La poesia cavalleresca e scritti vari/La poesia cavalleresca/III. Il Morgante
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III
IL «MORGANTE»
Nelle lezioni passate vi ho dato un criterio secondo il quale devonsi giudicare i romanzi cavallereschi. Ogni cosa seria ha in sé la sua caricatura, che si sviluppa quando il presente non è più d’accordo con quel concetto; è legge che i nipoti facciano la caricatura de’ nonni. Quello che suole accadere della religione, della filosofia, delle opinioni, quello accadde della cavalleria, quando cadde sotto l’occhio beffardo d’un popolo che si gabbava di tutte le più serie cose.
Luigi Pulci, e questo lo distingue da’ scrittori posteriori, non ha avuto l’intelligenza de’ nuovi tempi, non operò con iscernimento, con chiara coscienza dell’opera sua al distruggimento del Medio Evo, come Cervantes nel Don Chisciotte e Voltaire nella Pulzella d’Orleans: eroica giovane che sotto alla sua penna divenne una sgualdrina. È un’eco confusa indistinta de’ suoi tempi; non ha né uno scopo serio, né uno scopo negativo. Come non v’era allora nulla in Italia di seriamente religioso politico e morale, non ha nessuno scopo morale, politico e religioso. Sarebbe stata pedanteria in lui il trattar seriamente ciò ch’era cessato di esser serio pel suo tempo. I pedanti lo censuravano e volevano da lui la serietà d’Omero. Ma egli s’è abbandonato al genio proprio ed al genio del tempo, ed ha ben fatto. Ma rimane la parte negativa. Vuol Pulci fare la caricatura della cavalleria? No, la fa inconsciamente; e sono gravi le conseguenze di questa oscura coscienza di sé stesso.
Lucrezia Tornabuoni, madre del Magnifico Lorenzo, aveva la sua brigata, frequentata da Pulci. Ella gli si pose intorno dicendogli: — Tu che sei poeta, perché non scrivi qualche racconto per divertirci? — . Pulci pensò a divertirli: prese il fatto sostanziale da Turpino; poi, molte altre avventure da molti altri autori; e compose un racconto, e, a mano a mano che ultimava un canto, l’andava a leggere alla brigata. Per lui era un passatempo. Il solo scopo che si proponesse fu d’intrattenere degli sfaccendati: agli altri giunse per forza del suo ingegno.
Sarà utile ch’io vi faccia una breve analisi del suo poema prima di cominciarlo a giudicare.
Il Morgante incomincia come l’Iliade. In una festa Gano si lagna con Carlomagno della supremazia che affettava Orlando; sicché questi, incolleritosi, se ne va in Pagania. Ma nell’Iliade l’interesse rimane nel campo de’ Greci con Agamennone, finché, andando ogni cosa a rotoli, non riapparisca Achille per riconcentrare in sé tutto l’interesse. Qui dimentichiamo Carlo, e l’interesse si concentra in Orlando. Saputasi in Parigi la sua partenza, Dudone, Rinaldo ed Ulivieri partono in cerca di lui. Sicché abbiamo due serie di avventure, due linee parallele. Orlando giunse a una badia, dove uccise due giganti. Alabastro e Passamonte, e strinse amicizia con un terzo, chiamato Morgante. Orlando aveva, invece della sua spada, Durlindana, la Cortana di Ulivieri; Morgante prese un grosso battaglio nella badia; così armati capitano da Manfredonio re pagano, che voleva prender per forza d’armi Meridiana, di cui s’era innamorato. Si mettono a’ suoi servigi: Orlando uccide Lionetto e riduce Meridiana all’ultima estremità. Rinaldo coi suoi compagni era capitato alla medesima badia, dove aveva ucciso un altro gigante. Dopo saputo che Forisena, bellissima figliuola di un re pagano, stava per esser data in pasto ad un mostro, s’affrettano a liberarla, ed uccidono il mostro. Ulivieri s’innamora di Forisena. Meridiana, saputo di questi tre guerrieri, li invita a venirla a liberare. Forisena, trangosciata dalla partenza di Ulivieri, si precipita da una torre. Ulivieri, ignaro di questo, appena vedutola si innamora di Meridiana; Rinaldo e Orlando combattono senza conoscersi. Riconosciutisi . Orlando passa con armi e bagagli, cioè con Morgante e il battaglio, dalla parte di Meridiana. Manfredonio è battuto e scornato.
Qui il poema sarebbe finito. Ma vi è un folletto che dà la corda all’oriuolo. Comincia un’altra tela. Questo spirito è Gano maganzese, che odiava Rinaldo e vagheggiava Montalbano. Informato di quanto succedeva in Pagania, scrive ad Erminione, al quale Rinaldo aveva ucciso il padre, così accortamente, che lo determina a spiccare un salto in Francia con ottocentomila uomini e due capitani, Lionfante e Mattafolle, dei quali il primo assedia Montalbano e il secondo sfida, scavalca e fa prigioni tutti i paladini. Frattanto, i paladini partono per soccorrer Carlo. Uccidono tutta la famiglia di Erminione e sono raggiunti in Danimarca da Meridiana con un esercito. Erminione è vinto in duello, Gano è scornato, e il poema è finito una seconda volta.
Ma ci è il nostro ragnatelo che, appena spazzata una tela, ne tesse un’altra. Gano susurra ai Parigini che Carlomagno è traditore. Si fanno per le vie delle barricate, che allora si chiamavano «serragli». Ma i Paladini domano la plebaglia e scacciano i Maganzesi. Quindi viene una festa. Ulivieri e Rinaldo cominciano a giuocare a scacchi. Quindi fa tu, fo’ io, che è, che non è, si cominciano a chiamare ladro e assassino. Carlomagno sopravviene per rappattumarli. Ma Rinaldo la piglia con lui, lo insulta, e finalmente se ne va via insieme con Astolfo, condannato ad esilio perpetuo dalla Corte. Per dispetto, fannosi malandrini. Rubano e assassinano. Un di, venuti presso Parigi, odono d’una giostra. Travestiti, scavalcano tutti. Ma, sorto sospetto del loro vero essere, accade un serra serra: ed Astolfo, rimaso in mano di Gano, è condannato da Carlomagno, malgrado le supplicazioni del popolo e del padre, alla forca. Ma Orlando e Rinaldo si appiattano e lo liberano quando stava per sentire il nodo al collo. Rinaldo avrebbe volentieri ucciso Carlomagno; ma Orlando intercede. Gano è sbandeggiato. Carlo si rappacifica con Rinaldo; il poema è finito.
Ma Gano non vuol che finisca: tende agguati, prende Ricciardetto e lo consegna a Carlomagno, che vuole impiccarlo. Orlando pianta, infastidito, la Corte. Ma Rinaldo e Ulivieri liberano Ricciardetto, suonano i Maganzesi, fugano Carlo: e Rinaldo si fa coronare imperatore in Parigi. Ma, non avendosi notizie di Orlando, Rinaldo, nato non per essere imperatore ma cavaliere errante, richiama Carlo e parte. L’azione ricomincia quale era al principio.
Orlando era capitato in Persia e sarebbe stato ucciso se la figlia del re non si fosse innamorata di lui. Rinaldo s’innamora in Ispagna di Luciana. Orlando e Rinaldo, dopo aver combattuto, si riconoscono, uccidono il re e battezzano la Persia.
Qui il poema sarebbe ancor terminato. Ma Gano dice: — Nossignore, non è finito ancora; avete da fare i conti con me — . Induce con lettere il re di Babilonia a mandar Antea sua figlia a conquistar la Persia. Questa fa prigioni Ricciardetto e Ulivieri, e duella con Rinaldo, il quale, innamoratosene, combatte ad armi cortesi. Antea, per consiglio di Gano, parte nottetempo co’ due prigionieri. I paladini, volendo inseguirla, si separano e si smarriscono in un bosco. Rinaldo s’addormenta e gli vien rubato il cavallo; ma, giunto a Babilonia, informa Antea della sua venuta, ed è accolto nella Corte. Ma Gano pensa, pensa e gli venne fatto un capolavoro. Con una lettera al re di Babilonia l’induce ad impiccare i due prigionieri; con un’altra ad Antea, ad assalire Montalbano, ed a spedire Rinaldo con il veglio della Montagna. Il veglio della Montagna si converte e stringe amicizia con Rinaldo. Antea prende Montalbano; ma, saputo che Gano è un traditore, lo ficca in prigione. Orlando e Morgante entrano in Babilonia, Morgante con una battagliata abbatte la torre maggiore; liberano i prigioni, uccidono il re, battezzano gli abitanti. Rinaldo ed Orlando ottengono la libertà di Gano, il quale scrive al re Calavrione, parente del veglio della Montagna, e ad Antea, ricordando loro come il parente dell’uno ed il padre dell’altro fossero stati uccisi dai cristiani. Vengono a Parigi; si guerreggia; poi finalmente, venendo loro provato in un convito che i due erano stati uccisi lealmente, se ne partono colle pive in sacco e con le mosche in mano. Ulivieri dà uno schiaffo a Gano, che va in Ispagna e spinge Marsilio a venir in Francia; la retroguardia cristiana, di ventimila uomini, è sorpresa in Roncisvalle da dugentomila pagani. Tutti, vengono trucidati; muoiono Ulivieri, Baldovino, Orlando, il quale aveva suonato il corno si violentemente che gli erano crepate le vene della fronte ed il corno spaccato in due, e che il suono era stato inteso da Carlo tante miglia lontano. Carlomagno quindi stermina i pagani, prende Saragozza, impicca Marsilio, e, ritornato a Parigi, attanaglia Gano. Il poema finisce con un Salve Regina ed un ringraziamento alla Vergine Santissima.
Ciò che prima colpisce in questo ordito è la mancanza sostanziale di un’azione centrale intorno a cui si aggruppino tutti i fatti: sono tanti romanzi diversi, tante totalità che solo Gano unisce. Sicché, dovendo sempre ricominciare da capo, l’interesse langue. Questo è il primo sbaglio: mancava al Pulci una mente sintetica che sapesse dare una vera unità artistica a questo lavoro.
V’è un altro difetto più grave. Egli prese queste avventure da traduttori e rapsodi che copiavansi l’un l’altro, cambiando i nomi, serbando i fatti e non ha saputo infondervi vita ed immaginazione. Trovi in lui mancanza di varietà, continua ripetizione di fatti.
Orlando parte, ed i tre guerrieri vanno in cerca di lui, due volte; Orlando e Rinaldo combattono fra di loro senza conoscersi, due volte. Ulivieri s’innamora di Forisena e la lascia per Meridiana; Rinaldo s’innamora di Luciana e la lascia per Antea. Orlando e Morgante, Rinaldo e il veglio della Montagna, Calavrione, Erminione, Antea, le minacciate impiccagioni di Astolfo e di Ricciardetto, sono evidenti ripetizioni. V’è poca mente sintetica e molta povertà d’invenzione.
Si aggiunga la nessuna importanza che dà alle più grandi cose. Erminione, Calavrione, Antea vengono a Parigi ciascuno con trecentomila uomini, e partono persuasi da pochi discorsi, senza operare. Grandi mezzi, grandi apparecchi producono il nulla. «Parturiunt montes».
Ma ci è qualche cosa in lui che lo fa leggere con piacere: è lo spirito comico satirico che ferve in tutto il poema, e che ne anima tutti que’ fatti ripetuti senza invenzione e malamente aggregati.
Sparge il ridicolo da per tutto. Come non posso entrare oggi nella disamina del poema mi basterà di dirvi in che modo rappresenti la religione, ch’è un accessorio. Il Pulci non è un uomo serio, che faccia guerra alla religione a viso aperto; egli era uno di quegli uomini mansueti che trovavano piacere nel poterle menare la loro botta senza pericolo. È coverto, ed in apparenza sempre tutto ortodosso; ma dice queste cose ortodosse con tale stile, con tali particolari e tali scherzi, da far subito indovinare ciò che e’ ne pensi.
Il Pulci invoca la Trinità e la Vergine come i predicatori:
In principio era il Verbo appresso a Dio, Ed era Iddio il Verbo, e il Verbo lui; Quest’era nel principio, al parer mio, E nulla si può far sanza costui. |
È il principio del Vangelo. Ma ponete mente al modo di dire, alle idee accessorie:
Quest’era nel principio, al parer mio, |
verso che viene inteso subito a rovescio:
E nulla si può far sanza costui. |
Allude a’ predicatori; ponete mente al «costui».
In un altro luogo, mette in caricatura quel miscuglio d’italiano e di latino e quegli argomenti e quegli ergo di cui si servivano i predicatori:
Forse saremmo ognuno maomettisti, Ergo, Carole, in tempore venisti. |
Uno dei modi co’ quali suole giungere alla caricatura, è il presentare seriamente un’idea e poi terminare con un verso scherzoso. Quando Orlando è moribondo, gli apparisce un Angelo che lo loda e gli descrive il paradiso e finisce per dirgli: — Ti darò due notizie: Morgante col suo battaglio è in Paradiso; Margutte sta in Inferno; e, come ha sempre riso in vita, così ride sempre anche in Inferno — .
Così descrive Rinaldo, che vuol convertire un pagano:
E disse d’uno, e tre, e Padre, e Verbo E lo Spirito santo poi incarnato, E disse di Gioseffo e di Maria, E fece un lago di teologia. |
Finalmente, ecco un brano anche più comico. Ulivieri espone il catechismo; ma Meridiana, impaziente, gli rompe le parole in bocca:
— Più non ti rispondo — ; E fu contenta che la battezzassi; E dopo questo vennono alla cresima, Tanto che infine e’ ruppon la quaresima. |
Malgrado tutte queste precauzioni. Domenicani e Francescani tuonavano contro lui dal pergamo, e questo stato di combattimento si rivela sulla fine del poema:
Sempre i Giusti son primi i lacerati. Io non vo’ ragionar più de la fede; Ch’io me ne vo’ poi in bocca a questi frati. Dove vanno anche spesso le lamprede. |
Mentre si scusa, dà loro una botta:
E certi scioperon pinzocherati Rapportano: — Il tal disse, il tal non crede — . • • • • • • • • • • • • • • E se pur vane cose un tempo scrissi, Contra hypocritas tantum, pater, dissi. |
Non in pergamo adunque, non in panca Riprendi il peccatori ma quando siedi Ne la tua cameretta, s’e’ pur manca. Salite colassú col piombo a’ piedi; La fede mia come la tua è bianca; E farotti vantaggio anche due Credi. Predicate e spianate l’Evangelio Colla dottrina del vostro Aurelio. E se alcun susurrone è che v’imbocchi, Palpate come Toma, vi ricordo, E giudicate alle man, non agli occhi. Come dice la favola del tordo; E non sia ignun piú ardito che mi tocchi, Ch’io toccherò poi forse un monacordo, Ch’io troverò la solfa e’ suoi vestigi; Io dico tanto a’ neri, quanto a’ bigi. Vostri argomenti e vostri sillogismi. Tanti maestri, tanti bacalari. Non faranno con loica o sofismi, Ch’alfin sien dolci i miei lupini amari. |
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V’ho parlato nell’ultima lezione di un lato accessorio del poema del Pulci: del lato religioso; ora entreremo nell’essenza propria del poema.
V’è un dramma di Shakespeare che s’intitola: Molto chiasso per niente (Much ado about nothing), e questo titolo basta a spiegarvi il concetto comico del dramma. Quando le cause e gli effetti sono posti in una razionale concatenazione, allora l’ordito è serio: l’ordito, non il racconto, giacché il racconto può essere ridicolo intrinsecamente anche con una seria tessitura. Ma quando c’è disproporzione fra le cause e gli effetti, nasce prepotente il riso, non dalla natura dei fatti, ma dal modo con cui sono orditi.
Uno degli effetti comici di cui Voltaire ha fatto maggior uso, è il mostrar come da cause minime e futili sgorghino effetti importanti: questo è l’effetto comico de’ fatti, l’ironia della vita. Quando poi cause serie, che parevano dover produrre il commovimento dell’universo, riescono ad effetti minimi, abbiamo nell’ordito l’effetto comico.
Nel Pulci vediamo addensarsi de’ nugoloni scuri scuri, che minacciano una bufera terribile e poi si risolvono in acquerella minuta. Basta questo a costituire il comico dell’ordito. Eppure voi non ridete di questa disproporzione. Quando vedete che minacce di guerre interminabili, capaci di empiere da’ quaranta a’ cinquanta canti, danno in un nulla, non ridete. L’ordito è per sua natura ridicolo ed il riso non ne è l’effetto; la materia è comica e non produce il suo effetto estetico.
Se uno dice sciocchezze con intenzione comica, ridete non di lui, ma di quel che dice, ed esclamate: — È un buffone di spirito — . Ma, se uno dice sciocchezze per sciocchezza, voi ridete di lui, non di quello che ha detto. Questo è il caso del Pulci, che non ha vera e profonda coscienza del suo scopo. Se fa un ordito ridicolo, è per insufficienza, perché gli manca forza sintetica. Come un’avventura gli si presenta, non sapendo variarla, la scrive, se ne sbriga e passa ad un’altra. Non raggiunge l’effetto comico, perché non ha arte sufficiente da arricchire e sviluppare un’avventura. L’ordito del Pulci è ridicolo in sé stesso, quindi è ridicolo mancato. Ma rimangono i fatti; questi ponno essere ridicoli e mostrarci un uomo di spirito.
La sola chiave secreta, che fa camminare l’orologio di questo poema, è Gano. È il solo attore. Se Orlando parte, se gli altri ne vanno in traccia, se Calavrione, Erminione, Antea vengono a Parigi, è tutto opera sua. Vediamo se il Pulci lo ha saputo ben concepire.
Gano è naturalmente odioso, disgustoso: per fini personali e turpi, non indietreggia innanzi a ciò che v’ha di più esecrabile; è quindi essenzialmente prosaico. Come potrebbe destare interesse estetico in un poema serio? Coprendo ciò che v’ha di odioso e prosaico in lui, con l’attribuirgli intelligenza e fermezza di carattere, conoscenza delle passioni e de’ caratteri degli uomini; sicché, quantunque egli fosse debole e gli altri forti, ne facesse de’ burattini inconsci. Questo uomo sarebbe sublime; ma è impossibile in un poema comico come quello del Pulci. Bisogna dunque farne un personaggio che faccia ridere: il riso purificherà ciò che ha in sé d’odioso. Invece di avere un’intelligenza superiore, avrà furberia e malizia: sarà una volpe, che ci farà ridere non solo per le sue azioni in sé, ma ancora per gli equivoci ed effetti che ne nasceranno. Ha saputo il Pulci dargli sufficiente furberia e malizia? No. La gran malizia di Gano è lo scriver lettere. Lo stesso grossolano meccanismo produce più volte gli stessi effetti. Non desta né ammirazione per la sua grandezza ed intelligenza, né riso per la sua malizia e furberia; è odioso, disgustoso, prosaico, una sconciatura.
Ma, se è così sciocco, come può far ballare gli altri? Gli altri sono ancora più sciocchi. Carlomagno è vieppiù imbecille che Gano non sia sciocco: Carlomagno, motore nominale del mondo, di cui Gano è il motore effettivo. Pulci dice, al principio del suo poema, d’averlo impreso per ritrarre degnamente Carlomagno, stato fin allora mal ritratto. Che ne ha fatto? Un vecchio rimbambito, imbecille, senza iniziativa, senza forza; una girandola mossa or dalle menzogne di Gano or dalle insolenze de’ Paladini. Se il Pulci avesse avuta una intenzione comica come Cervantes, avrebbe potuto fare una magnifica caricatura di quegli imperatori di cartastraccia che, credendo governare, son governati dai servi dei loro servi. Ma invece arrossisce di ridicoleggiarlo. Non vuol mai mancare di rispetto alla corona imperiale. Non ha il coraggio del suo concetto. Carlomagno viene detronizzato da Rinaldo e si rimpiatta sotto la gonnella d’Alda la bella. Questo fatto ridicolissimo in sostanza è da lui accennato in due versi.
Il personaggio rimane strozzato per mancanza di coraggio, fra il Carlomagno della tradizione e l’ideale suo.
Se questi due rimangono prosaici che ne sarà degli altri? Che cos’è il mondo, messo in moto da loro?
Negli antichi poemi romanzeschi il pagano è posto in antitesi col cristiano. I primi scrittori veggono ne’ musulmani qualche cosa d’inferiore a cani, fuori dell’umanità: gran forza fisica (che però soggiace alle forze ragionevoli dei cristiani), congiunta a slealtá, malafede, a compiuta assenza di senso morale. Ma quando il poeta non ha lo stesso interesse per la fede accade un gran cambiamento; fra il cristiano ed il pagano rimane una differenza di civiltà. I pagani sono la barbarie, i cristiani la civiltà; fra questi si trovano forze spirituali, cortesia; fra quelli barbarie, rozzezza.
Ecco i due punti di vista sotto i quali ponno concepirsi i pagani. Ma anche qui il Pulci porta la sua leggerezza ordinaria; ha cancellata ogni differenza, ha distrutta l’antitesi. Non solo i pagani non sono inferiori, ma sono spesso più gentili, cortesi, e fededegni dei cristiani. I Paladini, viaggianti in Pagania, sembrano assassini e ladroni, che s’intrudono in casa dei re pagani per commetter cattive azioni, grazie alla troppa bontà di quelli. Calavrione, Erminione sono uomini ragionevoli, che credono di aver ragione; e convinti d’aver torto, si ritirano.
Ma, se non ha creato un elemento cristiano differente dall’elemento pagano, ha almeno data una fisionomia distinta a ciascun pagano? Ne ha egli fatto degli individui spiccati e distinti, facoltà massima del poeta? Se non ha facoltà inventiva, ha facoltà creativa?
Vi ho analizzato il poema: avete visto tutti agire, e vi siete potuti accorgere che non hanno nulla di caratteristico. Calavrione ed Erminione, Meridiana ed Antea potranno differire nel nome e nelle avventure: ma al poeta è mancata tanta fantasia da imprimer loro un marchio distintivo. Quindi, mentre gli altri nostri sommi poeti hanno tramandato alcuni personaggi fino a noi, nessuno fra quelli del Pulci è diventato popolare. Sono semplici nomi.
Le donne le quali, cosa notabile, sono tutte pagane sono cinque: le due amanti di Ulivieri, Forisena e Meridiana, le due amanti di Rinaldo, Luciana ed Antea, l’amante d’Orlando, Chiariella. Se non ve ne avessi detti i nomi, ve ne sareste ricordati? Non hanno né fisionomia particolare che le distingua fra loro, né fisionomia generale che le distingua dagli uomini. Non hanno nessuna ricchezza interiore, non potete analizzarle. Sono esseri immediati, che operano istintivamente come animali, senza previdenza, senza combattimento interno, senza lotta o contrasto, deficienti d’ogni senso morale; non solo non sono una poetica, ma neppure una persona umana. Tutto manca; anche l’elemento donnesco, grazia, dolcezza.
Chiariella, figlia dell’Amostante di Persia, tradisce la patria, che viene soggiogata, il padre, che viene ucciso. Quanti elementi contradittori da ritrarre! Che lotta fra il suo senso morale e la sua passione! Se volete rappresentarla destituita di senso morale, resta la passione, istintiva, animalesca, per Orlando, che la induce, senza sospetto di far male, a tradire il padre. Il Pulci si contenta di dir la cosa in due versi; non c’è né sviluppo passionale né sviluppo morale.
A raccontare la catastrofe di Forisena impiega quattro versi:
E la condusse quel bendato arcieri Per veder quanto Olivier può discosto A un balcone; e l’arco poi disserra, Tanto che questa si gettava a terra. |
All’elemento pagano appartengono i giganti. Ove i pagani rappresentano uno stato di civiltà inferiore, i giganti rappresentano la barbarie ultima. Non solo la loro forma esterna, ma l’interno loro è più animalesco che umano. Sono stupide masse di carne, che, considerati seriamente riguardo agli effetti, possono essere seri e sublimi, come il fulmine, il tremuoto, un monte che si scoscenda.
Ma qui i giganti sono comici. Dov’è il comico de’ giganti? Se uno di noi, piccioli omicciattoli moderni, fosse posto presso un gigante, questi lo soverchierebbe, lo atterrirebbe, non avrebbe agio e pacatezza per ben considerarlo. Ma supponetelo incatenato, che possiate considerarlo al sicuro: allora rifulgerà tutta la differenza fra lo spirito e la materia, fra il civile ed il barbaro; potete incrocicchiar le braccia e sorridere di quella forma ridicola, e della vostra superiorità intellettuale.
In questa disposizione Pulci ci rappresenta il gigante. Ha egli saputo renderli ridicoli? Egli non ne ha afferrato che la superficie esterna, ed anche qui è poco felice. Uno de’ ridicoli del gigante è il mostruoso, le proporzioni del suo corpo contrarie al principio razionale d’armonia. Ma bisogna sapere unire le qualità mostruose si che eccitino il riso. Se le unite a caso, avrete un accozzamento di parti strane da cui non uscirà il grottesco. Quando il mostruoso non è spinto fino al ridicolo, rimane come mostruoso e l’elemento comico è distrutto.
Ecco come descrive un gigante che va incontro a Rinaldo:
Egli avea il capo che parea d’un orso, Piloso e fiero; e’ denti come zanne, Da spiccar netto d’ogni pietra un morso; La lingua tutta scagliosa, e le canne; Un occhio avea nel petto a mezzo il torso, Ch’era di fuoco, e largo ben due spanne; La barba tutta arricciata e’ capegli; Gli orecchi parean d’asino a vedegli. Le braccia lunghe, setolute e strane, E ’l petto e ’1 corpo piloso era tutto; Avea gli unghion ne’ piedi e nelle mane, Che non portava i zoccol per l’asciutto, Ma ignudo o scalzo, abbaia com’un cane: Mai non si vide un mostro cosí brutto: E in man portava un gran baston di sorbo, Tutto arsicciato, e nero com’un corbo. |
Dal lato pagano, dunque, mancanza assoluta di fantasia. Restano i cristiani, che, tolte le molte comparse, si riducono a sei: Dudone e Ricciardetto, Astolfo ed Ulivieri, Orlando e Rinaldo. I due primi sono poco più che mere comparse; il terzo e il quarto sono abbozzi. Astolfo, quando apparisce, sembra destinato ad essere il buffone del poema: è valoroso, ma non tanto da non cadere talora di cavallo; è bravo, affezionato, allegro. Conduce alcuni prigioni in una badia, e vuole che il priore li impicchi. I monaci fanno il vezzoso; ma egli prende una mazza, e quelli si mettono ad impiccar con tanta destrezza che ci parevano nati. Ma, dopo questo, cade ne’ personaggi secondari, e non se ne parla più. Ulivieri sembra dover essere il suo successore. S’innamora di Meridiana, ed è scavalcato da Manfredonio, e bastonato da un gigante in sua presenza. Corre per soccorrerla, ma Ricciardetto è più pronto; ond’egli le dice:
Disse: — Io venivo ben per darti aiuto. Ma le schiere passar non ho potuto — . |
Ma queste velleità di bulloneria passano presto, e sparisce anche lui.
Orlando, che sarebbe l’eroe in un poema serio, rimane qui, per la sua serietà, senza interesse.
Rinaldo è il più vivo: in lui ci è una vera creazione. È un misto di guerresco, cavalleresco e lazzaronesco, capace di fare un tradimento, di uccidere una madre coi figli e di rinunziare alla corona di Francia per ricercare Orlando. Quest’antitesi dà tutta l’attrattiva al suo carattere. Ecco una scena in cui è mirabilmente spiegato questo misto di lazzaronesco e d’eroico. Era giunto in una badia, occupata da un gigante per nome Brunoro, che lo invita a colezione.
Rinaldo cominciava a piluccare E trassesi di testa allor l’elmetto; Ma Ulivier non sei volle cavare. Così Dodon, che stavon con sospetto: Perchè Brunor, veggendogli imbeccare Per la visiera, guardava a diletto, E comandava a un di sua famiglia, Ch’a’ lor destrier si traessi la briglia. E fece dar lor biada e roba assai, Dicendo: — Questi pagheran lo scotto, O l’arme lasceran con molti guai; Non mangeran così a bertolotto — . Dicea Rinaldo: — Alla barba l’arai— . E cominciò a mangiar com’un arlotto..... |
Disse Rinaldo: — Appiccata è la guerra; Lo scotto pagherai tu, mi cred’io; Vedi che spesso il disegno altrui erra — . • • • • • • • • • • • Rinaldo l’ebbe alla fine in dispetto, Però che diluviava a maraviglia, E cadegli la broda giù pel petto; Guardò piú volte, e torceva le ciglia. Poi disse: — Saracin, per Macometto, Che tu sei porco, o bestia che ’l somiglia! Io ti prometto, s’tu non te ne vai. Farò tal giuoco che tu piangerai — . Disse il pagan: — Tu debb’esser un matto, Poiché di casa mia mi vuoi cacciare — . Disse Rinaldo: — Tu vedrai bell’atto! — . Il Saracin non se ne vuole andare, E nel paiuol si tuffava allo imbratto. Rinaldo non poté più comportare; Il guanto si mettea nella man destra, Tal che gli fece smaltir la minestra, Ché gli appiccò in sul capo una sorba. Che, com’e’ fussi una noce, lo schiaccia; Non bisognò che con man vi si forba, E morto nel paiuol quasi lo caccia... • • • • • • • • • • • Disse Rinaldo: — Come san costoro. Non vo’ mai noia, quand’i’ sono a desco, E sto come ’l cavai sempre in cagnesco. Venne a mangiar qua uno; io lo pregai Che se n’andassi, e’ non curò ’l mio dire; Mangiato non parea che avesse mai. Ed ogni cosa faceva sparire. |
Le frutte dopo al mangiar gli donai. Perchè il convito s’avessi a fornire — . E, mentre che dicea questo al pagano, Frusberta sanguinosa tenea in mano. |
Ma Pulci non è ricco, non ha tutte le corde del comico; possiede solo il comico plebeo, basso, buffonesco, triviale. Quindi il suo personaggio principale non è Rinaldo, che conserva sempre una certa nobiltà, ma Morgante.
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Nell’esame di tutti gli elementi del Morgante, ho espressamente messo da canto il soprannaturale, che sta da sé. Il soprannaturale è il principio movente di tutti i poemi epici e cavallereschi; giacché un poema, sia epico, sia comico, ha per condizione il maraviglioso, vale a dire una successione di fatti che non stia in rapporto coll’ordine volgare degli avvenimenti, con la plate réalité. Vi è dunque in lui il germe del sublime e del ridicolo, giacché il sublime quando non gli si ha più fede divien ridicolo.
Difficilissimo è a rappresentarsi il maraviglioso, giacché dev’esser una cosa di sopra dell’ordine naturale e dev’essere creduta dal narratore; ove il rappresentatore non vi creda, il sublime si trasforma irresistibilmente nel ridicolo. Mettete il caso che vi si parli d’un miracolo; ove lo crediate, voi ammirate e v’innalzate al di sopra dell’ordine logico e scientifico; ove non ci crediate la sola narrazione del miracolo in sé basterà per renderlo ridicolo.
Di che natura è il maraviglioso del Pulci, sia naturale sia soprannaturale? Non è serio, ma buffonesco. Un gigante arrandella Rinaldo e poi si rintana in una buca. Rinaldo con un fendente spacca il sasso ed il gigante, come un sarto un panno, e «sciocco è chi noi crede». Evidentemente, il Pulci si ride del fatto; ma, quand’anche ci credesse, il fatto sarebbe sempre ridicolo per voi. La base è crollata.
Orlando, adirato contro il gigante Grandonio, uccisore di Sansonetto, con un colpo spacca lui e il cavallo e un palmo di macigno. Questo è il maraviglioso subiettivamente buffonesco, ché né il lettore né lo scrittore credono quelle esagerazioni. Ma basta questo e basta di esagerare? È facile il far ridere con buffonerie. Dov’è il serio di questo maraviglioso? Il ’Pulci l’ha saputo comprendere?
Ne’ popoli primitivi la facoltà più svolta è l’immaginazione; questa si attenua a misura che la civiltà progredisce; agli uomini d’immaginazione succedono gli uomini d’azione. Il fondamento dell’immaginazione è la conoscenza che abbiamo di molte cose cui non può giungere la nostra potenza, la coscienza di esser nature finite, la coscienza del finito. Io formerò un desiderio, ma ne scorgerò subito il ridicolo, ravvisandone l’impossibilità. L’uomo, creatura sottoposta ad alcune leggi dello spazio e del tempo, ha sempre cercato di lottar contro di esse. Quando è rozzo, non potendo voler seriamente sopprimere quel limite con la scienza, lo sopprime con la fantasia; è tanto più sognatore quanto meno operoso. Anche adesso, gli orientali e gl’italiani meridionali sono fantastici; e lavorano di fantasia, perché non hanno conoscenza e pratica sufficiente del reale. Quindi l’epopea è il grande ideale de’ popoli primitivi. Per mezzo degli angeli, de’ demoni, dei maghi e della magia, tutti i limiti sono soppressi senza bisogno della scienza. La parte seria del maraviglioso è quando l’immaginazione è presaga od indovina della scienza, o quando lo descrive con tanto calore da mostrare un prepotente bisogno di rompere questi limiti e di spaziare in campi più liberi.
Il Pulci fra gli altri ingredienti del suo poema ha la magia; si è egli alzato a quest’altezza? Mostra di sentir bisogni più nobili delle consuete buffonerie? La magia occupa nel Morgante un posto ristrettissimo; il solo mago è Malagigi, ed a tre riduconsi le sue prodezze. La prima è il privar Creonta dell’invulnerabilità. Tradizione grossolana, grossolanamente riprodotta. La seconda è un cambiamento di spade e di cavalli fra Rinaldo ed Orlando: altra buffoneria senza scopo. Ma nella terza impresa di Malagigi il Pulci si è abbattuto in un’invenzione ch’è la sola rimasta, specialmente perché il Tasso s’è degnato d’impadronirsene. Mentre si prepara la battaglia di Roncisvalle, Malagigi, ricorrendo ai mezzi magici per richiamare Rinaldo e Ricciardetto che stavano in Egitto, spaccia loro Astarotte e Farfarello, perché possano giungere a tempo. È l’episodio di Armida e Rinaldo. Ma, mentre nel Tasso tutto è serio, nel Pulci rinvieni un misto di scherzoso e di serio. Per trasportare rapidamente Carlo ed Ubaldo alle Isole fortunate. Tasso ha immaginato una vela d’oro incantata: arditezza d’immaginazione che i piroscafi hanno in certo modo realizzata. Il Pulci fa entrare Farfarello ed Astarotte nelle visceri de’ due cavalli, che, indemoniati, saltano oceani e fiumi: v’è del grottesco. Giunti allo stretto di Gibilterra, Rinaldo domanda ragione delle colonne d’Ercole ad Astarotte; e nasce una di quelle arditezze dell’immaginazione che il Tasso ha imitato, facendo però il profeta a buon mercato. Qui troviamo ottave stupende, che paiono scritte dopo la scoverta dell’America, mentre in realtà furono scritte cinquant’anni prima di Colombo che realizzò la bizzarria del Pulci.
— Sappi che questa opinione è vana, Perché più oltre navicar si puote, Però che l’acqua in ogni parte è piana. Benché la terra abbi forma di ruote. Era più grossa allor la gente umana. Tal che potrebbe arrossirne le gote Ercule ancor d’aver posti que’ segni, Perché più oltre passeranno i legni. E puossi andar giù nell’altro emisperio, Però che al centro ogni cosa reprime; Si che la terra per divin misterio Sospesa sta fra le stelle sublime, |
E là giù son città, castella e imperio; Ma noi conobbon quelle gente prime: Vedi che il sol di camminar s’affretta, Dove io ti dico che là giù s’aspetta. E come un segno surge in Oriente, Un altro cade con mirabil arte. Come si vede qua nell’Occidente, Però che ’l ciel giustamente comparte. Antipodi appellata è quella gente; Adora il sole, e Iuppiter e Marte: E piante e animai come voi hanno, E spesso insieme gran battaglie fanno — . |
Vi è, in quest’espressione dei principi di tolleranza, qualche cosa di serio, che fu confermato dal movimento storico.
Quest’episodio non solo è notabile per questi due punti, ma perché è il migliore del poema: vi sono caratteri. Rinaldo e Ricciardetto saltano entrambi; ma l’autore ha saputo mettere gradazioni fra loro per modo che abbiano físonomie particolari. Rinaldo è sublimato dal sublime stesso del fatto; Ricciardetto ne è impacciato:
Come Baiar do alla riva fu presso, Parve che tutto di fuoco sfavilli; Poi prese un salto e in aer si fu messo. Ma così alto non saltano i grilli; E non è tempo di segnarsi adesso; Ché non piace al demon nostri sigilli. O potenzia del ciel, poi ch’a te piacque. Maraviglia non fia saltar quest’acque! Ricciardetto ebbe paura e ribrezzo. Perché tanto alto si vide di botto. Che si trovò con Farfarello al rezzo, E dubitò, ché si vide il sol sotto. Come se fussi tra ’l cielo e lui in mezzo; E ricordossi d’Icaro del botto, |
Per confidarsi alle incerate penne; E con fatica alla sella s’attenne. Rinaldo arebbe voluto in quel salto Poter del sole aggiugnere alla chioma; Ma non potea, ché si trova più alto, Perché quel già sotto l’acqua giù toma. Baiardo, quando e’ cascò in sullo smalto, Anche non parve la sua forza doma, E poco cura il salto ch’egli ha fatto, E cadde in terra lieve come un gatto. Diceva Ricciardetto a Farfarello, Com’e’ giunse alla riva: — Io ti confesso. Che questa volta io non son buon uccello. Però che il sol non mi parea più desso, Quand’io mi vidi volar sopra quello; Credo ch’io ero al Zodiaco appresso: Troppo gran salto a questa volta fue: Io non mi vanterei di farne piue — . Il caval si senti di Ricciardetto In un modo anitrir che par che rida. Perché quel diavol ne prese diletto Delle parole che colui si fida; E poi diceva: — Non aver sospetto, O Ricciardetto: tu hai buona guida — . Dicea Rinaldo: — Facciam questo patto, Che in Roncisvalle si salti in un tratto — . Rispose Ricciardetto: — Adagio un poco! Volgi pur largo. Farfarello, a’ canti; Tu non ti curi come vada il giuoco, O drento o fuor, poi te ne ridi e vanti. Io sono ancor per la paura fioco, E sento i sensi tremar tutti quanti, E parmi i panni in capo aver rovesci, E cader giri nell’acqua in bocca a’ pesci — . |
Quando stanno per separarsi, Rinaldo dice ad Astarotte:
... — Astarotte, tu se’ pure amico, E io ti son veramente tenuto, E tanto in verità t’affermo e dico: Se mai per grazia e’ sarà conceduto Che il ciel rimuti il suo decreto antico, Sua legge sua sentenzia o suo giudizio, Ricorderommi d’un tal benefízio. Altro certo offerir non ti poss’ora; L’anima chi la dié credo sua sia, Il resto tutto sai convien che mora: O sommo amore, o nuova cortesia! — Vedi che forse ognun si crede ancora Che questo verso del Petrarca sia, Ed è già tanto e’ lo disse Rinaldo; Ma chi non ruba, è chiamato rubaldo. Disse Astarotte: — Il buon volere accetto; Per noi fien sempre perdute le chiavi. Maestá lesa infinito è il difetto: O felici cristian, voi par che lavi Una lacrima sol col pugno al petto, E dir: «Signor, tibi soli peccavi!». Noi peccammo una volta e in sempiterno Rilegati siam tutti nello inferno — . |
Con maraviglia avete qui visto il Pulci elevarsi da quel terreno buffonesco che gli è ordinario; ma è un vecchio peccatore, e ricade finalmente sempre nell’ultime buffonerie. Cosa tanto più sorprendente in quanto che vivea in una Corte coltissima. E un fenomeno curioso di quei tempi che la realtà sia più bella dell’arte comica. La sola commedia era rimasta plebea e grossolana. Mentre nella vita reale si stava molto alla forma, e vi era sostenutezza, cortesia e que’ riguardi che sollevano la buffoneria al grado d’ironia, l’arte comica divenne pura vile buffoneria; que’ scrittori sembrano gente da taverna, ed oltrepassano qualunque misura o rispetto di forma. Ciò può spiegare perché, anche quando cerca di sollevarsi, il Pulci ricaschi sempre nel triviale.
Rinaldo e Ricciardetto, giunti in Ispagna, capitano a Saragozza. Rinaldo mostra voglia ad Astarotte di visitare l’antica sua innamorata Luciana; dimenticando Roncisvalle, entrano dunque invisibili nella stanza in cui pranzavano Luciana e la madre. La scena potrebbe riuscire spiritosa. Ma null’altro accade se non che il divoramento da parte di Rinaldo delle vivande poste innanzi a Luciana; finché uno starnuto di Ricciardetto non guasti e rompa lo scherzo: scherzo di bassa risma davvero.
Altro esempio. Marsilio, sul punto d’essere appiccato, richiede il battesimo: l’arcivescovo Turpino, che aveva domandato in grazia di fargli da boia, glielo ricusa, acciocché non possa salvarsi l’anima.
Disse Turpin: — Tu ménti per la gola, Ribaldo, appunto qui t’aspettavo io — . |
— Sai che si dice cinque acque perdute: Con che si lava all’asino la testa; L’altra una cosa che infine pur pute; La terza è quella che in mar piove e resta; E dove gente tedesche son sute A mensa, sempre anche perduta è questa; La quinta è quella, ch’io mi perderei A battezzare o marrani o giudei. |
Questo spiega la predilezione che l’autore dimostra per un personaggio che non appartiene regolarmente al poema, che ne muore a metà, Morgante, essere accidentale che, dando il nome al libro, mostra l’intenzione di scendere al buffonesco ed al plebeo. Morgante è il tipo di tutti que’ guerrieri. Tutti quanti, benché abbiano contee, ducati e ricchezze, non hanno né coltura né educazione: sono buffoni, e Morgante rappresenta l’idea tipica della buffoneria.
Né questo basta al Pulci; Morgante ha sempre alcune qualità nobili. Ora il poeta gli ha posto accanto, come ultima punta della buffoneria, un compagno, Margutte, beone, mangione, mariuolo, millantatore, re de’ buffoni volgari. Lo riunisce in due canti con Morgante e rappresenta in particolare tutta la loro natura.
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V’ho detto che il centro del comico immaginato da Pulci è il Morgante. Il quale, posto mente alle proporzioni è una superfetazione, un dippiú; tolto il quale tutto andrebbe egualmente bene, ma che rivela il vero ideale comico dell’autore. Comparisce divertendosi con due suoi fratelli a scagliar pietre sovra una badia. Orlando, uccisi i due fratelli, picchia all’uscio di Morgante, mentre questi sognava d’esser allacciato da un serpente, d’aver chiamato più volte Maometto infruttuosamente, e d’esser stato lasciato dal serpente appena aveva invocato Cristo. Saputo che Orlando era cristiano, gli chiede il battesimo. Ma questa conversione non cambia il suo carattere; l’essere morale rimane il medesimo; crede in Cristo perché lo crede più potente di Maometto.
Chi è Morgante? Rassomiglia ad un uomo dell’infima classe, ad un facchino: ha gran forza fisica, e tutte le qualità morali corrispondenti. Quelli che erano eroi, sono rimasti all’ultimo fondo, mentre la società s’è sollevata al di sopra. Morgante ha tanta forza da portare un campanile. Ha una immensa audacia, ossia coscienza della propria forza; ed è un allegro compagnone. E finora non siamo ancora usciti dal facchino. A queste qualità se ne unisce un’altra. È un essere immediato; quando sente esprime subito ciò che sente come lo sente, senza che il mondo esterno possa modificarlo in nulla; mentre, per contrario, l’uomo civile spesso dissimula e talora anche simula.
Morgante è ruvido, stima tutto il mondo un fico. Se date una buona notizia ad un maleducato, gestisce, mugghia; se gliene date una cattiva, se gli dite cosa penosa o dolorosa vi risponde con un pugno. E così fanno appunto Morgante e gli eroi, di cui è simbolo. Quindi tutte le gradazioni comiche che possono trovarsi in una rissa, spariscono, passandosi subito a’ fatti.
Questo è il ritratto di una società barbara. Una prodigiosa forza fisica, con tutte le qualità morali che ne scaturiscono, formano il fondo della società omerica come della società cavalleresca. Questo ritratto era in contrasto con la raffinatissima società italiana, che non poteva che ridere di tutte quelle qualità.
Il Pulci, mettendo in iscena Carlomagno, Rinaldo, Orlando, ha rispettato le tradizioni e non osa abbandonarsi allo spirito comico; è impacciato come chi, volendo ridere d’un altro, si trattenga per rispetto. Ma Morgante è il suo beniamino, il suo tipo, con lui si abbandona. Morgante è forte, e Pulci porta all’assurdo la sua forza; Morgante è audace, e Pulci spinge l’audacia di Morgante fino alla millanteria; Morgante è allegro, e l’allegria diviene una buffoneria da taverna.
Ecco uno de’ fatti più assurdi. Morgante si reca da Manfredonio per liberare Dudone: Manfredonio risponde con un rifiuto alle parole mansuete di Morgante, giurando per Macone di impiccare il suo prigioniero. Prima Morgante, sulle prime, pensa di dargli uno scapaccione, ma poi pensandovi meglio, afferra le corde della tenda, la svelle e se la pone addosso, e comincia a darsela a gambe. I soldati accorrono, e Morgante se ne sbriga a battagliate; ma frattanto, nell’interno di quella specie di bisaccia, accadeva un’altra battaglia fra Dudone e Manfredonio. Come invenzione, questo è un capolavoro di assurdità: il fatto è preso dagli antichi romanzi che lo raccontano seriamente, ma il Pulci vi ha aggiunto il combattimento nella tenda. Tutti i poeti posteriori hanno fatto poi a chi trovasse situazioni più ridicole. Ariosto ha detto che alcuni, penetrati nello stomaco d’una balena, vi vivessero per mesi. E pare che da questa caricatura della forza fisica abbia Rabelais preso l’idea di Pantagruel, il quale allaga con una orinata il campo nemico e fa da ombrello al suo esercito con la lingua lunga due miglia. Rabelais, passeggiando su quella lingua, entra nella bocca e nella gola di Pantagruel e vi trova montagne, pianure, città.
Alla forza fisica succede l’audacia, di cui la millanteria è la parte comica; ché l’audacia, accompagnata da una giusta coscienza delle proprie forze e del loro limite, è cosa seria, e si chiama orgoglio. Ma, quando non è accompagnata dalla coscienza del limite, si chiama vanità e millanteria. Quando il forte si vanta del suo vigore come se fosse tutto, si vanta di far più di quel che possa.
Pulci ha fatto di Morgante un millantatore. Una volta, fatta una gran bravura in presenza di Orlando, gli dice: — Se potessi andare nell’Inferno, scoderei Minos, farei un sorso di Flegetonte, un boccone di Flegias — . Oltre dell’esser ridicolmente forte e millantatore, Morgante è un uomo di taverna, un buon compagnone, che si abbandona spesso al suo buon umore ed ha bisogno di far ridere e di chi lo faccia ridere, con motti equivoci e bassi, doppi sensi di pessimo gusto. L’autore ha ben saputo ricavare quanto più ridicolo poteva da quella sua prontezza e subitaneità.
Morgante è un uomo mascherato sicché dal serio n’esca il grottesco, ma ha qualità degne, bonarietà e lealtà. Non mena pugni che provocato; ben trattato, è buono e credulo, è un grosso fanciullone, ha qualità che ritengono il comico ad una certa altezza. Un altro personaggio rappresenta il comico al di sotto di Morgante.
Il Pulci non ha saputo mai mettere in iscena bene i suoi personaggi; tranne Margutte, che il lettore indovina al primo apparire.0
Giunto Morgante un dì sur un crocicchio. Uscito d’una valle e d’un gran bosco. Vide venir di lunge per ispicchio Un uom che in volto parea tutto fosco. |
Dette del capo del battaglio un picchio In terra e disse: — Costui non conosco — ; E posesi a sedere in sur un sasso. Tanto che questi capitoe al passo. Morgante guata le sue membra tutte. Più e più volte dal capo alle piante. Che gli pareano strane, orride e brutte: — Dimmi il tuo nome, dicea, viandante — . Colui rispose: — Il mio nome è Margutte, Ed ebbi voglia anch’io d’esser gigante. Poi mi penti’ quand’a mezzo fu’ giunto; Vedi che sette braccia sono appunto — . |
Margutte non si spaventa né delle proporzioni né del battaglio di Morgante; ma lo squadra, gli si paragona e gli risponde mettendolo spiritosamente in burla. In effetti, malgrado un’apparente somiglianza, v’è una gran differenza tra’ due: Morgante, il forte, ha bonarietá, lealtá, mansuetudine; Margutte, il debole, ha furberia, spirito e sviluppatissime qualitá spirituali. Morgante è quello che è e non lo sa, Margutte è quello che è e lo sa; Morgante fa ridere inconsciamente; Margutte cerca di far ridere, fa pompa di tutto quel comico e quel disgustoso per cui tocca quasi alla prosa: che ne fanno la palude nella quale stagna la concezione comica del Pulci.
Morgante gli chiede di che religione sia, e Margutte nella risposta mette spiritosamente in ridicolo i dommi religiosi:
— ...Io non credo più al nero ch’ali’azzurro, Ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto; E credo alcuna volta anche nel burro, Nella cervogia e, quando io n’ho, nel mosto, E molto più nell’aspro che il mangurro; Ma sopra tutto nel buon vino ho fede, E credo che sia salvo chi gli crede. E credo nella torta e nel tortello, L’una è la madre e l’altro è il suo figliuolo; Il vero paternostro è il fegatello, E possono esser tre, e due, ed un solo — |
Comparisce come un ghiottone che scherza sulle cose religiose, e questa satira indiretta è fatta spiritosamente, giacché c’è intenzione comica. E qui, fate di non frantendermi. Quando dico che il comico del Pulci è plebeo, buffonesco, non lo biasimo. Dio mio! non può biasimarsi ciò ch’era nello spirito del suo tempo. Noi uomini civili udendo o fiutando alcune cose, ci turiamo naso ed orecchie, ma studiando un autore, dobbiamo esaminarlo secondo lo spirito de’ suoi tempi. Sia pure buffone e plebeo, ma, non si può mai, in nessun modo, venir dispensato dall’essere spiritoso. E fin qui troviamo spirito. Qualche volta è felice anche nel rappresentar la sua ghiottoneria, com’è dove tratta del modo di cucinare il migliaccio ed il fegatello. E bellissimi sono questi due versi sul fegatello:
Che cosí verdemezzo come un fico Par che si strugga quando tu l’azzanni. |
Dopo si presenta come mariuolo, come malandrino, come falsario, e, da ultimo, parla del bestemmiare, del corrompere, ecc., con tutti i vocaboli del tempo. Vi son cose imperfettissime, altre benissimo scritte.
Morgante trova in lui il suo simile: che, infatti, Margutte non è che Morgante imbruttito e reso ignobile. E si mettono in via insieme per raggiungere Orlando. I canti decimottavo e decimonono sono consacrati alle loro imprese. Ne trasceglierò una.
Affamati e sitibondi, giungono ad una fontana, alla quale dissetavasi un liocorno che Morgante uccide con una battagliata. Poi Morgante fa del fuoco, percuotendo col battaglio un macigno, mentre Margutte suppone della paglia. Ma, quando si è al mangiare, Margutte rimane digiuno, giacché Morgante fa sette bocconi per uno dei suoi. In questa scena spicca mirabilmente quanto v’è di comico fra loro. Margutte dice:
— ...Per Dio, tu mangeresti una balena. Non è cotesta gola mai ristucca: Io ti vorrei per mio compagno avere Ad ogni cosa, eccetto ch’ai tagliere — . |
Disse Morgante: — Io vedeva la fame In aria come un nugol d’acqua pregno; E certo una balena colle squame Arei mangiata sanza alcun ritegno, O vero un liofante con l’ossame; Io rido che tu vai leccando il legno — . Disse Margutte: — S’tu ridi, ed io piango, Che colla fame in corpo mi rimango — . |
Qui la forma è perfetta. Dopo trovano un leone, custode d’una fanciulla prigioniera di due giganti. Ucciso il leone, mentre si trattengono con la fanciulla, sopravvengono i due giganti, de’ quali l’uno porta seco un drago e l’altro un orso preso in caccia; e ne succede un parapiglia. Questa è una delle battaglie del Pulci, che destano più interesse; la forma qui rasenta quasi l’eccellenza. Nelle altre si ripete, mostra sazietà; in questo combattimento entrano elementi nuovi: da una parte, c’è letta tra Morgante e Sperante, dall’altra, Beltramo prende a bastonate Margutte, e si trovano alle prese la forza e la malizia. Tutto è rappresentato vivamente, ed il maraviglioso è intramezzato col ridicolo. Come saggio riporteremo l’ottava, dove è rappresentata la caduta di Morgante e Sperante, abbracciati insieme, in un burrone.
E si sentiva un romore, un fracasso, Insin che son caduti in un burrone. Come quando de’ monti cade in basso Qualche rovina o qualche gran cantone; Non vi rimase né sterpo né sasso Dove passò questo gran fastellone, Che rimondorno insino alle vermene, E dettono un gran picchio delle schiene. |
E questo forse uno de’ più bei luoghi del Pulci, che ha meritato quindi d’esser imitato dal Boiardo e dall’Ariosto. Il primo ha imitato il combattimento fra Margutte e Beltramo; l’altro, il combattimento fra Morgante e Sperante. Ma mentre qui la lotta è seria, l’Ariosto rese ridicola quella fra Orlando e Rodomonte.
Dopo succedono altre avventure, in cui il Pulci si ripete. Mentre Margutte dorme, Morgante gli trae gli stivali e li nasconde. Svegliatosi, cercandoli, Margutte trova che una scimia se li misurava; dá in risa, e a forza di ridere finisce per scoppiare. Scorgete qualche cosa d’ironico in questo pensiero di far morir di risa chi aveva riso di tutto.
Morgante, dopo aver presa Babilonia col battaglio, s’imbarca coi Paladini, e mentre rompeva la schiena ad una balena col battaglio, un granchiolino lo ferisce al piede; egli ne sorride, ma dopo pochi giorni la ferita s’infiamma e si invelenisce, finché e’ ne muore.
Tali sono i lineamenti di Margutte e di Morgante, soli personaggi di questo poema che ne abbiano de’ determinati, che vivano. Nondimeno, sono obliati nella storia della poesia. Da che dipende che nulla sia sopravvissuto di questo poema? Dalla forma, che nelle arti è il sine qua non, senza di cui le più belle concezioni rimangono scheletri. Il Pulci fra molte qualità secondarie non possedeva l’eccellenza della forma.
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Ricapitolando diremo che Pulci ha presi i fatti da più autori, ma non ha saputo fonderli e concentrarli in un fatto generale e formarne un tutto di cui ogni invenzione fosse una parte; li ha aggregati, non fusi; non ha avuto neppure forza di organizzare queste parti staccate, sicché, prese per sé, diventassero interessanti punti poetici. Abbiamo visto che i suoi personaggi hanno un carattere torbido, incerto, o non hanno punto carattere: sono esseri morti. La vita manca e nell’insieme e nelle parti. Non ostante, trovammo tre personaggi: Morgante, Margutte e Rinaldo, degni di sopravvivere all’oblio generale del poema.
L’ordito, le invenzioni particolari, i caratteri, compresi questi tre, sono dimenticati perché manca la perfezione della forma. Un concetto frivolo può sperar di sopravvivere se ha eccellenza di forme; se invece un concetto importante n’è privo, potrà vivere come filosofia o dottrina, ma come poesia cadrá nell’oblio.
Badate però ch’io non prendo la forma nel senso pedantesco, in cui è stata presa fino alla fine del secolo passato. Mi spiego. Ciò che prima colpisce è quanto è più facile a percepirsi, le parole, il periodo; a queste si attacca da prima la critica, e queste ha chiamate «forma»; e, dicendo che in essa consiste la eccellenza della poesia, ha avanzata un’opinione erronea, che ha avuto conseguenze funeste anche sopra grandi ingegni.
Vi dirò parlando d’Ariosto in che consista l’eccellenza della forma: adesso basterà darvene un’idea generale.
Se voi considerate un oggetto co’ sensi, cioè da osservatore e sperimentatore, conoscerete un fatto. Tutti veggono, pochi osservano; le facoltà date all’uomo sono inerti nella massa, e solo eminenti negli uomini d’ingegno. Se applicate di più la vostra intelligenza a quel fatto, ordinandolo, coordinandolo e subordinandolo e considerandolo come parte d’una serie di fatti sottoposti a leggi, vi solleverete dal fatto all’idea, facendo un lavoro che dipende non dai sensi ma dall’intelligenza. Se poi noi ci concentriamo nell’oggetto presentatoci, per esempio una donna, ce ne innamoriamo, volendo dipingerlo, senza accorgercene, non restiamo nella realtà pura, togliamo, aggiungiamo, abbelliamo, lo vezzeggiamo, lo accarezziamo, lo facciamo quale vorremmo che fosse. Tutti hanno fantasia, tutti pizzicano del poeta, ma pochissimi hanno avuta in alto grado questa facoltà fantastica.
Non confondete queste tre serie di fatti: appunto dal confonderli è risultato che la critica, per secoli, non ha avuta coscienza del limite della poesia.
Se osservate co’ sensi, avete il fatto; se osservate con l’intelligenza, avete l’idea; se osservate con la fantasia, avete il fantasma; l’oggetto come lo rappresenta il poeta, ha un nome distinto perché ha qualità proprie. Quando il poeta ha innanzi a sé un fantasma, questo non è l’idea pura ma l’idea dotata da lui di sentimenti e forme, corpo spiritualizzato o spirito incarnato. La forma è la trasformazione dell’idea o del concetto in carattere poetico: la creazione del fantasma.
Pulci ha una mezza potenza: per lui l’oggetto rimane puro oggetto. Se fosse grande osservatore, conserverebbe qualche cosa d’interessante di sotto di questa aridità, come Balzac. Ma non è osservatore profondo ed originale, tanto da uscir da luoghi comuni. Trovato l’oggetto (e non ha inventiva, ma lo prende in qualche libro), ne riproduce la corteccia, non interessando né per quello che dice, né pel modo in cui lo dice.
Come non ha l’arte di creare, così non ha neppure quella di sviluppare e rappresentare ne’ diversi periodi il fantasma. Creato il fantasma, subendone la presenza, vi obliate in lui che si muove, vive, sviluppasi; e lo rappresentate come si presenta alla vostra fantasia. L’immaginazione produce questo, da cui dipende il lavoro formativo, come dalla fantasia dipende il creativo. Ciò che fa il gran poeta, che solo ad esso appartiene, è la fantasia: l’immaginazione trovasi e ne’ poeti secondari ed anche in chi non è poeta affatto. Se il Pulci non ha fantasia, ha egli almeno immaginazione? Può dipingere l’oggetto superficialmente e senza trasformarlo nella sua realtà? No, gli manca anche questa facoltà secondaria. I suoi soggetti rimangono aridi: rappresenta in qualche verso azioni che dovrebbero essere lunghissimamente esplicate. Non solo non trasforma l’oggetto, ma lo lascia gretto e grezzo senza lavorarlo, ciò che si chiama lasciarlo in tutta la sua aridità.
Avete mai viste statue egizie co’ due piedi uniti insieme, con le due braccia legate al corpo, con una faccia senza fisonomia? Una statua greca ha invece mani piedi gesti e faccia, espressione: vive. Il Pulci ci presenta statue egizie. Calavrione ed Erminione sono statue egizie, minchioni corrono a Parigi, e minchioni tornano e restano puri nomi. «Vox et praeterea nihil.».
Talora si sforza di colorire, e, chiamando in aiuto la propria memoria, dà gesti e moto ai suoi personaggi: ma gesti e moto inespressivi. Le braccia della statua sono sciolte ma non sa cosa farne.
Luciana, innamorata di Rinaldo, gli dá per ricordo un padiglione. Il Pulci impiega molte ottave a descrivere gli animali che stavano nel giardino d’amore: ma li ha colti in un momento di commozione. Che ha fatto il Pulci? Ha aperto un’opera zoologica ed ha poi ammassati insieme i nomi di tutti quegli animali. Non v’è animale più poetico dell’uccello; ecco come il Pulci ne parla:
Il marin tordo, il bottaccio e ’l sassello, La merla nera e la merla acquaiola. Poi la tordella e ’l frusone e ’l fanello, E il lusignuol ch’ha si dolce la gola, Il zigolo, il bravieri e il montanello. Avelia e capitorza e sepaiuola, Pincione e niteragno e pettirosso, Il raperugiol che mai intender posso. Quivi era la calandra e ’l calderino. Il monaco ch’è tutto rosso e nero, E ’l calenzuol dorato, e il lucherino, E l’ortolano e ’l beccafico vero; Insino al re de le siepe piccino, La cingallegra, il lui, il capinero. Pispola, codirosso e codilungo, E uno uccel che suol beccare il fungo. |
Quando Ariosto descrive una bella donna, non ne descrive tutte le parti, ma il movimento che cattiva l’attenzione di chi la guarda. Ecco come descrive la figliuola del re di Frisia, quando Bireno se ne innamora:
La damigella non passava ancora Quattordici anni, ed era bella e fresca, Come rosa che spunti allora allora Fuor de la buccia, e col sol nuovo cresca. |
che è bionda solo quando Bireno l’abbandona:
E i capei d’oro a chiocca a chiocca straccia. |
Prendete invece Antea, la piú bella fra le donne del Pulci.
E parevan di Danne i suoi crin d’oro. Ella pareva Venere nel volto: Gli occhi stelle eran de l’eterno coro. Del naso avea a Giunon l’esemplo tolto: La bocca e i denti d’un celeste avoro, E ’l mento tondo e fesso e ben raccolto; La bianca gola e l’una e l’altra spalla Si crederria che tolto avesse a Palla. E svelte e destre e spedite le braccia Aveva, lunga e candida la mana, Da potere sbarrar ben l’arco a caccia, Tanto che in questo somiglia Diana: Dunque ogni cosa par che si confaccia, Dunque non era questa donna umana: Nel petto larga quanto vuol misura, Proserpina parea ne la cintura. E Deiopeia pareva ne’ fianchi, Da portare il turcasso e le quadrelle... |
Ha egli almeno immaginazione pe’ sentimenti, tolta a prestito dalla sensibilità? No: non ha cuore; è negato a quanto sa di serio. Abbondano nel poema le situazioni tenere ed affettuose: fanciulle rapite e liberate; giovanette che si gettano dalla finestra abbandonate dagli amanti, o tradiscono il padre; fratelli che si riconoscono. Se ne esce pel rotto della cuffia; o volendo far l’affettuoso, mentre tenta di mascherarsi nel manto di Calliope, gli spuntano le corna del satiro e fa ridere a proprie spese.
Morgante domanda a Fiorinetta, che due giganti avevano rapita ed un leone custodiva, chi fosse. Momento drammatico e serissimo, che vi ricorda subito l’incontro d’Isabella con Orlando:
— ...Isabella son io, che figlia fui Del re mal fortunato di Gallizia: Ben dissi fui: ch’or non son più di lui, Ma di dolor, d’affanno e di mestizia: Colpa d’amor; ch’io non saprei di cui Dolermi più, che de la sua nequizia: Che dolcemente ne’ principi applaude, E tesse di nascosto inganno e fraude... — |
— ...O padre, o madre, o fratelli, o sorelle, O dolce amiche, o compagne, o parente; O membra afflitte, lasse e meschinelle, O vita trista, misera e dolente; O mondo pazzo, o crude e fere stelle, O destino aspro e ’ngiusto veramente; O morte, refrigerio a l’aspra vita. Perché non vieni a me? chi t’ha impedita? È questa la mia patria dov’io nacqui? È questo il mio palagio e ’l mio castello? È questo il nido ov’alcun tempo giacqui? E questo il padre e ’l mio dolce fratello? È questo il popol dov’io tanto piacqui? È questo il regno giusto, antico e bello?. È questo il porto de la mia salute? È questo il premio d’ogni mia virtute? Ove son or le mie purpuree veste? Ove son or le gemme e le ricchezze? Ove son or già le notturne feste? Ove son or le mie delicatezze?... — |
Il povero Pulci è così innamorato di questa forma, ch’egli crede patetica, che la ripete sempre.
Ecco come Costanzo s’indirizza ad Orlando, che gli ha salvato la figliuola:
— Questo è colui che ti scampò da morte? Questo è colui che t’ha dunque prosciolta? Questo è colui ch’è tanto ardito e forte? Questo è colui ch’agli altri fama ha tolta? Questo è colui ch’allegra or la mia corte? Questo è colui per cui non sei sepolta? Questo è colui che uccise il fier gigante? Questo è colui ch’è il gran signor d’Anglante?... — |
Un’altra volta Rinaldo, dopo aver dato un colpo di lancia innocuo ad Antea, se le inginocchia e le fa una dichiarazione amorosa:
— ... Tu se’ colei ch’ogni altra bella avanza: Tu se’ di nobiltá ricco tesoro: Tu se’ colei che mi dai sol baldanza: Tu se’ la luce dell’etterno coro: Tu se’ colei che m’hai dato speranza: Tu se’ colei perch’io sol vivo e moro: Tu se’ fontana d’ogni leggiadria: Tu se’ il mio cor, tu se’ l’anima mia... — |
Ecco come Orlando rimprovera Rinaldo per l’amore che aveva posto ad una pagana:
— ... Ov’è, Rinaldo, ia tua gagliardia? Ov’è, Rinaldo, il tuo sommo potere? Ov’è, Rinaldo, il tuo senno di pria? Ov’è, Rinaldo, il tuo antivedere? Ov’è, Rinaldo, la tua fantasia? Ov’è, Rinaldo, l’arme e ’l tuo destriere? Ov’è, Rinaldo, la tua gloria e fama? Ov’è, Rinaldo, il tuo core? alla dama. |
Parti che ’l tempo sia conforme a questo? Parti che ’l tempo sia da innamorarsi? Párti che ’l tempo sia qui lungo o presto? Párti che ’l tempo sia dover più starsi? Párti che ’l tempo sia tranquillo o infesto? Párti che ’l tempo sia da motteggiarsi? Párti che ’l tempo sia da dama o lancia? Párti che ’l tempo sia d’andarne in Francia? A questo modo il regno in pace aremo? A questo modo acquisterai corona? A questo modo Antea qui abbatteremo? A questo modo andrem poi in Babillona? A questo modo la fede alzeremo? A questo modo or di te si ragiona? A questo modo se’ fatto discreto? Misero a me! ch’io non sarò mai lieto! — |
Al Pulci manca e la rappresentazione delle forme, e la rappresentazione delle azioni, e la rappresentazione de’ sentimenti. Offre egli almeno qualche cosa d’importante: nelle minuzie, nel maneggio dell’ottava, nella scelta delle rime? nel saper adattare il linguaggio alle idee che vuole esprimere? Conosce la melodia e l’armonia?
Per lo più, fa versi perché ha annunziato di voler far versi; per versi intende undici sillabe, con il debito numero d’accenti; e spesso tratta superbamente gli accenti.
Il verso è un fenomeno esterno, che deve supplire qualche cosa al pensiero, al sentimento, come la musica al libretto. Il Pulci non comprende né il verso né l’ottava rima, ch’è una sola idea sviluppata e circondata da circostanze accessorie; e che potrebbe chiamarsi il metro dell’immaginazione: ed infatti in ottava rima sono scritti tutti i poemi cavallereschi. I versi del Pulci sono staccati, e spesso anche scuciti. Manca spesso anche la connessione logica. Il soggetto cambia e ricambia secondo il bisogno della rima. Generalmente l’ottava non soggiace alle regole dell’armonia e della melodia: in qualche momento felice gliene scappa una bella. Anche per questa parte è mediocre e difettoso.
Che vivrá dunque di lui?
L’essere stato il primo che sentisse come la grande epopea del Medio evo se ne andasse in dissoluzione: e che sulla fine del secolo decimoquinto tentasse di abbattere con la caricatura i dommi della forza brutale, la fede ne’ miracoli, tutta quella parte mistica. Non è riuscito a farlo in massa; è una caricatura sbagliata; nondimeno è riuscito nei particolari comici. Dovunque trova materia che gli si confaccia, è inarrivabile.
Vi è monotonia nel suo contenuto comico-buffonesco e nella forma, che si riduce a fínger di parlare seriamente ed a scoprire poi l’intenzione ridicola col linguaggio sconveniente, co’ paragoni sciocchi, con le idee ridicole che vi aggiunge. Cosi, finendo la descrizione d’una battaglia, dice che Orlando aveva fatta una gelatina. Cosi, per dare l’ultima pennellata alla bellezza d’Antea, dice che era tale «da fare spalancar sei paradisi». È monotono: ma lo sa essere stupendamente. Ecco come parla Rinaldo, dopo liberato Astolfo, desideroso di uccidere Carlomagno:
Dicea Rinaldo: — Ignun non mi dia impaccio: Io intendo a Carlo far quel ch’è dovere: Come vedete ch’io le man gli caccio Addosso, ognun da parte stia a vedere; La prima cosa il vo’ pigliar pel braccio, E levarlo di sedia da sedere; Poi la corona di testa cavargli, E tutto il capo e la barba pelargli. E mettergli una mitera a bendoni, E ’n sul carro d’Astolfo farlo andare Per tutta la cittá, come i ladroni; E farlo tanto a Gano scorreggiare. Che sia segnato dal capo a’ talloni; E l’uno e l’altro poi farò squartare; Ribaldo vecchio, rimbambito e pazzo! — |
Dovrei io essere più severo di quello ch’e’ sia stato per se stesso? Gl’Italiani sognavano allora un nuovo fiore della poesia antica. Questo contemporaneo del Poliziano non s’illudeva. Era modesto, non vuole aver gente colta per uditori:
Anzi non son presuntuoso tanto, Quanto quel folle antico citarista, A cui tolse già Apollo il vivo ammanto; Né tanto satir, quant’io paio in vista; Altri verrà con altro stile o canto, Con miglior cetra, e più sovrano artista; Io mi starò tra faggi e tra bifulci. Che non disprezzin le muse del Pulci. Io me n’andrò colla barchetta mia, Quanto l’acqua comporta un piccol legno; E ciò ch’io penso colla fantasia. Di piacere ad ognuno è ’l mio disegno: Convien che varie cose al mondo sia, Come son vari volti e vario ingegno, E piace all’uno il bianco, all’altro il perso, O diverse materie in prosa o in verso. Forse coloro ancor che leggeranno. Di questa tanto piccola favilla La mente con poca esca accenderanno De’ monti o di Parnaso o di Sibilla; E de’ miei fior come ape piglieranno I dotti, s’alcun dolce ne distilla: Il resto a molti pur darà diletto, E lo autore ancor fia benedetto. |
Ha un presentimento d’ingegni maggiori che debbono compiere l’opera sua, di un risorgimento italiano; e depone la penna, compiaciuto di questi nuovi splendori.