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46 | la poesia cavalleresca |
Dette del capo del battaglio un picchio In terra e disse: — Costui non conosco — ; E posesi a sedere in sur un sasso. Tanto che questi capitoe al passo. Morgante guata le sue membra tutte. Più e più volte dal capo alle piante. Che gli pareano strane, orride e brutte: — Dimmi il tuo nome, dicea, viandante — . Colui rispose: — Il mio nome è Margutte, Ed ebbi voglia anch’io d’esser gigante. Poi mi penti’ quand’a mezzo fu’ giunto; Vedi che sette braccia sono appunto — . |
Margutte non si spaventa né delle proporzioni né del battaglio di Morgante; ma lo squadra, gli si paragona e gli risponde mettendolo spiritosamente in burla. In effetti, malgrado un’apparente somiglianza, v’è una gran differenza tra’ due: Morgante, il forte, ha bonarietá, lealtá, mansuetudine; Margutte, il debole, ha furberia, spirito e sviluppatissime qualitá spirituali. Morgante è quello che è e non lo sa, Margutte è quello che è e lo sa; Morgante fa ridere inconsciamente; Margutte cerca di far ridere, fa pompa di tutto quel comico e quel disgustoso per cui tocca quasi alla prosa: che ne fanno la palude nella quale stagna la concezione comica del Pulci.
Morgante gli chiede di che religione sia, e Margutte nella risposta mette spiritosamente in ridicolo i dommi religiosi:
— ...Io non credo più al nero ch’ali’azzurro, Ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto; E credo alcuna volta anche nel burro, Nella cervogia e, quando io n’ho, nel mosto, E molto più nell’aspro che il mangurro; Ma sopra tutto nel buon vino ho fede, E credo che sia salvo chi gli crede. E credo nella torta e nel tortello, L’una è la madre e l’altro è il suo figliuolo; Il vero paternostro è il fegatello, E possono esser tre, e due, ed un solo — |