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iii. il «morgante» 35

Il famiglio del gigante governa il cavallo di Dudone e quello di Ulivieri; ma, quando giunge a Baiardo, il fiero cavallo lo prende con la bocca e ne fa strazio:

Disse Rinaldo: — Appiccata è la guerra;
Lo scotto pagherai tu, mi cred’io;
Vedi che spesso il disegno altrui erra — .

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     Rinaldo l’ebbe alla fine in dispetto,
Però che diluviava a maraviglia,
E cadegli la broda giù pel petto;
Guardò piú volte, e torceva le ciglia.
Poi disse: — Saracin, per Macometto,
Che tu sei porco, o bestia che ’l somiglia!
Io ti prometto, s’tu non te ne vai.
Farò tal giuoco che tu piangerai — .
     Disse il pagan: — Tu debb’esser un matto,
Poiché di casa mia mi vuoi cacciare — .
Disse Rinaldo: — Tu vedrai bell’atto! — .
Il Saracin non se ne vuole andare,
E nel paiuol si tuffava allo imbratto.
Rinaldo non poté più comportare;
Il guanto si mettea nella man destra,
Tal che gli fece smaltir la minestra,
     Ché gli appiccò in sul capo una sorba.
Che, com’e’ fussi una noce, lo schiaccia;
Non bisognò che con man vi si forba,
E morto nel paiuol quasi lo caccia...

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Disse Rinaldo: — Come san costoro.
Non vo’ mai noia, quand’i’ sono a desco,
E sto come ’l cavai sempre in cagnesco.
     Venne a mangiar qua uno; io lo pregai
Che se n’andassi, e’ non curò ’l mio dire;
Mangiato non parea che avesse mai.
Ed ogni cosa faceva sparire.