'acque e d'acido carbonico.
Le cave d'argilla ferruginosa sono a certa profondità del suolo ed in strati molto differenti che variano dal giallo chiaro al giallo scurissimo. Le migliori qualità sono quelle untuose al tatto e facili da macinare: in tutte però occorrono ripetuti lavaggi dipendendo si può dire da questi la bontà del prodotto. Dopo le lavature la macinazione e l'abburattamento sono le sole operazioni che si fanno su- bire al prodotto naturale.
Artificiosamente le ocrie gialle di varie gradazioni si ot- tengono sciogliendo il solfato di ferro in acqua di calce o precipitando il solfato di protossido di ferro e solfato d'allumina col mezzo di soluzione allungata di carbonato di soda. La sopraossidazione successiva che si fa esponendo il colore all'azione dell'aria regola le varie tinte che si vogliono raggiungere.
Ocrie rosse. — Le ocrie rosse o terre sono pure un prodotto naturale o artificiale a seconda che si ricavano dai giacimenti naturali di alcune località o provengono dalla precipitazione degli ossidi di ferro su materie atte a fissarne il colore oppure portando ad elevata temperatura le terre gialle, così naturali che artefatte.
Bisogna scegliere questi colori più puri che sia possibile non lasciandosi illudere molto dalla intensità della tinta che può essere una qualità conferita artificiosamente con colori d'anilina.
I nomi più comuni sotto i quali gli ossidi di ferro corrono per l'arte sono, pei gialli, terra gialla di Siena chiara e scura, terra gialla di Siena naturale e bruciata, terra gialla d'Italia, giallo di Marte e simili. Per i rossi: terra rossa, terra rossa di Pozzuoli, terra rossa di Venezia, rosso d'Anversa, di Norimberga, di Prussia, rosso di Marte, ocria rossa, calcotar, rosso indiano, ecc.
Tutti questi colori, accertatane la costituzione d'ossido di ferro, si usano per tutti i processi di dipingere, ad olio, a buon fresco, a tempera ed acquerello, pastello e miniatura. Per verificarli si possono sciogliere in acido cloridrico mescolandovi dell'ammoniaca. Tutto l'ossido di ferro deve precipitare, e il liquido fatto evaporare su lamina di platino rovente non deve lasciare alcun residuo.
Le colorazioni d'anilina si scoprono mescolando il colore coll'alcool, che sciogliendo l'anilina si tingerà subito proporzionatamente all'anilina intrusa.
Il cinabro o vermiglione (solfuro di mercurio). — Questo colore ha le sue origini nella più alta antichità. Gli Egizi lo adoperavano nelle loro pitture murali, nelle decorazioni delle tombe e delle casse contenenti le mummie. In Grecia Teofrasto assicura che fu scoperto dall'ateniese Callios nell'anno 349 di Roma, e Plinio lo descrive come un colore tanto stimato e così caro di prezzo che per impedire che diventasse eccessivo si fissava dal governo.
Si trova il cinabro in natura prodotto dalla combinazione dello zolfo col mercurio, che hanno affinità grandissima fra di loro, tale anzi che il mercurio non si trova generalmente che combinato allo zolfo.
Il colore del cinabro offerto dalla natura, che dicesi cinabro minerale, è vario secondo il suo stato di aggregazione molecolare. Comunemente si rintraccia in masse combinate ad argilla ed anche a materie bituminose, ma talvolta è disposto in filoni o sparso in grani.
La fabbricazione del cinabro è delle più delicate per le difficoltà singolari che presenta l'ottenerlo bello.
Allorchè si fa cadere del mercurio in polvere fina sopra dello zolfo fuso si ottiene una materia nera conosciuta col nome di etiope minerale. Questa stessa materia scaldata in vasi chiusi si volatilizza, ed il prodotto della sublimazione è del più splendido rosso. Ma tanto la prima materia che quest'ultima, che è il cinabro, è sempre solfuro di mercurio, la gradazione del colore non essendo, secondo alcuni, che una dipendenza del grado di temperatura subito dal composto di mercurio e zolfo.
È pure da notare che con la semplice triturazione di mercurio, zolfo e potassa, prolungata a freddo, per molto tempo si ottiene il cinabro.
L'Olanda pare abbia il vanto di fabbricare un cinabro migliore degli altri. Tuttavia il più bello è quello proveniente dalla Cina.
Il cinabro, se in pezzi, si deve scegliere molto pesante, brillante, con cristalli agati lunghissimi e di un bel colore rosso vivo. Il vermiglione è in polvere.
Si usa il cinabro o vermiglione nella pittura ad olio, a tempera, ad acquerello, pastello e miniatura. C'è chi se ne vale anche per l'affresco temperandolo prima per qualche tempo nell'acqua di calce. Ma in tal modo perde molto del suo colore, pure rimanendo sempre più colorito delle terre rosse. Anche il cinabro chinese è voce che sia resistente nell'affresco, ma tutti i buoni autori esclusero sempre tale colore dalla combinazione colla calce.
Il cinabro e il vermiglione vanno soggetti a falsificazioni col minio, la terra rossa, il mattone pesto, il sangue di drago, l'orpimento, lo scarlatto. Il minio si scopre coll'acido nitrico che lo colora in bruno. L'alcool bollente si colora in rosso se vi è sangue di drago, ed a freddo pur si tinge in rosso se il tono del cinabro fu rialzato con aniline. Gettando il vermiglione sui carboni accesi, se fosse mescolato ad orpimento tramanderebbe un forte odore di aglio. Scaldato in un cucchiaio di ferro il cinabro deve volatilizzare completamente. Se vi sono residui questi si devono a materie estranee, come mattone pesto, ossido di ferro, ecc. Il cinabro ed il vermiglione sono velenosissimi.
La lacca di Robbia o garance. — Sotto il nome di lacche si comprendono molti colori il cui modo particolare di preparazione, dovuto alla inconsistenza della parte estrattiva colorante di certi vegetali, merita un cenno, fabbricandosi in modo analogo alle lacche, molte falsificazioni di colori minerali.
L'estrazione del principio colorante dai fiori, dal legno o dalle radici delle piante, si ottiene coll'ebullizione nell'acqua o la semplice macerazione delle dette parti che lo contengono. Se non che la sostanza così estratta dal vegetale non potrebbe formare che delle tinture, essendo di corpo insufficente per formare una pasta e quindi inapplicabile alla generalità dei processi di dipingere.
Per utilizzare queste sostanze estratte, di un potere colorante notevole, si uniscono ad una materia inerte, ma sostenuta, adatta a trattenere il colore ed unirsi ai comuni solventi e conglutinanti dei vari generi di pittura; ed ai colori così prodotti si dà il nome di lacche.
L'allumina o le terre argillose, come il bianco di Spagna, il bianco di Meudon, di Bougival, di Troyes e la terra di Vicenza; altre sostanze come la barite, la magnesia, il bismuto e l'amido, possono servire a dare tale corpo alla sostanza colorante estratta dai vegetali come a qualunque colore in soluzione acquosa, ma l'allumina sola si presta con sicurezza pei colori che si devono usare con solventi diversi dall'acqua pura.
Anticamente si impiegavano due mezzi per unire l'allumina alla sostanza colorante. Uno consisteva nel decomporre l'allume di rocca già mescolato al colore con una liscivia di sale tartaro o carbonato di potassa, ciò che rendeva meno bella la tinta ottenuta, l'altro imbevendo l'allumina già isolata dall'allume di rocca, col colore in soluzione nell'acqua, metodo questo che conserva tutta la sua purezza al colore, ed è quello rimasto definitivamente nella pratica.
La più resistente fra le lacche è quella di Robbia. Il Marcucci opinava che questa proprietà le venisse dal fatto che trovandosi la materia colorante nelle radici della pianta potesse concorrervi qualche sostanza minerale. La materia colorante della Robbia contiene infatti molti principii che è difficile ottenere allo stato puro, e che furono già nominati principio porpora, principio rosso e principio aranciato.
La lacca di Robbia scoperta, secondo Plinio e Vitruvio, nelle ricerche per imitare la porpora dei Greci si ricava dalla radice della pianta che è proveniente dall'Asia e si coltiva estesamente nell'Alsazia.
Nel 1829 M. Robiquet et Collin ricavarono dal trattamento della radice della Robbia, con due terzi del suo peso d'acido solforico, una sostanza nericcia contenente tutte le materie coloranti della radice, che fu detta garanzina. Da questa generalmente ricavasi la lacca del commercio con determinante quantità di allumina e di acqua in forma di precipitato che si modella in panni facendoli seccare all'ombra. ! La quantità d'allumina o creta determina le gradazioni della tinta, dal rosso cupo al rosa chiaro che si denominano lacca garance n° 1, 2, 3, ecc.
Queste lacche possono essere mescolate con lacca di legno del Brasile o di cocciniglia, o rialzate di tono con colori d'anilina. Il Vibert insegna che a quantità uguale di lacca e cristalli di soda sciolti in trenta volte lo stesso volume d'acqua si scopre la cocciniglia per la colorazione violetta che dà tale miscuglio facendolo bollire.
L'alcool rivela poi facilmente le aniline, prendendone il colore, mentre non si scioglie il colore della Robbia.
Terra verde naturale di Verona. — Si ritiene questo colore come un'argilla colorata dai solfuri di rame. Si trova in Tirolo, in Polonia, in Ungheria, nell'isola di Cipro, ma la qualità migliore è quella di Verona. La massa terrosa, d'un verde azzurrognolo, grassa al tatto, trovasi sparsa irregolarmente nelle cave. Per la sua untuosità, e il lustro che prende strofinandola, si usava dagli antichi, come il bollo armeno, per le dorature. Esposta al fuoco prende un colore rosso bruno in uso per l'arte sotto il nome di terra verde bruciata. La terra verde naturale, non ostante il suo colore poco intenso e la poca virtù di coprire, si annovera però fra i colori più solidi della pittura. È di un valore inestimabile per le preparazioni al dipinto, e fu specialmente usata dai vecchi maestri nelle carni, ed anche da sola facendosene dei chiaro-scuri. Adoperata anche nella pittura ad olio, la sua indicazione vera però è per l'affresco e la tempera. Come le terre rosse naturali, la terra verde è inoffensiva.
Malachite o verde naturale di montagna, rame carbonato verde, carbonato di rame. — Minerale prezioso, si presenta in natura ora sotto forma fibrosa, lucida come la seta e di un bel verde smeraldo, ora in stalattiti o cilindri suscettibili di bel pulimento, ed anche polverulenta e mescolata di sostanze terrose, ma più comunemente in stato reniforme, mamellonata a fascie concentriche. Si trova in Siberia, in Ungheria, in Boemia e in Sassonia.
Per la pittura si scelgono i pezzi del colore più bello, polverizzandoli e macinandoli lungamente ad acqua essendo difficile ridurli in polvere fina.
Si imita facilmente questo verde decomponendo il solfato di rame con una soluzione di carbonato di soda, per cui può essere sofisticato con questo prodotto artificiale coi tanti verdi a base di rame che si riconoscono malagevolmente perchè l'acido nitrico che sarebbe il reagente adatto per scoprire i verdi a base di rame scioglie anche la malachite colorandosi egualmente in verde. Il rame carbonato verde è velenoso.
Verde di cromo (ossido di cromo). — Il metallo cromo fu scoperto dal prof. Klaproth nel 1797 e quasi contemporaneamente da Vauquelin nel piombo di Siberia. I colori che se ne trassero sono quindi, come quelli di cadmio, affatto moderni.
Il cromo è di una tinta grigio-piombo, fragile, molto duro e di difficile fusione. Si trova in natura mescolato col quarzo in forma di ossido, per lo più di colore verdognolo, terreo. In alcuni dipartimenti della Francia trovasi pure in una specie di roccia.
Il nome di cromo (colore) fu dato da Vauquelin a questo metallo per la proprietà che ha di colorire le combinazioni in cui entra, nè si poteva farlo più appropriatamente, dal cromo ricavandosi colori gialli aranciati, rossi e verdi.
I gialli che vanno dal giallo citrino sino al giallo aranciato si ottengono combinando l'acido cromico coll'ossido di piombo, ed i rossi trattando coll'ossido di piombo il bicromato di piombo. Questi colori però non sono di grande stabilità. L'ossido di cromo o verde di cromo si ottiene da un miscuglio di bicromato di potassa e fiori di zolfo riscaldati al calor rosso, e dopo il raffreddamento, trattati con acqua calda, che dà per residuo la polvere verde di tal nome e ricchissima di colore.
Verde smeraldo (ossido di cromo idrato). — Anche con la soluzione neutra di nítrato di protossido di mercurio col bicromato di potassa scaldato sino a volatilizzazione del mercurio si ha l'ossido verde di cromo. Ma il più bello e il più solido dei verdi di cromo è l'ossido idrato o verde smeraldo descritto dal Lefort, da altri perfezionato con modi tenuti segreti, ma che tuttavia si fabbrica con esito splendido da molti industriali inglesi, francesi e tedeschi.
Potendo essere il verde di cromo e il verde smeraldo alterati dalla presenza di ossidi di piombo e di zinco, dall'azzurro di Berlino e dalle varie combinazioni azzurre del rame, si può verificarne la purezza facendoli bollire nell'acido nitrico, che aggiuntovi acqua e filtrato dovrà restare incolore.
Il verde di cromo ed il verde smeraldo si adoperano utilmente in tutti i vari processi di pittura. Questi colori sono molto venefici.
Verde di cobalto o verde di zinco (ossido di zinco ed ossido di cobalto). — La preparazione di questo colore, del quale si dànno dai vari autori molte ricette (in proporzioni così opposte da doversi credere risultanti o dai soliti errori di stampa sempre ricopiati, o da sane invenzioni), si può riassumere nella miscela dell'ossido di zinco e dell' ossido di cobalto portati colla calcinazione ad elevatissima temperatura.
Questo verde è dei più solidi, molto coprente e serve per tutti i generi di pittura. Quando è puro sciogliesi interamente nella soluzione allungata d'acido nitrico e acqua, che si colora in roseo. Delle materie estranee farebbero sedimento.
Il verde di cobalto è venefico.
Azzurro di cobalto, Bleu di cobalto (alluminato di cobalto). — Pare che il cobalto o almeno l'ossido di cobalto fosse conosciuto nella più alta antichità, poichè le vernici e incrostazioni vetrose dei vasi antichi egiziani contengono l'ossido di cobalto. In Europa si cominciò nel secolo XV a impiegare il cobalto per la fabbricazione dei vetri azzurri e nelle pitture sul vetro. Il cobalto allo stato metallico fu ottenuto per la prima volta da Brandt nel 1733.
Il cobalto è un metallo di colore grigio ferro, tendente al rosso: fonde difficilmente allo stato puro, ed è magnetico. Calcinato si trasforma in una polvere nera che unita alle materie vetrificabili forma lo smalto azzurro.
In natura il cobalto è mescolato all'arsenico, al nikel, al ferro. Si trova nel paese di Gotha, nell'Hasse ed in Norvegia.
L'azzurro di cobalto si ottiene facendo precipitare per mezzo del carbonato di potassa una soluzione di solfato di allumina e un sale di cobalto. Il precipitato della potassa, calcinato, produce il bellissimo e solido colore azzurro che può sostituire l'oltremare più fino, salvo una tendenza marcata al violetto.
Le sofisticazioni con altri colori azzurri sono moltissime, ma l'alluminato di cobalto puro rimane inalterato in una soluzione d'acido nitrico. Questo colore è velenoso.
L'oltremare, oltremare artificiale, oltremare Guimet (salfuro di sodio e silicato d'allumina). — La scoperta dell'oltremare artificiale ha posto l'azzurro di lapislazzuli, in breve volgere di anni, fra le memorie archeologiche della pittura. Il prezzo di cinque o seimila lire al chilogramma al quale ascese talvolta il prezioso minerale, spiegherebbe da solo l'entusiasmo col quale fu accolta l'invenzione dell'ingegnere Guimet, che nel suo oltremare artificiale presentava riunite tutte le qualità dell'azzurro che si ricava dal lapislazzuli.
Uno dei primi saggi del nuovo colore si ebbe nel soffitto di una delle sale del Louvre in Parigi, rappresentante l'apoteosi di Omero dipinta da Ingres. Il panneggiamento di una delle principali figure è colorito coll'oltremare Guimet, e M. Mérimée, relatore dell'esperimento in nome del Comitato delle Arti chimiche, alla Società d'incoraggiamento per l'industria francese, dice che « in nessun quadro si vede un azzurro più smagliante ».
Il processo Guimet non fu mai pubblicato, ma altri, partendo dagli stessi criteri che servirono di guida all'inventore, combinando la silice, l'allumina, la soda, lo zolfo ed il carbone in determinati rapporti e per successive calcinazioni, giunsero ad ottenere gli stessi risultati.
L'oltremare Guimet, poichè con tal nome si designò l'oltremare artificiale sino dalla sua scoperta, avvenuta nel 1827, è in polvere finissima di un bell'azzurro vivo. Resiste alla azione del calore e degli alcali, non però a quella di certi acidi che lo intaccano.
Anche questo colore si adultera mescolandolo a sostanze affatto estranee, come l'amido tinto e simili o ad azzurri d'ordine inferiore, come le ceneri azzurre, il blu di Prussia. Queste sofisticazioni si possono rendere palesi per mezzo dell'ammoniaca, dell'acido ossalico e della tintura di jodio.
Se l'oltremare artificiale contiene della cenere azzurra (bleu di montagna) l'ammoniaca si tinge di un colore azzurro intensissimo. Quando l'oltremare è puro, se si scioglie nell'acido ossalico sviluppa idrogeno solforato che si riconosce dall'odore d'ova fracide, mentre l'acido ossalico prende aspetto lattiginoso. Se vi è del blu di Prussia la soluzione si tinge d'azzurro scuro. La tintura di jodio, che rimane inerte per l'oltremare puro, si colora in azzurro se l'oltremare contiene dell'amido. L'oltremare artificiale si adopera in tutti i processi di pittura.
Azzurro di lapislazzuli, oltremare naturale. — Il lapislazzuli, è un minerale informe, opaco, di frattura quasi terrosa, mescolato talvolta a pezzi di pirite marziale e venature senza colore. Si trova in Persia, in America, in China e in Siberia: ma specialmente a Baikal è in grandi ciottoli di sorprendente bellezza. È un silicato d'allumina con traccie di ossido di ferro e di sali calcari. Si suppose anche che la sua colorazione azzurra sia dovuta alla presenza di una piccola quantità d'ossido di cobalto.
Per estrarre il colore azzurro dal minerale occorrono due operazioni distinte che il Bouvier descrive in questo modo:
Dapprima se la pietra è in pezzi troppo grossi bisogna ridurla a media grandezza rompendola alla meglio a gran colpi di martello. Si arroventa poi il lapislazzuli entro un crogiuolo posto su braciere ardente tuffandolo quindi nell'aceto. Questa operazione si ripete diverse volte perchè serve a rendere friabile il minerale; bruciare e far evaporare le piriti e le parti sulfuree che contiene.
Prima di macinare conviene altresì togliere i pezzi che non hanno venature colorate per non macinare del materiale inutile. Il mortaio deve essere di ferro o di acciaio, alterandosi altrimenti il colore col bronzo od il rame.
Si tritura e porfirizza finamente il minerale, umettandolo coll'aceto finchè si sciacqua e si pone a seccare riguardato dalla polvere.
Compiuta questa prima operazione, si compone un pastello di tre parti di ragia di pino, tre di pece greca, tre di cera vergine, tre di trementina, ed una di olio di lino che in vaso verniciato, a lento fuoco si fa liquefare versandolo in acqua fredda affinchè si congeli. Si prende allora tanto del suddetto lapislazzuli, reso impalpabile dalla macinazione, ed eguale peso di pastello, il quale a lento fuoco si fa fondere, e, incorporando bene ogni cosa, si getta di nuovo nell'acqua fredda formandone, colle mani unte di olio di lino, un cilindro che si lascierà nell' acqua per più giorni.
Scorso questo tempo e preparate due catinelle d'acqua tiepida, colle mani si maneggia entro l'una il pastello finchè l'acqua resti carica di colore, ripetendo ciò nella seconda catinella sinchè il pastello non darà più colore, avvertendo però che questa seconda acqua sia più calda della prima.
Se le acque risultano di egual grado di tinta si mescolano, e, se diverse, si pone a parte la meno colorita che darà un prodotto di seconda qualità. Lasciate riposare le acque, si decanta, si lava l'oltremare, e quindi raccolto, si fa seccare all'ombra.
Dal residuo pastello si può ancora ricavare una cenere d'oltremare, aggiungendovi quattro volte d'olio di lino e facendolo liquefare a bagno maria, sino a che la cenere azzurra coli a fondo. Decantato il fluido, si rimette olio e si ripete l'operazione per esaurire completamente il pastello liquido da ogni residuo d'oltremare, che fatto bollire e lavato più volte in acqua, finalmente si lascia seccare e si ripone per l'uso.
L'oltremare naturale fu il colore tenuto in maggior pregio dagli antichi, ed i committenti di quadri lo fornivano a loro spese ai pittori. Il Cennini lo descrive un colore nobile, bello, perfettissimo oltre a tutti i colori, del quale non se ne potrebbe nè dire nè fare quello che non ne sia più ». Nel processo per estrarlo dalla pietra naturale, che egli colla consueta precisione descrive minuziosamente, è notevole questo passo: « E nota che se la detta pria lapis lazzuli non fusse così perfetta, o che avessi triata la detta pria che l'azzurro non rispondesse violante, insegno a dargli un poco di colore. Togli un poco di grana pesta e un poco di verzino: cuocili insieme, ma fa che il verzino o tu 'l grattugia, o tu il radi con vetro; e poi insieme li cuoci con liscivia e un poco di allume di rocca; e quando bogliono che vedi è perfetto color vermiglio, innanzi ch'abbi tratto l'azzurro della scodella (ma bene asciutto della lisciva) mettivi su un poco di questa grana e verzino; e col dito rimescola bene insieme ogni cosa; e tanto lascia stare che sia asciutto senza o sole o fuoco, e senz'aria. Quando il trovi asciutto mettilo in cuoro o borsa e lascialo godere che è buono e perfetto ». Ma questa pratica che, presa sul serio, offuscherebbe la gloria del lapislazzuli, non trova conferma in nessun autore.
L'oltremare vero sottoposto ad elevatissime temperature conserva il suo colore e non è attaccabile dagli acidi se prima non è stato calcinato. Bouvier dice che se gli si dovesse rimproverare qualche cosa sarebbe di guadagnare sempre di intensità man mano che invecchia. Nelle velature supera il cobalto e l'oltremare artificiale.
Per riconoscerne la purezza, disciolto nell'acido nitrico, non deve lasciare nessun residuo. Dei residui azzurro-scuro o rossastri o giallastri indicherebbero miscuglio di blu di Prussia, di cobalto, o di azzurri estratti dal rame o da vegetali.
Anche messo in cucchiaio di ferro arroventato e lasciato raffreddare, l'oltremare naturale deve conservare integro il suo bel colore, altrimenti è sofisticato.
Ossido Violetto di ferro, violetto di cobalto, fosfato di manganese. — I colori violetti sono pochissimi. Il Cen nini nota un pavonazzo ottenuto dal macinare l'ametista, e buono per l'affresco, forse per la sua durezza, che intacca le pietre da macinare, abbandonato, giacchè non figura in nessun altro autore.
Fra i violetti si vede talvolta annoverata la porpora di Cassio, che è una soluzione d'oro in acido nitrico e muriatico e protossido di stagno, il cui precipitato si fissa sull'allumina; ma non ebbe diffusione che nella pittura a smalto.
Per l'arte, sino a questi ultimi tempi, non si fecero pei colori violetti che delle combinazioni sulla tavolozza mescolando degli azzurri colle facche rosse. L'ossido di ferro o violetto di Marte, prodotto dalla calcinazione ripetuta dell'ossido di ferro combinato coll'allumina, è un colore solidissimo per tutti i processi di pittura, ma come sono in genere tutti i colori derivati dall'ossido di ferro è di una opacità rilevante e poco atto a tingere intensamente i colori coi quali si mescola.
Oggidì al violetto di ferro si aggiunge il fosfato di cobalto ed il fosfato di manganese, due colori violetti affatto nuovi che l'industria garantisce con tale concordia che è giuocoforza annoverarli se non fra i più solidi certamente fra i più splendidi per l'arte, in attesa di quello che ne dirà l'avvenire.
Dei neri, nero d'avorio, nero d'ossa, nero di vite, ecc. — La maggior parte dei neri d'usò nella pittura si compone di sostanze animali o vegetali bruciate incompletamente.
Mentre la combustione completa, all'aria libera, delle stesse sostanze, dà luogo all'incenerimento, il primo grado di combustione, cioè quello eseguito in recipienti di ferro chiusi, arroventati al fuoco e poi lasciati raffreddare, li trasforma in carbone; materia nera più o meno vellutata, secondo le precauzioni adoperate e la sostanza d'origine.
L'avorio, le ossa più comuni, i sarmenti di vite, i noccioli di pesca, il sughero, la carta, dànno collo stesso processo i neri omonimi più usitati.
Tutti i neri di carbone, che non contengono materie bituminose, sono buoni e la scelta rimane una questione di criterio personale, tanto più che la necessità di colori neri non è assoluta, potendosi ricavare in gran copia dal miscuglio di molti colori adoperati nella loro massima intensità, come il giallo col rosso e l'azzurro.
L'asfalto, che si può mettere fra i bruni ed i neri, meriterebbe un capitolo speciale perchè l'attrattiva per le sue esteriori qualità pare si sia giudicato compensare i danni infiniti procacciati, vedendosi ancora comparire sulla tavolozza di molti pittori questo dannosissimo colore.
L'asfalto o bitume giudaico, appartiene, come lo indica il suo nome, a quelle sostanze combustibili comprese nella categoria generica dei bitumi che si trovano in stratificazioni solide nell'interno del suolo o colanti dalle roccie, o natanti sopra le acque in forma peciosa, e si vogliono considerare come lente trasformazioni operate dal tempo su sostanze vegetali.
L'asfalto o bitume giudaico si raccoglie dalle sponde del Mar Morto, di dove si trasporta agli emporii commerciali mescolato ad altre materie, anche a pece greca, già solidificato in pezzi neri, lucidi, di frattura scagliosa irregolare.
Il suo vero uso, dal quale è da augurarsi non fosse mai uscito e non esca più per invadere i dipinti, è per farne delle vernici su lamiera di ferro: vernici dette a fuoco perchè disposto l'asfalto e altri colori, cui facilmente si unisce, sulle lamiere, queste vengono passate sul fuoco, che le riduce lucidissime e di grande solidità, perdendovi l'asfalto quella facilità di colare e muoversi a tutti i cambiamenti di temperatura che appunto lo rende tanto dannoso nei dipinti. Per la pittura si mescola l'asfalto alla essenza di trementina facendovelo bollire lungamente ed aggiungendovi in seguito l'olio seccativo di noce. Ma così ridotto perde la facoltà di essiccare completamente tanto disteso in velature quanto mescolato a vernici od essiccanti, onde non è a dirsi come si comporti adoperato denso e perchè si veda colare dai quadri, come lo si vede sempre sgocciolante dalle tavolozze tenute qualche tempo in posizione verticale.
Bruke nel suo libro: Dei colori dal punto di vista fisico, fisiologico, artistico ed industriale, trattando delle ombre tocca dell'asfalto con queste parole: « Bisogna come prima condizione perchè un'ombra sia risoluta che il colore locale si riconosca nella sua costituzione primitiva o nelle modificazioni subìte per riflessione, quanto lo permette ancora il grado di oscurità. A questa legge se ne congiunge strettamente un'altra. La parte ombrosa non deve riflettere luce neutra diffusa alla superficie delle particelle del colore. Per conseguenza sono i colori trasparenti che si prestano meglio nei toni d'ombra ottenuti per mezzo di miscuglio, e siccome nessun colore presenta questo carattere quanto il bitume, che è nello stesso tempo profondo e, per soprappiù, grazie alla sua gradazione di tinta, si presta ad un'infinità di tinte d'ombre, così lo vediamo adoperato, quantunque numerose esperienze infelici abbiano provato che col tempo annerisce ».
L'asfalto nella pittura ad olio, dove ha l'impiego più esteso e dove può esercitare meglio queste singolari proprietà, compie una funzione molto analoga a quella della seppia o del bistro o dell'inchiostro di china negli acquerelli a chiaroscuro, vale a dire portando quell'unità di tinta che è così difficile, talvolta quasi impossibile da ottenersi, volendo fare pitture monocrome di pieno impasto con colori vivi quali i rossi, i verdi e gli azzurri che riuscirebbero sempre dispiacevoli all'occhio, non perchè questi colori siano per sè graditi meno degli altri, ma per la difficoltà di rendere tutti i toni della stessa tinta senza deviare in gradazioni false che l'occhio percepisce senza saperne suggerire il rimedio.
Questa arrendevolezza particolare di un nero già in gran stima nel lungo periodo influenzato dal concetto che ombra volesse dire nero e, forza di colore, arrivare per tutte le gradazioni al nero purchè trasparente e caldo; quest'ancora di salvezza nei facili naufragi dell'intonazione dei chiari colle ombre e nell'armonia generale del dipinto, questo asfalto così provvido nel mascherare col linguaggio misterioso dell'ombra il falso degradare di un colore, quanto lo sgraziato svolgersi di un disegno poco compreso, prestava troppi servigi e ne presta ancora troppi perchè lo si confini presto tra i ferri di mestiere e della banale decorazione, mentre il nero domina tanto nell'arte dei colori, e vi è sempre chi nelle viscidità degli olii ingialliti e delle bituminose intonazioni vede del Rembrandt e del Tizianesco.
Ma tutti i servigi che l'asfalto può rendere dal lato decorativo, perchè le armonie cromatiche sono altra cosa dalle convenzionali rappresentazioni dominate dal nero e dagli accontentamenti di chi si illude di vincere le difficoltà dell'arte del colorire coi mezzi termini più o meno graditi ad un'epoca o ad una scuola, come si è ripetuto, non compensano i danni che l'asfalto nasconde sotto le sue false attrattive, sia mescolato alle mezzetinte che disteso in velatura e peggio adoperato puro, essendochè tutti i colori ai quali si commista questo bitume, anneriscano infallantemente mai cessando l'asfalto di sciogliersi od indurirsi secondo le temperature ambienti, e trascinando con sè in questi movimenti gli altri colori cui solo lo stato perfettamente secco dà garanzia di lunga conservazione.
I colori a pastello. — La preparazione di questi colori, sebbene dal lato dei conglutinanti sia delle più semplici, perchè non vi entri che qualche gomma in minima quantità, è tuttavia delle più delicate, non prestandosi tutte le sostanze coloranti a formare una pasta egualmente obbediente al segno; requisito principalissimo da ricercarsi nei pastelli giacchè non sarebbe possibile condurre un dipinto che può dirsi un disegno colorato, con matite delle quali l'una sgretolasse sotto mano ad ogni minima pressione, mentre. l'altra anzichè tingere graffiasse e rovinasse tutto il piano di lavoro.
Per ciò i pastelli hanno una grande analogia colle lacche, essendo quasi tutti colori fissati su materie diverse dal colore che presentano, e questo appunto per la necessità dell'impasto omogeneo delle singole matite che non si può ottenere ugualmente da tutte le sostanze coloranti.
La terra di Vicenza, di Civita Castellana, i bianchi di Meudon, di Bougival e di Troyes, ed altre crete per sè untuose, grasse al tatto e di forte aggregato molecolare si prestano assai bene per tutti i colori più chiari, ed i pastelli più chiari sono in fatto anche più ubbidienti alla mano.
Pei rossi serve di base il bollo armeno, pure untuoso e tenace, e per le tinte scure si utilizzano varietà di lapis neri. Ma le difficoltà maggiori sono per le lacche, i rossi e gli azzurri, i violetti ed i bruni, nei quali la consistenza essendo dovuta a gomme o colle che inducono sempre alcunchè di vitreo, se ne rende difficile il maneggio, e spesso riducono i pastelli inservibili.
Composte le diverse paste dei colori più intensi, si suddividono ognuna in cinque o sei gradazioni coll'aggiungere tanto di bianco quanto può occorrerne per ottenere una progressione di tinte regolare, dipendente dal criterio dell'operatore o secondo tipi particolari per ogni fabbrica, e infine con appositi stampi si formano le matite, che si lasciano seccare all'aria.
I colori a pastello sono pure talvolta fatti oggetto di sofisticazioni per le quali non si saprebbe suggerire altro modo di scoprirle se non seguendo le stesse norme indicate per gli altri colori.
- ↑ Plinio, libro XXXIV, Cap. XVIII, Storia Naturale tradotta da Cristoforo Landino. - Venezia 1543.