La fine di un Regno/Parte II/Capitolo XVI
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CAPITOLO XVI
Prima ancora che Garibaldi e Bixio, nella notte sopra il 20 agosto, sbarcassero a Melito; e Cosenz e Assanti, all’alba del 22 sbarcassero a Favazzina, tra Scilla e Bagnara, la rivoluzione era matura nelle popolazioni calabresi e lucane. Il Comitato insurrezionale di Basilicata, il quale aveva sede a Corleto, giunti che furono colà Boldoni, Albini, Mignogna e Lacava, proclamò, la sera del 16 agosto, in casa Senise, la rivoluzione, al grido di Garibaldi dittatore, Italia e Vittorio Emanuele; affidò il comando delle forze insurrezionali al Boldoni e nominò capo dello stato maggiore Carmine Senise, oggi senatore e già prefetto di Napoli. Da casa Senise usci il drappello rivoluzionario, preceduto dalla bandiera tricolore, con la croce di Savoia che le signorine di quella famiglia avevano cucita con le loro mani. Anima della insurrezione era Giacinto Albini di Montemurro, il quale, intermediario tra il Comitato dell’Ordine e i non molti patriotti della provincia, era stato con suo fratello Niccola, Carmine Senise, dianzi ricordato, e Pietro Lacava, a capo della decennale cospirazione. Il Comitato di Corleto, del quale faceva parte anche Domenico de Pietro, aveva larghe diramazioni in tutta la provincia; avendo fino dall’anno innanzi istituito de’ sottocomitati rivoluzionarii, con uno o più capi. A Miglionico c’era Giovan Battista Matera; a Montescaglioso, Francesco Lence; a Saponara, Giulio Giliberti; a Potenza, Orazio Petruccelli, Cammillo Motta e il prete Rocco Brienza; a Pietragalla, Saverio de Bonis; ad Avigliano, Niccola Mancusi; a Genzano, Federico Mennuni; a Rotonda, Berardino Fasanella; a Saponara, il padre Serafino da Centola; a Castelsaraceno, il padre Giuseppe da Canfora. Di tutti i componenti non ricordo i nomi, ma sono esattamente registrati nella Cronistoria di Michele Lacava, miniera ricchissima di documenti di quel tempo, e nel libro del Racioppi sui moti di Basilicata. E dicasi altrettanto di parecchie altre provincie del continente, nelle quali, dove più, dove meno, esistevano Comitati dell’Ordine, che contavano affiliati tra le diverse classi dei cittadini, principalmente nella borghesia agiata. I comandanti delle guardie nazionali vi erano ascritti, generalmente; e ascritti, quasi tutti gli studenti, e quanti erano giovani dai sedici ai trenta anni; nè mancavano preti, frati e seminaristi; ed in tutti era una gara nel raccogliere danaro e armi, e nell’apparecchiarsi a insorgere.
Il primo drappello d’insorti, giunto a Corleto, fu quello di Pietrapertosa, comandato da Francesco Garaguso. Era partito tra canti e suoni, e il giovane Michele Torraca ne salutò la partenza declamando, vestito da seminarista, sulla piazza del suo borgo alpestre, una poesia patriottica. Un’altra colonna d’insorti si concentrava a Genzano, sotto il comando di Davide Mennuni e un’altra ad Avigliano sotto il comando di Niccola Mancusi, prete. La colonna di Genzano, oltre ai genzanesi, raccoglieva gl’insorti di Forenza, Acerenza, Mascheto, Palmira e Spinazzola: in tutto, 286 uomini, dei quali trenta erano spinazzolesi, giunti a Genzano la sera del 17 agosto, sotto il comando di Vincenzo Agostinacchio. La colonna di Avigliano raccoglieva volontari di Avigliano, Ruoti e Rionero. Col capitano Castagna, che comandava i quattrocento gendarmi della provincia, da lui raccolti a Potenza, dove il 12 agosto era giunto il nuovo intendente Cataldo Nitti, avevano iniziate pratiche per una capitolazione Giovanni Giura ed Emilio Petruccelli, ufficiali della guardia nazionale. Il Castagna aveva loro risposto: “Io non deporrò le armi; “se gli insorti saranno in tal numero, che io non possa affrontarli con la certezza di batterli e disperderli, mi ritirerò; ma in caso opposto li attaccherò, essendo questo il mio dovere; in ogni caso risparmierò la città„. Gl’insorti, dei quali parlava il Castagna e che si riteneva sarebbero i primi arrivati a Potenza, la mattina del 18, dalla parte opposta a quella donde si attendevano gl’insorti di Corleto, erano le colonne del Mennuni e del Mancusi.
Il Castagna era dunque sull’avviso da parecchi giorni; e poichè correvano voci inquietanti per la città, e da un momento all’altro si attendevano gl’insorti, si era dapprima rifiutato all’invito del procuratore generale, Michelangelo de Cesare, oggi senatore del Regno, di mandare a Matera dei gendarmi per ristabilirvi l’ordine, dopo la carneficina dell’otto agosto. E fu solo più tardi, che pentito del rifiuto, e spinto da nuove insistenze, del De Cesare, ne spedi una quarantina con un tenente. E fu provvidenziale, perchè pochi giorni dopo, in quella città, dove era rimasto il vecchio sottointendente Frisicchio, si fu a un punto di veder rinnovate le scene di sangue, potute evitare anche mercè l’opera del ricevitore distrettuale, barone De Flugy, giovane elegante e animoso, il quale corse dal sottointendente e chiamò responsabili lui e l’ufficiale dei gendarmi di quanto poteva accadere. Nè il Frisicchio nè l’ufficiale erano disposti a far nulla, e probabilmente una seconda carneficina avrebbe insanguinata Matera; ma le coraggiose parole del De Flugy indussero quei due a disporre che i gendarmi, divisi in drappelli, sciogliessero i gruppi di contadini minacciosi e, arrestandone alcuni, riuscissero a mantenere l’ordine. Il De Flugy, figliuolo del generale, vive tuttora, ed. è il padre Romarico de Flugy d’Aspermont, abate generale della Congregazione Cassinese della primitiva osservanza. Le colonne del Mennuni e del Mancusi marciarono su Potenza la sera del 17 e accamparono a poca distanza dalla città. La mattina del 18, il Castagna raccolse i suoi gendarmi sulla spianata di San Rocco, per andar loro incontro o per eseguire una ricognizione innocente, come disse. I cittadini di Potenza credettero invece che si allontanasse per non tornarvi più. Ma, dopo poco tempo, ecco che i gendarmi inopinatamente rientrano in città in attitudine minacciosa, fanno fuoco sui cittadini, che erano corsi alle armi, ammazzano una diecina di persone e poi se la battono verso Pignola, Tito e Picerno, dove furono, di mano in mano, disarmati da poche guardie nazionali di Tito, comandate dall’intrepido Ulisse Caldani, una delle più simpatiche e generose figure di quel periodo. Molto verosimilmente il Castagna, viste dalle alture di San Rocco le bande accampate, comandò l’occupazione della città e del quartiere della guardia nazionale; altrimenti la sua mossa non avrebbe spiegazione. Ma, incontrata l’impreveduta resistenza in città, e temendo di trovarsi fra due fuochi, ordinò la ritirata, che in breve divenne sbandamento. Avevano appena i gendarmi lasciata la città, erano le dieci antimeridiane, che i liberali di Potenza mandarono Giovanni Corrado e Rocco Brienza a chiamare gl’insorti, i quali non si fecero attendere. Entrò prima la colonna di Genzano, poi quella di Avigliano; e verso sera, gl’insorti di Corleto, con Boldoni, Senise e Mignogna.
L’intendente Nitti convocò tutte le autorità, per consigliarsi sui provvedimenti da prendere. E di quell’adunanza ecco il verbale, redatto, dal sottointendente, che fungeva da segretario, Raffaele Ajello: documento caratteristico che vede qui la luce per la prima volta:
Noi Cataldo Nitti, intendente della provincia di Basilicata, abbiamo fatto venire alla nostra presenza i signori don Luigi Cioffi, maggiore funzionante da comandante le armi nella provincia pel titolare infermo; don Raffaele d’Agnese, presidente della Gran Corte criminale; don Francesco Guidi, presidente del Tribunale civile; don Michelangelo de Cesare, procuratore generale funzionante; don Raffaele Piscione, regio procuratore funzionante; i giudici criminali: don Giuseppe Martino, don Michelangelo Durante, don Giuseppe Altobelli e don Leopoldo de Luca; il giudice civile don Francesco Barone; il giudice regio don Luigi Scorza, il supplente don Giovanni Andrea Bononati; il sindaco don Luigi Lavanga; il commissario di polizia don Giovanni Pepe, ed i signori don Raffaele Ajello, sottointendente destinato a consigliere, don Francesco Berni e don Carmine Montesano, consiglieri; ed abbiamo loro fatta la seguente proposta:
- Signori!
La condizione attuale della Provincia è pur troppo nota alle SS. W., perchè i gravissimi fatti che la costituiscono in questo stato, si sono compiuti, e si compiono tuttavia sotto gli occhi di tutti.
I contingenti di uomini armati, che da tutt’i Comuni della Provincia son qui arrivati, e che per diverse direzioni si spingono innanzi, indicano abbastanza qual’è lo spirito di essa, e lo dichiarano vieppiù i sanguinosi fatti, che nella giornata di ieri si sono in questa città compiuti.
I capi di questo movimento si sono a me presentati questa mane, e mi hanno dichiarato ch’essi sono risoluti ad assumere il governo provvisorio della Provincia, per attuarlo secondo i loro principii, ed allontanare i mali dell’anarchia.
Obbligato a rispondere nel più breve termine, ho creduto mio dovere convocare le SS. vv., onde; manifestarvi che non essendovi come conservare lo stato normale che perdurò sino a ieri mattina, sorge la necessità di deporsi da noi intendente i nostri poteri.
Gl’intervenuti tutti convengono che lo stato di questa città e della Provincia è quale si è (prospettato dal signor intendente, e stimano che nell’attualità ogni opposizione non farebbe che richiamare maggiori mali, e compromettere la pubblica tranquillità.
firmato: Cataldo Nitti.
Seguono le altre firme. Una copia conforme all’originale fu sottoscritta dal segretario sottointendente Ajello.
La notte del 18 agosto, in casa Viggiani fu costituito il governo prodittatoriale. Si pensò prima di formare un governo provvisorio di cinque persone, del quale avrebbero fatto parte Giacinto Albini, Niccola Mignogna, Cammillo Boldoni e Carmine Senise; ma, essendo insorte difficoltà per la scelta del quinto nome, si addivenne alla prodittatura, e Boldoni e Senise ebbero il comando militare.
La mattina del 19, fu proclamato difatti il governo prodittatoriale con Albini e Mignogna prodittatori, e Boldoni comandante in capo delle forze insurrezionali. Fu anche fondato un giornale ufficiale, che si chiamò II Corriere lucano. L’intendente, invitato a prender parte al nuovo governo, dignitosamente rifiutò; e, non riconoscendo altra autorità legittimamente costi.tuita, che quella del municipio, ad esso rimise il governo della città. Come a Napoli pervenne la notizia dei fatti di Basilicata, il ministero ordinò al sesto reggimento di linea, di stanza a Salerno, di muovere immediatamente per Potenza a combattere r insurrezione. Era un reggimento estero, formato in gran parte da bavaresi. Partì infatti; ma, giunto ad Auletta, fu richiamato, chi disse per riunirlo alle forze che si concentravano a Salerno, e chi affermò, per effetto di una lettera dell’Albini a Liborio Romano. La verità è, che, giunta la notizia che il reggimento era in marcia su Potenza, fu grande la commozione nella città, prevedendosi un eccidio e forse la fine dell’insurrezione, la quale disponeva di vecchie armi e di non molti armati. Il governo prodittatoriale fece quindi partire per Napoli, nella notte dal 20 al 21, Pietro Lacava, dando a lui, non una lettera, come si disse, ma la copia degli atti dell’insurrezione che il Lacava nascose in fondo alla vettura. E partì. Giunto in Auletta, si trovò in mezzo ai soldati bavaresi, che lo avrebbero fucilato, se fosse stata perquisita la carrozza. Lo salvò un vecchio prete chiamato Caggiano, il quale diè a credere agli ufficiali che quel giovane era figliuolo del giudice Baccicalupi, destituito dal governo insurrezionale. E fu così che il Lacava passò. Giunto a Napoli, andò subito da don Liborio, a casa, e gli espose la gravità della situazione e tutt’i pericoli di un eccidio, perchè il governo insurrezionale disponeva, come fece intendergli, di molte forze, e aveva il favore delle popolazioni di tutta la provincia. Don Liborio però non rispose e non promise nulla. Lacava non mancò d’informare di tutto anche i due Comitati, invocando il loro concorso per scongiurare il pericolo che correva la rivoluzione.
Intanto le forze insurrezionali si erano concentrate a Vietri di Potenza, a poca distanza da Auletta, ed avendo il colonnello Boldoni deciso l’attacco delle truppe borboniche per la notte dal 22 al 23 agosto, queste abbandonarono precipitosamente il campo e si misero in ritirata verso Salerno. Il 23, la cavalleria insurrezionale che le insegui, potè solo impadronirsi di molti carri della retroguardia, con vettovaglie e foraggi. Due giorni dopo furono richiamati da Eboli due reggimenti bavaresi, che vi avevano formato una specie di campo trincerato, e così rimase libero il passo alla rivoluzione fino a Salerno. Questa si allargò in tutta la Basilicata e si estese nella vicina provincia di Avellino, senz’altre difficoltà. Il traffico ordinario per quei luoghi era aperto e continuato, e senza veri pericoli, nonostante l’accampamento dei soldati borbonici. Da Napoli vi andavano ogni giorno volontarii e gente d’ogni colore, e a Napoli si accedeva liberamente, senza subire arbitrii polizieschi nè sorveglianza di sorta.
A Cosenza, il Comitato rivoluzionario, composto da Donato Morelli, Pietro e Carlo Compagna, Francesco Guzolini e Domenico Frugiuele, era divenuto governo di fatto. Intestava i suoi decreti: Italia e Vittorio Emanuele, faceva dai Comuni della provincia proclamare decaduta la dinastia, mentre a Cosenza erano tremila uomini di guarnigione, comandati dal brigadiere Caldarelli. L’intendente Giliberti, vecchio liberale, repugnando da misure di rigore, mandò le sue dimissioni il 22 agosto, e il municipio, a titolo di onore, gli conferiva la cittadinanza cosentina. La sera del 25, lui presente, e presenti due colonnelli della guarnigione, il Comitato insurrezionale, seguito da una folla di rivoluzionarli e di gridatori, si riunì nell’Intendenza, dove Donato Morelli, dopo aver descritte le miserande condizioni dell’esercito in Calabria, e annunziato che Garibaldi si avanzava fra i tripudii delle popolazioni e gli sbandamenti dei regi, propose che la guarnigione fraternizzasse col popolo. L’intendente dimissionario non fiatò, e i due colonnelli promisero di riferir tutto al comandante in capo.
Il Comitato insurrezionale di Terra di Bari, preseduto da Luigi de Laurentiis, e di cui facevano parte, tra gli altri, Candido Turco, sindaco di Altamura, Pietro Tisci di Trani, Riccardo Spagnoletti di Andria, Raffaele Rossi di Spinazzola, Vincenzo Rogadeo di Bitonto, Girolamo Nisio di Molfetta, Cammillo Morea di Putignano, il francescano padre Eugenio da Gioia, e Ottavio Serena, che ne era il segretario, aveva aderito, sin dal giorno 21, al Comitato dell’Ordine, cioè alVunità nazionale con Vittorio Emanuele, Re dell’Italia una ed indipendente. Il 30, proclamò il governo provvisorio, con un triumvirato, composto da De Laurentiis, Rogadeo e Teobaldo Sorgente. Il giorno 22 era giunto intanto in Altamura il nuovo sottointendente Francesco Campanella, ex giudice regio, destituito nel 1849 per le sue opinioni liberali. Alto, magro e non senza qualche pretesa di eleganza, questo curioso tipo di sotto intendente costituzionale non turbò affatto l’opera del Comitato rivoluzionario, anzi, chiusosi in casa, scrisse, prima un manifesto e poi un sonetto ... . a Vittorio Emanuele, chiedendo il permesso al segretario Serena di stampare e l’uno e l’altro nella tipografia, che il Comitato aveva aperta nei locali terreni della sottointendenza. Il manifesto sospingeva tutti alla mèta, cui il dito di Dio ci ha incamminati; e il sonetto, piuttosto arrembato, cominciava:
Principe invitto, cui sta tanto a cuore |
Questo Campanella era già membro del Consiglio direttivo del Comitato di Putignano, dove, prima ancora dello sbarco di Garibaldi, era stato trasferito da Trani il Comitato centrale della provincia, per sospetto di tradimento, che si era avuto da parte di un tale, che fu visto un giorno uscire dal palazzo dell’Intendenza di Bari.
Quando ad Altamura si costituì il governo provvisorio, i regi, sotto il comando del Flores, erano accampati a Toritto e la città mancava di armi e munizioni. Boldoni avea un bel dire: armatevi, armatevi, ma dentro Altamura non si trovava che Mennuni con pochi uomini male armati e peggio equipaggiati, e si trovavano pochi volontarii, venuti da alcune città della provincia. Gli altamurani temevano quindi da un momento all’altro un assalto da parte dei regi; quando a rassicurarli, Girolamo Nisio loro promise che avrebbe mandato da Molfetta due vecchi cannoni di trabaccolo, che servivano per gli spari della festa di San Corrado. Difatti, tornato a Molfetta, il Nisio ottenne da Tommaso Panunzio, impiegato regio e console d’Austria, quei cannoni, e a sue spese, sotto la scorta di suo fratello Luigi, volontario della colonna di Trani, li mandò in Altamura. I due cannoni furono impostati alla porta di Bari; ma se gl’insorti, i quali con quei due pezzi da museo si credevano invincibili, li avessero adoperati, mal sarebbe colto loro, anzichè ai nemici. In Capitanata il Comitato dell’Ordine temeva si volesse proclamare il governo provvisorio, sotto l’influenza del Comitato d’Azione, che vi aveva proseliti, e inviò colà Cesare de Martinis per impedirlo. Il De Martinis, nativo di Cerignola, benchè giovanissimo, aveva molto seguito in quella provincia; egli vi andò con commendatizie e duemila ducati datigli dal D’Afflitto, per conto del Comitato dell’Ordine. Ebbe a superare non poche difficoltà, ma riusci a non far proclamare a Foggia il governo provvisorio. I danari servirono ad ottenere lo sbandamento di alcuni ufficiali e di parecchi soldati della colonna di Flores, che dalle Puglie tornavano a Napoli, anzi tutta la somma fu audacemente offerta allo stesso generale da Achille de Martinis, padre di Cesare e sindaco di Cerignola. Il Flores rifiutò, dichiarando che non avrebbe mai rivolte le armi contro i patrioti, ma non avrebbe neppur permesso lo sbandamento della colonna, che riportò quasi intatta sino ad Ariano, benchè uno squadrone del secondo reggimento dei dragoni avesse gran voglia di buttare le armi. La maggior parte della somma fu restituita dal De Martinis al D’Affitto.
L’Abruzzo pareva tranquillo. L’insurrezione vi scoppiò più tardi, ma vi covava da qualche tempo. Nella provincia di Chieti vi eran tre Comitati, uno per circondario. Di quello di Chieti era anima Raffaele de Novellis; del Comitato di Lanciano, Tommaso Stella; e di quello di Vasto, Silvio Ciccarone, che comandava la guardia nazionale. Questi egregi cittadini, e specialmente il Ciccarone e il De Novellis, erano devoti a Silvio Spaventa. A Teramo l’azione divenne più apparente, dopo che uscirono dalla fortezza di Pescara i patrioti che vi erano stati chiusi. La fortezza restò vuota per lo sbandamento della guarnigione, avvenuto dopo il conflitto fra il 12° cacciatori e alcune compagnie di zappatori minatori. Aquila pareva tranquilla, ma quella tranquillità non affidava.
Dopo l’occupazione di Reggio e i primi successi militari, la rivoluzione si affermò nelle tre Calabrie e nelle provincie di Bari, Potenza, Avellino e Benevento. I pochi divennero molti, e poi tutti. Fosse improvviso sentimento d’italianità, o desiderio del nuovo, paura di navigar contro la corrente, certo è che si raccoglievano in larga copia armi e danari; si scrivevano proclami incendiarli; si armavano giovani; si mobilizzavano guardie nazionali; si sottoscrivevano impegni e obblighi di fornire contingenti armati, e questi si armavano con fucili d’ogni specie, con pistoloni, colubrine, vecchi fuoconi, picche, forche, spiedi e mazze con coltelli attaccati in cima: era tutto l’arsenale del 1820 e del 1848, che rivedeva il sole.
Ad Avellino, che ubbidiva esclusivamente al Comitato dell’Ordine, dirigevano il movimento, oltre al De Concily, il professor Francesco Pepere, Raffaele Genovese, Florestano Galasso, Angelo Santangelo, Cesare Oliva, Vincenzo Salzano, Vincenzo de Napoli, che fu uno dei più ardenti e dei più generosi, e che dopo il 1860 organizzò pure e mantenne a sue spese una compagnia per combattere il brigantaggio, e poi Onofrio Parente, Pasquale Piciocchi e il padre Nitti: tutti giovani di rispettabile posizione sociale. Cesare Oliva, tornato dall’esilio, era corso nella sua provincia nativa a portare l’aiuto del suo braccio e della sua mente. Il padre Nitti era scolopio, rettore del collegio e faceva da cassiere del Comitato. Francesco Pepere aveva chiuso lo studio, ed era andato tra i suoi conterranei ad aiutare il movimento, soprattutto come intermediario fra il Comitato dell’Ordine ei liberali avellinesi. Ad Avellino era avvenuto, qualche tempo innanzi, un doloroso conflitto tra i cittadini e i soldati bavaresi, i quali avrebbero insultati o provocati alcuni operai, che .addobbavano il quartiere della guardia nazionale o, secondo altri, sarebbero stati da costoro malamente offesi. La verità non si è saputa ancora con certezza. Il conflitto avrebbe potuto degenerare in un eccidio, se il colonnello Santamaria, comandante lo squadrone di carabinieri a cavallo, di stanza in quella città, non si fosse interposto con i suoi uomini; e se il giorno dopo, i bavaresi non avessero lasciato Avellino, per raggiungere il proprio reggimento a Nocera dei Pagani. I rivoluzionarli mossero, la notte del 2 settembre, con altri insorti alla volta di Ariano, per proclamarvi il governo provvisorio, mettendovi a capo il vecchio colonnello De Concily; ma, la mattina del 4, quei terrazzani, messi su dai reazionarii, che avevano dato loro ad intendere che gl’insorti volevano portar via la statua d’argento di Sant’Oto, patrono della città, assalirono le squadre insurrezionali, che arrivavano alla spicciolata, e ne fecero una strage. Rimasero sul terreno oltre duecento morti. Da Ariano i superstiti, col De Concily a capo, con Vincenzo Carbonelli, destinato al comando dell’esercito rivoluzionario irpino, con Rocco Brienza, delegato del governo provvisorio di Basilicata e con altri animosi, uscirono in gruppo e coi fucili spianati, riparando a Greci, dove si fermarono una notte e un giorno, ma furono costretti a sloggiarne per l’avvicinarsi del generale Flores e della sua colonna. Il 6 settembre proclamarono il governo provvisorio a Buonalbergo.
Beniamino Caso aveva organizzata a Piedimonte d’Alife, sua patria, la legione del Matese che era una compagnia di 120 uomini, duce Giuseppe de Blasiis, il quale aveva per suoi ufficiali Pasquale Turiello, Francesco Martorelli, Gioacchino Toma ed Eduardo Cassola, divenuti poi notissimi, per ufficii occupati e opere d’ingegno. De Blasiis era stato spedito dal Comitato dell’Ordine. Questa legione, armata di buoni fucili, di cui l’aveva provveduta una nave sarda, ancorata nel porto di Napoli, era la sola banda insurrezionale da Napoli in su; e i paesi, nei quali operava, non erano favorevoli, come la Calabria, la Puglia e la Basilicata, anzi vi erano più frequenti le reazioni delle plebi contro la borghesia liberale. Essa proclamò a Benevento la caduta del potere temporale dei Papi nel Regno di Napoli, e contribuì a domare la reazione di Ariano.
A Benevento, sin dai primi giorni di agosto, il governo pontificio, che nell’ultimo decennio era stato equanime e mite, del che gli va resa giustizia, come è debito pur renderla anche all’ottimo arcivescovo cardinal Carafa, non esisteva che di nome. Le poche truppe, ivi di guarnigione, avevano abbandonate le caserme, e sui monti di Paupisi si erano unite al De Marco. Il Comitato insurrezionale era composto di Salvatore Rampone presidente, Domenico Mutarelli, Giacomo Venditti e Francesco Rispoli segretario.
Il Rampone, uomo ardito e tenace, il quale nel 1849 aveva servita la repubblica romana, era in continui carteggi coi due Comitati di Napoli; e dal Comitato di Azione riceveva il 26 agosto questa lettera caratteristica, che vai la pena di riferire:
Il Comitato Unitario Nazionale, conoscendo che cotesto Comitato di Benevento da più tempo operosamente lavora per raggiungere l’unità e la libertà d’Italia, sotto lo scettro costituzionale di Vittorio Emanuele, dichiara che tenendosi da costà unità di azione con le provincie del Regno, fin da ora si considera come capoluogo di provincia napoletana, e quindi questo Comitato farà si che ad ogni costo si realizzi tale promessa, non abbandonando giammai i Beneventani alla discrezione del governo pontificio.
In quella città, i preti, gli scolopii e perfino gli stessi domenicani, favorivano le aspirazioni liberali: tutti i cittadini, atti alle armi, erano divisi in sezioni e armati. Il decreto, col quale fu proclamata la caduta del potere temporale del Papa, porta la data del 3 settembre, ed eccolo, nella sua integrità, pubblicato qui la prima volta:
In nome di Vittorio Emanuele Re d’Italia — Dittatore Garibaldi — Provincia di Benevento: “Le forze insurrezionali beneventane hanno dichiarato decaduto il governo pontificio, ed hanno costituito un governo provvisorio, composto dei cittadini Salvatore Rampone, Giuseppe de Marco, Domenico Mutarelli, Niccola Vessichelli, marchese Giovanni de Simone, Gennaro Collenea„.
Appena questo decreto fu sottoscritto, Giuseppe de Marco, che aveva gran seguito in quei luoghi e fu benemerito della causa liberale, capovolse il ritratto di Pio IX, che pendeva da una parete della stanza dov’erano; e Martorelli e Cassola vi posero innanzi due baionette incrociate. È rimasto celebre, tra i superstiti della “legione„ del Matese, un motto del Turiello, grave e solenne anche allora, che era quasi ventenne. Uscendo la compagnia da Piedimonte, abbattè gli stemmi borbonici nel primo paesello per il quale passò; e, compiuto l’atto rivoluzionario, Turiello uscì gravemente in queste parole: “Ed ora, o signori, siamo fucilabili„. Il moto rivoluzionario di Benevento, se non ebbe importanza intrinseca, contribuì forse a far abbandonare il piano di difesa proposto da Pianell, di attendere Garibaldi fra Eboli, Salerno e Avellino. In uno degli ultimi consigli di guerra, preseduto dal Re stesso, il Von-Mechel manifestò il timore, che, attuandosi quel piano, potesse l’esercito essere tagliato fuori dalla ritirata sopra Capua per opera delle colonne rivoluzionarie del Beneventano. Però nè il Von-Mechel, nè il governo avevano un’idea esatta di quelle compagnie, le quali erano quattro in tutto, e non arrivavano a mille uomini male armati e tutti nuovi alle armi.
A rendere più generale il movimento, contribuiva il basso clero in Calabria e in Basilicata. Preti e frati gettavano l’abito e vestivano la camicia rossa; e cingendosi di un gran nastro tricolore il cappello, si creavano cappellani delle squadre insurrezionali, o predicatori nelle piazze. Si distinguevano gli Ordini mendicanti e i preti delle chiese ricettizie, o quelli che non facevano parte di capitolo e avevano abbracciato il sacerdozio per crearsi uno stato. In Calabria, specie in provincia di Cosenza, parecchi cleri, ed anche alcune comunità monastiche si mescolarono in mossa al movimento.1 Era una generale frenesia, e i documenti di quell’epoca non si rileggono senza maraviglia, mista a tenerezza. Quanta fede, quanta audacia, quanta noncuranza di pericoli, e che puri ideali, e affascinanti illusioni! Il Turiello calcola, e forse non a torto, che il numero degl’insorti fra le Calabrie, le Puglie, la Basilicata, l’Avellinese, il Salernitano e la Campania, fosse non inferiore ai 18 000.
Per avere un’idea dell’effetto che tutta questa agitazione produceva sulle autorità militari distaccate nelle provincie, basterà leggere un dispaccio del 26 agosto, inviato dal comandante le truppe di Altamura al generale Flores che era a Bari, e da Flores, il 27, trasmesso al ministero. Sparsasi in Altamura la notizia che tremila garibaldini, comandati da Boldoni, marciavano verso la città, il comandante delle truppe, gli ufficiali, il sindaco e l’ispettore di polizia si riunirono a consiglio presso il sottointendente Campanella; “e, scrive il comandante, venutosi alla disamina dei fatti in questione, ne fu dato rimarcare una soverchia tendenza in persona della su enunciata prima autorità, perchè noi fossimo addivenuti alla comune volontà di cedere le armi alla venuta di essi Garibaldesi (sic); oppure metterci di consenso con essi, soggiungendo che non si sarebbero chiamati responsabili nel caso opposto, poichè non aveano a fidarsi sul movimento popolare. Tutti i militari si sono francamente opposti a tanto baldanzoso consiglio, anzi han divisato rimanere in città fino a quando sarebbero comparsi i precitati Garibaldesi (sic), ma siccome ai detti il sindaco aggiungeva di far bandizzare (sic) la venuta dello Straniero, ho stimato più conducente per ovviare ogni qualunque sinistro, riunire la truppa, ed accompagnarla militarmente non molto lungi dal paese, per osservare tutte quante le operazioni vi si possono praticare„.
Da Lecce, l’intendente Alfonso de Caro mandava, il 28 agosto, un rapporto allarmante, che cominciava cosi: “La rivolta delle Calabrie, il governo provvisorio attuato in Basilicata, le voci che corrono sulla possibilità di simile avvenimento nella limitrofa Bari, han suscitato grave fermento in questa provincia di mia amministrazione„. Anche più allarmante era il rapporto inviato, il 31 agosto, dal Giannattasio intendente di Salerno, comunicante al ministro dell’interno un altro, speditogli da Giuseppe Giannelli, sottointendente a Vallo, il quale dopo il 1860 fu consigliere delegato e funzionò da prefetto a Trapani, ed ora vive a Nocera dei Pagani. Uditelo nella sua integrità:
- Eccellenza,
Con due telegrammi ho rassegnato a V. E. ciò che mi ha riferito il sottointendente di Sala qui giunto quest’oggi, e ciò che mi ha scritto il sottointendente di Vallo circa i gravi avvenimenti succeduti ieri in que’ distretti. Col primo di essi le soggiunsi che domani lo stesso sottointendente di Sala avrebbe avuto l’onore di conferirsi in Napoli presso l’E. V. ad oggetto di ragguagliarla dei particolari di tali avvenimenti. Con l’altro le dissi che avrei in seguito comunicato a V. E. il rapporto del sottointendente di Vallo, che ora le trascrivo, per essere così concepito:
“La calma e la tranquillità nell’ordine pubblico di questo distretto, e specialmente di questo capoluogo, stato eccezionale nei passati giorni, è finita tutta ad un tratto questa mattina 30 agosto. Verso mezzogiorno numerose masse di gente armata sono venute da varii punti del distretto in questo capoluogo, ed al loro arrivo i tamburi della Guardia Nazionale hanno suonato a raccolta. Quindi un gran numero di uomini ricchi, poveri, vecchi, giovani specialmente quelli che si reputavano attaccatissimi alla dinastia Borbonica, sono convenuti in armi nella pubblica piazza, ove spiegata una bandiera con lo stemma della Beai Casa di Savoja e coi colori italiani, ordinati ed armati in maniera assai regolare, sono partiti di qui al grido di Viva Vittorio Emanuele„.
Lo stesso pare che sia avvenuto anche in altri siti, o che sia prossimo ad avvenire, benchè niun rapporto uffiziale mi sia ancora pervenuto. Qui intanto i più notevoli cittadini provvedono alla tranquillità pubblica. Comprenderà bene quale difficoltà abbia la mia posizione attuale. Ciononpertanto debbo assicurarla che la pace ed i diritti costituiti dei privati sono oltremodo rispettati. Tutti spinti dal solo sentimento politico, e coloro che tengono la somma delle cose, sono assai scrupolosi pei mezzi che si propongono usare, imperocchè hanno assunto per loro divisa di sagrifìcar tutto per la patria, tranne l’onore. Del resto tengono il concorso personale e pecuniario dei più ricchi del distretto, come già diceva; hanno armi e munizioni a sufficienza; opperò non sembra che siano da temersi violenze ed eccessi contro la gente pacifica. È d’uopo finalmente io le avverta, che un movimento così generale, così spontaneo, come questo, io non credo sia mai avvenuto, e che sarebbe cosa assai improvvida dargli il carattere di quelle turbolenze che avvengono per una data occasione, anzichè per una coscienza di opinione politica da Innga pezza preconcetta.
Il giorno dopo, un altro allarmantissimo rapporto spediva lo stesso sottointendente di Vallo, e fu questo:
Dopo averle rassegnato il rapporto della data di ieri, intorno alla sollevazione di gente armata verificatasi in questo capoluogo, mi é arrivata notizia, che un simile movimento ha avuto luogo in tutto il distretto, dimodochè l’insurrezione può dirsi esservi divenuta generale, ed esser partite numerose bande di armati da molte parti di esso verso le alture. Non posso
specificarne le particolarità, perchè mi mancano sull’obbietto rapporti uffiziali; ma son fatti oramai di cui non è a dubitarsi. Unico ne è lo scopo: la proclamazione di Vittorio Emanuele a Re d’Italia, ed all’uopo concordemente s’innalza la bandiera di Casa Savoja. Stimo mio debito informarne l’Autorità di Lei per gli effetti di risultamento.2
Cosi scrivevano quasi tutti i sototintendenti agl’intendenti, i quali trascrivevano integralmente i rapporti al ministero, a scanso di responsabilità, chiedendo istruzioni, o anche non chiedendone. Non c’era più che soltanto l’ombra d’un governo! Il ministero non aveva ordini da dare, nè provvedimenti da consigliare, ne aiuti da spedire, e cercava invano di provvedere con la circolare Giacchi e con l’invio di segreti agenti nelle provincie, per ridestarvi la fede negli ordini, costituzionali. A Cosenza, don Liborio, tanto per continuare a rappresentar la commedia, mandò La Cecilia, Cognetti e Mosciaro, con la missione di promettere, da parte del Re, opere pubbliche e benefizi d’ogni sorta, e di eccitare le autorità a far argine alla rivoluzione; ma il Comitato insurrezionale, saputo lo scopo che li guidava, li fece arrestare e li rimandò indietro.
Nella notte dal 19 al 20 agosto, Garibaldi e Bixio sbarcarono a Melito sulla costa calabrese; e, all’alba del 22, Cosenz e Assanti a Favazzina. Già fin dal giorno 8, era sbarcata la prima banda garibaldina ad Alta Fiumara, per impadronirsi del forte di Torre Cavallo. La formavano 350 uomini, e ne erano ufficiali Missori, Musolino, Mario, Nullo. Agostino Plutino, da pochi giorni reduce dalla sua missione in Inghilterra; la raggiunse verso Aspromonte conducedonvi un buon manipolo di volontari calabresi. Due giorni prima Antonino Plutino, che si apparecchiava a discendere con Garibaldi in Calabria, avvisò suo fratello Agostino, che tra il 19 e il 20 sarebbero sbarcati a Melito, e che perciò la banda si tenesse pronta a marciare sopra Reggio o sopra Melito per unirsi a Garibaldi. Questa lettera fu portata al campo di Aspromonte da Fabrizio Plutino oggi prefetto del Regno e allora diciottenne, a suo padre. La banda, accampata nella contrada Montalto, accolse la notizia con festa e si mise in assetto di partenza. E quando nella notte dal 19 al 20 Garibaldi sbarcò, Antonino Plutino ne diè avviso al nipote Fabrizio con un biglietto curioso, scritto col lapis su carta molto ordinaria, e che diceva cosi: “Garibaldi è sbarcato con ottomila uomini. Avvisate Agostino subito subito che scendano sopra Reggio - firmato: Nino Plutino, e con un poscritto più curioso: il corriere che viene fatelo fare colazione„.3 Non vi fu bisogno di mandare alcun avviso agli insorti di Aspromonte, i quali, saputo che Garibaldi era sbarcato, per le vie dei monti scesero a Melito, si unirono a lui ed entrarono con lui e con Bixio a Reggio. Non arrivavano in tutti a tremila. Entrarono in Reggio nella notte del 21, e al loro appressarsi, vi fu da principio lo scambio di alcune fucilate con le truppe accampate sulla piazza del duomo, sotto il comando del colonnello Dusmet, e poi un vero combattimento, con molti morti e feriti. Il Dusmet, circondato dai suoi ufficiali, era nel portone del palazzo Ramirez. All’appressarsi dei garibaldini, ordinò all’artiglieria di avanzarsi, e dandone egli stesso l’esempio, si slanciò ad affrontare il nemico. Colpito a tradimento da una fucilata quasi a bruciapelo, cadde, e cadde morto con lui nel breve combattimento, un suo figliuolo ventenne. Unico esempio di personale valore nell’esercito regio, dal giorno che Garibaldi sbarcò a Melito, sino a Napoli! Il grosso della guarnigione si ritirò nel forte, comandato dal vecchio generale Gallotti, il quale, si disse dagli scrittori legittimisti, che facesse entrare per tradimento i garibaldini nella città, ma non fu vero. La piazza si arrese il 22.
Tutte le forze regie in Calabria, sotto il comando del maresciallo Vial, che aveva il quartier generale a Monteleone, ascendevano a circa ventimila uomini. Giambattista Vial, figlio del vecchio generale, non era mai stato al fuoco; era lettore appassionato di romanzi, suonatore di piano e ballerino discreto. Si godeva i sontuosi pranzi di casa Gagliardi, a Monteleone; e la sua noncuranza arrivò al punto, che, se in mezzo alla conversazione gli veniva recapitato un dispaccio, egli, senza aprirlo, lo cacciava in tasca dicendo: “poi se ne parla„.
Occupata Reggio, mentre Garibaldi, a rapide marcie, si dirigeva su Monteleone, i generali Melendez e Briganti, accampati tra Villa San Giovanni e Bagnara, non si mossero, e solo il Briganti mandò due compagnie in ricognizione sulla via di Reggio. Queste scambiarono poche fucilate inconcludenti coi garibaldini, che tornarono indietro e poi capitolarono. Erano circa tremila uomini. È noto che il Briganti nella marcia di ritirata sopra Monteleone fu ucciso dai suoi soldati, esasperati da tanta viltà, sulla piazza di Mileto. E per giudicare meglio chi fosse il generale in capo, basterà sapere che, stando egli a tavola in casa Gagliardi, non si tenne dal chiedere sorridendo al padrone di casa: “Questo posto lo destinate a Peppiniello?„ “Di certo, rispose il marchese Enrico Gagliardi, se voi l’abbandonate„. E pochi giorni prima, con burbanzosa spavalderia, aveva detto che egli avrebbe pescato Peppariello, qualora osasse passare lo stretto! Il Vial non voleva uscire da Monteleone e pretendeva invece che agissero i generali da lui dipendenti, ma questi non erano men di lui sdegnosi di pericoli. Vecchia ruggine esisteva tra Vial e Pianell, e tra Vial e Melendez. Fu certo grave errore aver affidato il comando supremo delle forze in Calabria al Vial, il quale non aveva alcuna reputazione nel mondo militare, dove si diceva che avesse fatta carriera per la protezione di suo padre, il vecchio generale Pietro Vial, di cui si è parlato.
Il Pianell aveva dato al Vial, il giorno stesso che questi partì per Pizzo, il 22 luglio, tutto un piano di difesa, le cui linee generali erano queste: impedire qualunque sbarco di garibaldini sulle coste calabresi; e avvenuto lo sbarco, disperderli rapidamente; tenere il quartier generale a Monteleone, col grosso dell’esercito, perchè così avrebbe potuto, per via di terra o di mare, venire in aiuto di Gallotti, di Briganti e di Melendez, se assaliti da forze maggiori, tra Reggio e Bagnara. Pianell non aveva forse preveduto uno sbarco, anzi il maggiore sbarco d’insorti, con Garibaldi alla testa, a Melito, tra il capo Spartivento e il capo dell’Armi, quasi alle spalle di Reggio. Ma Vial, sorpreso, non eseguì quel piano, nella stessa guisa che il Melendez e il Briganti non ubbidirono a lui. Melendez non si mosse da Bagnara, come si è detto, e Vial, esaurite tutte le vie per richiamarlo all’obbedienza, lo abbandonò a sè stesso, esclamando: “È un c...., che non vuol sentire; si vada a far buggerare„. Nè questi disaccordi erano la sola debolezza dell’esercito regio. Oramai, ne soldati, ne ufficiali sentivano più la forza del proprio dovere; l’ambiente che li circondava, era veramente ostile, ma la fantasia meridionale faceva loro vedere pericoli e nemici più di quanti ve ne fossero davvero. Il nome di Garibaldi esercitava un fascino misterioso sui grido di Viva il Re! Dappertutto vedevano gente in armi, comitati e governi provvisorii; leggevano giornali e proclami rivoluzionarii; udivano prediche nelle chiese e nelle piazze, mentre crescevano le diserzioni, le seduzioni e la paura di cader vittime del furore popolare o del tradimento dei proprii commilitoni. I comandanti, senza istruzioni precise del governo, o a queste dissubbidendo, avevano finito col persuadersi che non era veramente il caso di pigliarsela calda per una causa da tutti abbandonata. Uno dei De Sauget in un gruppo d’ufficiali, alludendo al Re, fu udito un giorno esclamare: “Ma se l’Europa non lo vuole, perchè dobbiamo farci ammazzare per lui?....„.
I capi delle bande insurrezionali, militari improvvisati, e i capi dei Comitati e dei governi provvisorii appartenevano ad alta posizione sociale, circondati dalla pubblica stima. In Basilicata, Davide Mennuni, anima calda di patriottismo, era un ricco possidente di Genzano; Vincenzo Agostinacchio, che comandava il contingente degli Spinazzolesi mossi alla volta di Potenza insorta, era avvocato e benchè di gracile salute, aveva indomita forza d’animo; avvocato era Teobaldo Sorgente; possidente. Luigi de Laurentiis; prete, che aveva gettata la sottana, Niccola Mancusi; e ricchi il marchese Gioacchino Cutinelli, che mori senatore del Regno d’Italia; Domenico Asselta, che fu deputato; e così Niccola Franchi, gli Scutari e i Sole, cugini del poeta, e così tanti altri, in Puglia, in Basilicata, ma principalmente in Calabria, dove milionarii, come i Morelli, i Compagna, gli Stocco, il Guzolini, i Quintieri, i Labonia, i Barracco, erano a capo dei Comitati o li sovvenivano. Non erano certo bande di straccioni, perchè la borghesia più eletta vi dava largo contingente. La rivoluzione si compiva in nome dell’idea morale; e i ricordi storici, e le poesie patriottiche infiammavano di ardore lirico quei cospiratori e quei soldati. Disfarsi dei Borboni, conseguire la libertà durevolmente, tradurre in atto il pensiero di Dante e di Machiavelli e confidare in una rigenerazione morale ed economica da un nuovo stato di cose, che non fosse Repubblica, ritenuta sinonimo di disordini, ma Monarchia costituzionale e nazionale, con un Re, divenuto anche lui una leggenda: ecco l’ideale che sfuggiva alle analisi e alle riflessioni, e mutava la conservatrice e ricca borghesia in forza rivoluzionaria; ideale non fumoso, anzi in via di realizzazione per un provvidenziale concorso di circostanze. Altri giovani di civili e ricche famiglie correvano in Sicilia sotto mentito nome. Ricordo, fra gli altri, Francesco Spirito, oggi deputato; Giuseppe Mondella, di Benevento; Silvio Buonoconto, Achille Napolitano e Giovanni Bardari, figlio del prefetto di polizia. Spirito, Buonoconto, Napolitano e Bardari s’imbarcarono a Napoli per Messina, battezzandosi per suonatori ambulanti diretti a Giarre, in Sicilia. Disertarono sul finire di luglio e corsero in Piemonte ad arruolarsi i fratelli Francesco e Michele de Renzis, ufficiali, il primo del genio e il secondo degli usseri; Rodolfo Acquaviva e Gaetano Pomarici, guardie del corpo e Giovanni Garofalo, ufficiale di fanteria. Queste diserzioni fecero molto effetto nell’esercito e nella società napoletana, per l’alta posizione sociale dei disertori. Ebbero una lettera di presentazione dal Villamarina per Cavour, che li accolse a braccia aperte e li fece immediatamente entrare nell’esercito piemontese: Francesco de Renzis nel genio. Michele de Renzis e Garofalo in Genova cavalleria, Acquaviva in Nizza cavalleria e Pomarici in Piemonte Reale. Quest’ultimo si uccise a Firenze qualche anno dopo; Rodolfo Acquaviva è morto da parecchi anni, e dei due De Renzis, Francesco è ambasciatore a Londra, e Michele è deputato di Capua e generale di cavalleria in posizione ausiliaria.
Da Reggio a Napoli non fu più tirato un colpo di fucile, e Garibaldi, dapprima con la sua avanguardia e poi precedendo questa, con poche guide e cavalieri e con Enrico Cosenz sempre vicino, da lui nominato ministro della guerra, proseguiva la sua marcia, acclamato come il Dio della vittoria. Trovava dovunque lo Stato disciolto, e a lui si arrendevano generali abbandonati dai proprii soldati. Quella campagna, o per dir meglio, quella marcia trionfale, attraverso le Calabrie, è stata narrata da me con documenti inediti e interessanti in altro mio libro.4 Si arresero Melendez e Briganti e fu ucciso quest’ultimo dai suoi soldati, perchè sospettato di tradimento; capitolò Vial che s’imbarcò a Pizzo per Napoli; capitolò Caldarelli col Comitato di Cosenza; si sbandò Ghio con diecimila uomini a Soveria Mannelli; e così la strada sino a Salerno, spazzata degli ultimi avanzi di difesa, restò libera allo incedere del glorioso manipolo, il quale non si trovò tra i piedi che soltanto de’ gruppi di soldati paurosi o inermi, che salutavano, con terrore, i vincitori, al loro apparire. Lo sbandamento di Soveria fu l’episodio decisivo di quella campagna, per il quale si affermò il trionfo della rivoluzione sul continente, e che ispirò a Garibaldi il celebre telegramma, da lui dettato a Donato Morelli, la mattina del 31 agosto, nella casa rustica di Acrifoglio: “Dite al mondo che ieri coi miei prodi calabresi feci abbassare le armi a 10 000 soldati, comandati dal generale Ghio. Il trofeo della resa fu dodici cannoni da campo, diecimila fucili, trecento cavalli, un numero poco minore di muli e immenso materiale da guerra. Trasmettete a Napoli, e dovunque, la lieta novella„.
Anche in Puglia l’esercito non diè prova di maggiore energia; ma se per la Calabria la neghittosità delle truppe fu principalmente da ascriversi, come si è veduto, all’inettezza dei capi; al maresciallo di campo Filippo Flores, che comandava la colonna delle Puglie, non potè veramente attribuirsi l’insuccesso completo dell’opera sua. Il Flores, al quale fu mossa l’accusa di aver ordinato alle sue truppe l’atto di sottomissione al nuovo ordine di cose, spiegò la sua condotta in un piccolo opuscolo venuto alla luce il 10 luglio 1862, ed ora raro per quanto interessante. Flores disponeva di poche forze per mantenere la calma in tre provincie, mentre ordini e contrordini da Napoli paralizzavano l’azione di lui. Tutta la sua colonna, divisa fra le provincie di Bari, di Capitanata e di Terra d’Otranto, si riduceva a uno squadrone di gendarmeria, un battaglione di gendarmeria a piedi, due squadroni del secondo reggimento dragoni e due di carabinieri, incompleti di uomini e di cavalli, oltre a mezza batteria di obici. C’erano bensì delle compagnie di riserva, ma potevano considerarsi come uno scheletro di soldatesca. Alla mancanza di uomini si aggiungeva quella delle munizioni; e per quanto il Flores insistesse per avere altri soldati, non gli fu mandato che il generale Bonanno con alcune compagnie del tredicesimo di linea, Lucania, il cui spirito militare era addirittura spento, dopo i disastrosi eventi di Sicilia. Al generale Bonanno, che gli manifestava non avere le sue truppe altra munizione da guerra, che semplicemente quella di “dote„ esaurita la quale, la fucileria e i pezzi sarebbero rimasti in perfetto stato d’inazione, Flores non seppe che cosa rispondere.
L’ultimo ordine, che il Flores ricevesse da Napoli, fu di “lasciar la gendarmeria in tutti quelli luoghi, ne’ quali occorresse tener guardia alle prigioni, e tutelar l’ordine per quanto lo si potesse; e col restante delle schiere muovere a raggiungere in Avellino il generale Scotti, che ne avrebbe assunto il superiore comando„. E si noti, che quest’ordine si mandava al Flores, quando questi aveva già date le sue dimissioni, col seguente telegramma del 26 agosto: “Domando il mio ritiro, e chieggo a chi rassegnare la mia missione, che non posso più onorevolmente disimpegnare„ . Queste dimissioni furono anche provocate dal fatto, che il governo avea sospeso il richiamo dei due squadroni di dragoni, proposto dal Flores, perchè indisciplinati, come ancora dalle diserzioni del tredicesimo di linea, le quali crescevano di giorno in giorno. E proprio sul momento di muovere per Avellino essondo giunto a Flores l’ordine di estrarre dal Banco di Bari le somme di regio conto, egli rispondeva cosi: “Questo Banco, mi assicura l’intendente, non contiene che numerario di pertinenze particolari, nè estrarre si potrebbe denaro senza ordini diretti dal ministro delle finanze, e senza serio allarme di tutte le popolazioni„ .
A misura che il Flores eseguiva la ritirata su Avellino, i governi provvisori si proclamavano via via alle sue spalle. Ogni paura cessava. Flores dovè continuare la ritirata senza risorse; spirata la quindicina, sarebbero mancati alle truppe i viveri, de’ quali non avrebbe potuto, senza violenza, provvedersi dai Comuni, nè, il maresciallo, cui le condizioni di salute non consentivano neppure di reggersi a cavallo, poteva fidarsi dei suoi uomini, tranne che della mezza batteria e dei due squadroni incompleti di carabinieri. A quattro miglia da Ariano, da parte del generale Bonanno, gli veniva consegnato un urgentissimo messaggio^ recato da apposita staffetta, contenente l’ordine di recarsi aNapoli; ed egli dovè proseguire il viaggio con la moglie ed i figli in carrozza, perchè, pochi giorni prima, caduto a terra per un male sopravvenutogli, si era ferito a un ginocchio. Giunto nelle prime ore della notte a Grottaminarda, fu fermato sulla via da un drappello d’insorti avellinesi, mandato dal De Concily ad arrestarlo. Comandava il drappello, sprovvisto completamente di armi, Francesco Pepere, e ne facevano parte Florestano Galasso e Vincenzo Salzano. Gli insorti trattarono con ogni riguardo il generale e la sua signora, e lo condussero alla presenza del vecchio De Concily, che lo trattenne, e due giorni dopo, il 9 settembre, lo lasciò prosegure per Avellino, già occupata dal generale Türr. Di là, il Flores scrisse al generale Bonanno il quale aveva preso il comando della colonna, “che il prodigare inutil sangue riputava folle provvedimento, senza punto vantaggiare quella causa debellata in Sicilia pria, a fronte delle migliori truppe delle quali il Regno disponesse, e di poi in tutti li punti del Napoletano; e massime negli Abruzzi, nelle Calabrie, che offrivano ben altri elementi a poter resistere; eppure nulla erasi operato da migliorare un avvenire inevitabile„ . Consigliava quel generale, di non menare a selvaggia carneficina un pugno di gente che dovea infallibilmente soccombere, e concludeva che, se lui, Bonanno, abbisognasse di un ordine, per siffattamente governarsi, gl’impartiva l’ordine e ne assumeva la responsabilità.
Chiudendo il suo scritto, il maresciallo Flores accenna alle cause generali che resero impossibile ogni seria resistenza militare in Sicilia, prima e poi nel continente; e giova riferire le sue parole, perchè esse confortano autorevolmente, nella bocca di un uomo che prese parte a quegli avvenimenti, quanto io ho detto. “Si dovè cedere, scrisse il Flores, perchè impossibile era resistere; perchè l’elaborata opera della Rivoluzione era consumata; perchè la truppa difettava dove impellente erane il bisogno; soverchiava dove non era necessaria; ordini e contrordini sucoedevansi; tutto era messo in opera per disgustare ed alienare quelli che sempre dato avean saggio di devozione e di fedeltà; infine, era suonata quell’ora fatale designata dal destino, in cui il Trono dovea crollare„. Per invito del De Sanctis, nominato governatore di Avellino dal dittatore, Flores si recò poi a Napoli, dove Garibaldi lo ricevette al palazzo d’Angri, dichiarandosi soddisfatto della condotta di lui. Flores mori nel 1868.
Dopo lo sbandamento di Ghio e la dissoluzione di tutto l’esercito in Calabria, il ministero non si raccapezzò più. Il giorno innanzi, cioè il 29 agosto, nel Consiglio di Stato era stato deciso di resistere a Garibaldi e di attaccarlo, ove ne fosse il caso, tra Eboli e Salerno o tra Salerno e Napoli. Fra le truppe di Calabria, i battaglioni stranieri distaccati fra Napoli e Salerno, e la guarnigione di Napoli, si poteva disporre di 50 000 uomini, con abbondanti provvigioni da guerra e da bocca, alle quali si sarebbe potuto anche più largamente provvedere con una parte dei sei milioni di ducati, del prestito fatto con Rothschild. “Io non dissimulo, disse Spinelli in quel Consiglio, che sventuratamente il nostro esercito è demoralizzato e sconfidato; ma quando il Re si porrà alla testa, esso riprenderà il coraggio e la disciplina, e si rifarà delle patite sconfitte. E se pur sarà destino il soccombere, cadremo con onore, e ci salveremo dall’onta di fuggire d’innanzi ad un pugno di uomini, i quali altra forza non hanno, che il prestigio dell’ardito loro capo„. E soggiunse: “Che se V. M. pensasse invece lasciar la capitale, e provvedere altrimenti alla difesa dello Stato, lo faccia pure; ma prenda immediatamente le opportune disposizioni ed operi con la massima energia, perchè ogni istante, che si perde, può compromettere le sorti del Regno„. Il ministro della guerra, che vedeva sfumato il suo piano di difesa in Calabria, ne fece un altro per la difesa presso Salerno, ma proponeva che il Re marciasse a capo delle truppe, al fine di rialzare il morale dei soldati, dopo l’effetto disastroso, che i fatti di Calabria avevano prodotto sulle milizie. Il vecchio Carrascosa, chiamato a consiglio, disse al Re: “Vostra Maestà monti a cavallo, e noi saremo tutti con Vostra Maestà; o cadremo da valorosi, o butteremo Garibaldi in mare„. Anche Ischitella era di questo avviso, ma voleva per sè il comando supremo dell’esercito, e parve molto irritato di non ottenerlo, dopo che il Re gli fece discutere il piano di battaglia col ministro Pianell, e ne lesse la relazione, firmata solo da lui, Ischitella, poichè Pianell, non approvando la nomina di costui, non volle sottoscriverla. Si detestavano a vicenda i due uomini, e l’Ischitella non risparmia il Pianell nel suo opuscolo, il quale rivela ancora una volta nello scrittore un uomo vanitoso e romoroso, che aveva servito Murat e Ferdinando II fino alla morte, e che, generale della guardia nazionale con don Liborio Romano, lasciò questo ufficio ; aspettando il comando supremo dell’esercito per combattere Garibaldi. Quanto pronto di favella, tanto egli era inetto all'azione, ombroso e collerico, ma nell’insieme, non privo di soldatesca sincerità. Passarono così alcuni giorni, sino a che, nella notte dal 30 al 31, si seppe l’inconcepibile sbandamento di Soveria, e lo incedere trionfante della rivoluzione in Calabria e in Basilicata. I generali non credettero più di sicura riuscita il disegno di Pianell, perdettero la bussola anche loro, e di altro non si parlò che di tradimenti, di oro piemontese e di causa disperata. Una nuova spedizione di truppe in Calabria fu creduta inutile. Gli ordini erano stati dati, ma proprio nel momento dell’imbarco giunse il contrordine, provocato dalle solite esagerazioni, che Garibaldi, dopo lo sbandamento di Soveria, marciasse, senz’altri ostacoli, su Napoli, e vi potesse arrivare da un momento all’altro.
Il Re mostravasi calmo, come persona che mediti qualche nuovo disegno. La regina Maria Sofia, più risoluta, accettava senza discuterlo qualunque piano di azione, e insisteva che il Re si mettesse a capo dell’esercito, offrendosi di seguirlo. Francesco II assisteva passivamente ai consigli dei generali; ma questi non venivano, in maggioranza, ad altra conclusione che non fosse la loro sfiducia nell’esercito e nel ministro della guerra; che anzi il Bosco, promosso da poco a generale, arrogante quanto loquace, perchè si era battuto con valore in Sicilia, criticava senza mistero il piano del ministro e osservava che, uscendo il Re da Napoli, vi sarebbe scoppiata la rivoluzione e il Re si sarebbe trovato fra due fuochi. Queste critiche ed osservazioni del Bosco riuscivano assai gradite al Re, il quale usava molto familiarmente con lui e lo chiamava Ferdinandino. Ischitella, che vedeva Francesco II tutt’i giorni, contribuiva con le sue esagerazioni e contraddizioni, a confondergli la testa. Egli consigliava bensì un’azione vigorosa col Re a capo dell’esercito, ma sconsigliava di lasciar Napoli. Ed il Pianell, allora, visto che le sue proposte non venivano accolte e che il Re non si decideva a nulla, e visto dall’altro lato che Garibaldi e la rivoluzione si avanzavano senz’altro ostacolo, manifestò a Spinelli il proposito di dimettersi da ministro e da generale, e lasciar Napoli.
Le incertezze del Re contribuivano a rendere più difficile l’opera dei ministri, i quali, eccetto il Romano, erano profondamente inquieti. Il presidente del Consiglio, che aveva accettato il governo, come il compimento di un sacro dovere, appariva preoccupato e triste; il principe di Torella, nervoso più del consueto; e De Martino, pur mostrandosi disinvolto e sorridente, rivelava anche lui di aver perduta ogni fede nella diplomazia. I ministri intendevano che il fatale momento si appressava, e non si dissimulavano che l’autorità loro presso il Re andava ogni giorno diminuendo, e che l’azione civile del governo quasi non esisteva più. L’azione era tutta militare, se azione poteva dirsi. I consigli di generali si succedevano, ma si rifuggiva, come s’è visto, da ogni risoluzione, nè sarebbe proprio possibile ricostituire la storia precisa di quei giorni famosi, perchè, coloro che vi ebbero parte, la narravano ciascuno a modo suo, e ciascuno aveva ragione, mentre la verità è che tutti si mostrarono inferiori alla singolare gravità del caso. Avvenivano le cose più strane. Il generale Ritucci si era dimesso da comandante della piazza di Napoli, e nonostante che il ministero si fosse opposto alla nomina del generale Cutrofiano a successore di lui, il Re la volle. Era il Cutrofiano tenuto in conto di retrivo e di uomo violento, e nella sua nomina si vide una minaccia di reazione. Il ministero lasciò intendere al Re che si sarebbe dimesso, anzi presentò le dimissioni. Francesco non ne parve spaventato, e per un momento sembrò deciso a nominare un ministero di resistenza, e a farla finita con la rivoluzione. Non a Pietro Ulloa, ma ad Ischitella diè l’incarico di formare il nuovo ministero, ma al solito, quando si fu all’esecuzione, il vecchio generale non seppe cavarsela, perchè, come egli confessa, tutti si rifiutavano di essere ministri in quel momento, in cui si vedeva la dissoluzione del Regno, e nessuno voleva compromettersi. Interpellò Stanislao Falconi, Pietro Ulloa e Niccola Gigli, i quali tutti e tre, sia per la gravità della situazione, sia per la poca serietà di lui, risposero di no.
Erano giorni di tristezza e di confusione nella Reggia e nel governo. Consigli diversi, proposte contradittorie, paure, sospetti, malignazioni e soprattutto esagerazioni, che s’incrociavano, mentre i fedeli continuavano a disertare la causa e il numero degli unitarii cresceva in ragione geometrica. Si affermava, e io credo con qualche fondamento, che il generale Girolamo Ulloa, venuto a Napoli in quei giorni, e bene accolto dal partito legittimista, avesse fatto proporre al Re di assumere il comando in capo delle truppe, per dar battaglia a Garibaldi nella pianura di Eboli. L’Ulloa aveva alta reputazione militare. Si era battuto a Venezia con Pepe; era stato dieci anni in esilio a Firenze, dove ebbe il comando dell’esercito toscano dal governo provvisorio, dopo la partenza del Granduca. In questo comando non fece buona prova, anzi diè origine a sospetti di varia natura, avvalorati dalla circostanza che, durante l’esilio, era vissuto in intimità con l’elemento più retrivo di Firenze, rivelando per le cose di Napoli opinioni non decisamente nazionali e unitarie, anzi francesi e murattiste. Quando Ricasoli e Farini conclusero la lega militare dell’Italia centrale, gli preferirono nel comando supremo, prima Garibaldi e poi il Fanti. Di ciò irritato stranamente, l’Ulloa si recò a Napoli dov’era suo fratello Pietro, amico del conte d’Aquila e mescolato con lui in quel dubbio conato di cospirazione; nè quindi è inverosimile che facesse offrire la sua spada al Re, come fu detto. Ma l’offerta non poteva essere accolta per la sfiducia, che il nome di lui destava negli ufficiali più vecchi e più zelanti, i quali ricordavano che l’Ulloa, essendo andato con Pepe a Venezia, aveva disubbidito agli ordini di Ferdinando II, e aveva poi servita la rivoluzione in Toscana. Si disse pure che Pianell, nutrendo gelosia per l’Ulloa, non volesse lasciargli l’onore di salvare la dinastia. Di ciò mancano documenti autentici, sebbene la cosa non sia, lo ripeto, inverosimile. Punto verosimile, al contrario, è quanto il Nisco afferma, che, cioè, Girolamo Ulloa appartenesse alla cospirazione promossa dal conte d’Aquila, la quale non fu mai cosa concreta, come il Nisco stesso l’afferma, esagerandone l’importanza, più di quanto non l’abbia ingrandita lo stesso Romano, interessato a gonfiarla, per accrescersi il merito di averla soffocata. Nulla, nulla prova che Girolamo Ulloa partecipasse a quel complotto, anzi è da credere l’opposto, perchè l’Ulloa era in voce di murattista e il barone Ricasoli aveva persino sospettato che egli lavorasse a Firenze nell’interesse del principe Napoleone per la creazione di un Regno di Etruria. Certo, i suoi rapporti col principe Napoleone furono molto intimi.
Ogni giorno si annunziavano nuove fughe di fedeli, e nuove conversioni di quelli che restavano. Si dimettevano anche il conte di Trani e il conte di Trapani: il primo, da colonnello di stato maggiore, e il secondo, da ispettore della guardia reale. Il Pianell dichiarava, che, allo stato delle cose, non gli conveniva rimanere più oltre nel ministero. Scrisse direttamente al Re la sera del 2 settembre, inviando le sue dimissioni anche da generale, spiegando i motivi che lo inducevano a questo passo, e chiedendo il permesso di allontanarsi dal Regno. Contemporaneamente il ministero, sentendosi completamente esautorato, senza ministro della guerra e senza comandante della guardia nazionale, e quasi certo di essere riuscito a scongiurare la guerra civile nelle mura di Napoli, ripresentò, la mattina del 3 settembre, le sue dimissioni. Francesco II mandò il desiderato permesso a Pianell, che lasciò Napoli la sera del 3, e in quello stesso giorno nominò comandante della guardia nazionale il vecchio generale Roberto de Sauget; ma non accettò le dimissioni del ministero, forse preoccupato dallo spavento che al primo annuncio di quelle dimissioni s’era destato in Napoli, nonchè per l’ordine, che si diceva da lui dato ai comandanti dei forti, di tirare sulla città, al primo accenno di sommossa o all’appressarsi di Garibaldi. I liberali, unitarii e autonomisti, facevano da parte loro vive premure ai ministri dimissionarii perchè rimanessero al loro posto. Il Re richiamò Spinelli la sera del 3, e gli fece intendere che aveva già in mente una risoluzione definitiva, e che forse il domani gliel’avrebbe comunicata. I ministri, pur non ritirando le dimissioni, rimasero al loro posto, ma l’agitazione a Napoli in quei giorni fu indescrivibile, anche perchè venne ad arte sparsa la voce che il Re avesse promesso alla plebaglia di far la santafede all’avvicinarsi di Garibaldi.
Il solo che sembrava incosciente di quel che avveniva, era don Liborio Romano, nuotante fra le opposte correnti, senza un fine preciso, nè la visione di quel ch’egli volesse; ma in apparenza sorridente e sicuro di se. Fin dal 20 agosto, egli (si legge nelle sue Memorie) aveva presentato al Re un memorandum, scritto da lui: memorandum, che non fu letto in Consiglio di ministri, ma che i ministri conoscevano, secondo egli afferma, senza darne prova. In questo documento, il Romano rilevava l’incompatibilità, ogni giorno crescente, fra il popolo e la dinastia, e la impossibilità nei ministri costituzionali di modificare disprezzare il sentimento pubblico come anche l’impossibilità di fermare Garibaldi, il quale, aiutato dal Piemonte, procedeva vittorioso, essendo la regia marina in piena dissoluzione ed avendo l’esercito rotto ogni vincolo di disciplina e di obbedienza gerarchica. Sconsigliava la resistenza e, unica via di salute, proponeva al Re di allontanarsi dalla capitale “Che la M. V., concludeva, si allontani per poco dal suolo e dalla Reggia dei suoi maggiori; che investa di una reggenza temporanea un ministero forte, fidato, onesto, a capo del quale sia preposto, non già un principe reale, la cui persona, per motivi che non vogliamo indagare, ne farebbe rinascere la fiducia pubblica, ne sarebbe garentia solida degl’interessi dinastici, ma bensì un nome cospicuo, onorato, da meritar piena la confidenza della M. V. e del paese„. E naturalmente, questo nome cospicuo ed onorato non poteva essere che il suo.
Ammesso che questo memorandum fosse stato presentato veramente il giorno 20 agosto, secondo afferma il Romano, questi nel Consiglio del 29 approvava, insieme con gli altri ministri, la resistenza a Garibaldi fra Salerno e Napoli, e una nuova e vivace protesta, che il de Martino inviò alle potenze appena fu conosciuto lo sbarco di Garibaldi in Calabria. E poichè alle cose più serie di questo mondo si accompagna sempre una nota di comicità, il giorno 30 venne fuori un decreto del 29 che autorizzava lui stesso, Romano, ministro dell’interno, a creare un debito di sessantamila ducati, per costruire e addobbare la sede provvisoria del Parlamento alle Fosse del grano! Don Liborio si apparecchiava ad aprire il Parlamento napoletano con la stessa incoscienza, con la quale lasciava credere ai cavurriani, che egli era lì per indurre il Re a lasciar Napoli e ad affrettare il compimento dell’unità nazionale; ai garibaldini e ai mazziniani del Comitato di Azione, ch’egli stava lì ad impedire che l’unità d’Italia si compisse a benefizio del Piemonte, resistendo agl’intrighi di Villamarina e di Persano e alle sollecitazioni del Comitato dell’Ordine; ed agli autonomisti, che fosse in pericolo l’autonomia e l’indipendenza del Regno!
Banderuola in balia dei venti, Liborio Romano si dava l’aria di dominar lui i venti, compiaciuto e soddisfatto di sé; dava ragione a tutti ed era il solo dei ministri, che non sembrasse impensierita) del domani. I borbonici lo bollarono per traditore, mentre i cavurriani di Napoli lo attaccarono con violenza e non sempre con giustizia, e il solo, che ne tentasse la difesa, fu quel partito di Sinistra, il quale, generato dal Comitato di Azione, reclutò nelle sue fila quanti vi erano più malcontenti, più turbolenti e più retrivi; nel quale partito il Romano si schierò e militò finchè visse, detestando i moderati e il loro governo, e forse, in cuor suo, punto dal rimorso di dover passare alla storia per traditore. Egli non tradì, perchè non ebbe la coscienza esatta di quel che facesse, ilia si lasciò trascinare dalla corrente: caposcuola glorioso di tutti quei voltafaccia politici e parlamentari, più in piccolo e più volgarmente egoistici, dei quali siamo testimoni ogni giorno in questo periodo di parlamentarismo degenerato. I fatti non confortano l’accusa di tradimento, ne questa si sarebbe levata contro Liborio Romano, se egli, senza interruzione, non fosse rimasto ministro di Garibaldi, e non avesse assunto, quasi dal primo giorno, un contegno di ostilità stizzosa contro tutto ciò che, sia pure inconsapevolmente, egli stesso aveva contribuito a creare. Don Liborio, dopo trentanove anni di regime parlamentare, non può giudicarsi un fenomeno morale inverosimile, nè una pianta esotica del nostro paese!
Note
- ↑ Vedi: Una famiglia di patrioti, di R. de Cesare. — Roma, Forzani, 1889.
- ↑ Archivio Giacchi.
- ↑ Archivio Plutino.
- ↑ R. de Cesare, op. cit.