La fine di un Regno/Parte II/Capitolo XV

Capitolo XV

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CAPITOLO XV


Sommario: Ultimo numero del Giornale di Sicilia sotto i Borboni e primo numero sotto la Dittatura — Monsignor Naselli, arcivescovo di Palermo e suoi rapporti con Garibaldi — Garibaldi nella cattedrale di Palermo e Giudice della Monarchia — La liberazione dei nobili — Feste ed entusiasmi popolari — La condotta dei giovani patrizi — La guardia del palazzo dittatoriale — Graduati e militi — I siciliani a Milazzo — Il principe di Scalea ed Emanuele Notarbartolo di San Giovanni — Ricordi interessanti — Caricature ed epigrammi sull’esercito — Il colonnello Buonopane e suoi precedenti — Le accuse contro di lui — Gli altri generali borbonici in Sicilia — Confessioni di Maniscalco a Gaetano Filangieri — Il generale Clary — Particolari e sue lettere postume — Il capitano Sciacquariello — Giudizi sull’opera militare nell’Isola — Le Memorie di Pianell — L’opera di Cavour a Napoli — Sue inquietudini — Manda Visconti, Finzi, Ribotty, Devincenzi, Nisco, Mezzacapo e Schiavoni — Particolari inediti e curiosi — Svanisce il disegno di un pronunciamento militare — Confessioni di Emilio Visconti — Una lettera di Cavour, portata da Niccola Schiavoni.


L’ultimo numero del Giornale di Sicilia vide la luce il 26 maggio 1860, vigilia della Pentecoste e dell’ingresso di Garibaldi; e l’ultimo decreto, pubblicato in prima pagina, in corpo dodici fu quello, col quale don Angelo Maniscalco, in data del 9 maggio, veniva nominato effettivamente ricevitore della dogana di Messina. Era il primo figliuolo del Maniscalco e contava cinque anni. Quel decreto, riguardante un bambino, aveva tre volte la firma del principe di Cassaro, presidente del Consiglio dei ministri e ministro per la Sicilia, nonchè la firma del Lanza, col titolo di commissario straordinario con l’Alter Ego, e quella del Bracci, per certificato conforme. La nomina del piccolo Maniscalco a quel posto assai lucroso era stata il regalo di battesimo fattogli [p. 316 modifica]da Ferdinando II. Il Giornale di Sicilia ricomparve il 7 giugno nello stesso formato, ed in quel primo numero, al posto dello stemma borbonico, c’era quello di Savoia; al posto del decreto per il figliuolo di Maniscalco, il decreto da Salemi, col quale Garibaldi si proclamava dittatore, in nome d’Italia e Vittorio Emanuele. Al Ventimiglia, partito per Napoli, succedeva nella direzione Isidoro La Lumia, col dottor Giuseppe Lodi. Della vec- chia redazione rimasero Girolamo Ardizzone, il quale era stato il collaboratore più assiduo, ed a cui il giornale fu affidato poco tempo dopo; Giuseppe Antonio Arieti, Luigi Corvaja e Francesco Scibona Battolo. In quella guisa, che, avvenuto l’ingresso di Filangieri a Palermo e dopo l’attentato di Agesilao Milano, il Giornale di Sicilia pubblicò per mesi interi gli indirizzi di fedeltà e di felicitazioni da parte dei comuni tutti dell’Isola a Ferdinando II, lo stesso giornale iniziò la serie degl’indirizzi degli stessi comuni a Garibaldi, perchè s’investisse della dittatura, che aveva assunta sin dal 14 maggio a Salemi. E negli avvisi teatrali dello stesso foglio si cominciò a leggere dal 25 giugno, anche questo: “Teatro Nazionale a San Ferdinando: Salvatore Maniscalco, dramma e ballo„. Il teatro nazionale era il presente teatruccolo “Umberto„; ma prima del 27 maggio era semplicemente “teatro San Ferdinando„. E inutile dire che quella rappresentazione era tutta una sfuriata contro l’ex direttore di polizia, la cui persona, al comparire sulla scena, era salutata da un uragano di fischi e da un coro selvaggio d’imprecazioni.


L’arcivescovo di Palermo, monsignor Naselli, non si mosse dal suo posto nei giorni terribili, nei quali a Palermo si combatteva e si moriva; e quando il nuovo ordine di cose fu stabilito, egli non esitò a riconoscerlo e andò a visitare il dittatore, così come questi, consapevole della forza del sentimento religioso in Palermo e in tutta la Sicilia, nonchè dell’intimo accordo esistente fra il clero e il laicato, si limitò a pubblicare soltanto il decreto che sopprimeva i gesuiti e i liguorini, come già fece la rivoluzione nel 1848. Se nell’esecuzione di quel decreto vi furono eccessi vergognosi, ch’è meglio non ricordare, la colpa non si può far risalire a Garibaldi, ma ad alcuni di quegli elementi indigeni, per i quali la libertà era profitto e violenza. Garibaldi anzi tenne in quei giorni un contegno di austera moderazione e [p. 317 modifica]tolleranza: andò in pellegrinaggio alla grotta di Santa Rosalia al Monte Pellegrino, e nella festa della Santa assistette alla messa pontificale; anzi, assumendo la dignità di legato apostolico e giudice della Monarchia, montò sul trono in camicia rossa, e alla lettura dell’Evangelo snudò la spada per la difesa della fede cattolica. Tanto poteva in lui la forza dell’ambiente: un ambiente di vivace e quasi primitivo sentimento religioso, per cui il sacerdote, prete o frate, è ritenuto anche oggi in Sicilia non diverso, ma superiore ai membri degli altri ordini sociali. Il sentimento religioso fu una delle ragioni del successo della rivoluzione. Il popolino di Palermo attribuiva a Garibaldi un potere soprannaturale e lo riteneva persino congiunto di Santa Rosalia, la quale, secondo la tradizione, era figliuola di un conte siciliano, di nome Sinibaldo. La somiglianza fra i due nomi suggellava la credenza.


Prima del 27 maggio, quando i soldati regi partivano da Palermo, i marinai siciliani, saliti sulle antenne dei loro bastimenti, davano loro la malandata col grido fuori, fuori, assassini, per non più tornare; ma dopo quel giorno l’odio verso i soldati napoletani era di molto scemato, anzi erano frequenti i casi, nei quali questi fraternizzavano nelle bettole coi popolani e insieme gridavano: Viva Garibaldi. L’esercito borbonico; giova ripeterlo, era formato da una sola delle Sicilie, cioè dalla continentale: l’Isola godeva il privilegio di non aver leva, e nell’alta gerarchia militare erano pochi i generali siciliani. Ricorderò fra essi il Lanza, tenente generale e ultimo luogotenente; il conte Giuseppe Statella, che morì in Roma nel 1862 e il principe della Scaletta, morto egli pure a Roma, nel 1889. L’esercito napoletano era sinceramente odiato in Sicilia anche per questo, e l’odio veniva, con eguale sincerità, ricambiato da parte dei militari, che assumevano in Sicilia aria da conquistatori e prepotenti.

Dopo l’ingresso di Garibaldi, l’avvenimento maggiore nella città di Palermo fu la liberazione dei sette giovani nobili, arrestati in seguito alla tentata sommossa del quattro aprile. La loro prigionia durò sino all’ultimo momento, cioè fino al 19 giugno, nel qual giorno partì da Palermo il grosso delle truppe regie col generale Lanza. Quei prigionieri furono considerati come ostaggi di guerra, e corsero più volte il pericolo di essere [p. 318 modifica]fucilati. Il 19 giugno, dunque, il Lanza, prima d’imbarcarsi per Napoli, andò ad aprir loro le porte delle prigioni, rivolgendo ai prigionieri queste parole: “Sono dolente di essere stato strumento involontario delle loro sofferenze„. Portati in trionfo da una folla plaudente, andarono a ringraziare Garibaldi, che li accolse con grande effusione. Egli aveva preso alloggio da pochi giorni al palazzo Reale, ma di questo occupava soltanto il quartiere ch’è sulla porta Nuova, oggi detta porta di Calatafimi: quartiere modesto, dal quale si gode una vista stupenda da Monreale al mare, attraverso la via Toledo. Quei giovani, tranne il padre Lanza, infermo, chiesero al Dittatore di seguirlo come volontari!, e Garibaldi li accettò. La loro liberazione fu causa di una dimostrazione che ancora si ricorda. Il Giornale Ufficiale della dittatura pubblicava in proposito un articolo magniloquente, che diceva cosi:


I prigionieri politici del forte di Castellamare, quei giovani eletti per cui abbiamo palpitato in mezzo alle varie vicende d’una lunga e procellosa lotta, sono resi alle nostre braccia. La tirannide gli strappava alle proprie case, alle proprie famiglie, e credeva umiliarne la fiera e dignitosa alterezza facendo dei loro lacci spettacolo alla città fremebonda: il popolo li ha ricondotti in trionfo. Onore a quei giovani! a quei rampolli di una aristocrazia cittadina, che, con unico esempio, mezzo secolo addietro immolava spontanea alla patria i suoi privilegi feudali; e poi, confusa nel popolo, divideva per tanti anni i dolori, gli oltraggi, le speranze e le fortune del popolo.

Dalla moltitudine affollata oggi sulla piazza della Vittoria, in mezzo al rimbombo dei sacri bronzi, al lieto suono di militari strumenti, allo sventolare di cento bandiere, un grido di riconoscenza e di affetto si è levato all’eroico Liberatore dell’Isola.

Questa sera la città scintillante di fuochi ha veduto un popolo intero d’ogni età e d’ogni classe, versarsi nella via principale, e abbandonarsi al sereno tripudio di una di quelle feste che non hanno nome nè luogo nei calendari ufficiali, ma che sono destinate a rimanere durevoli nelle pagine della storia.


La condotta di questi nobili è ben degna di essere ricordata anche oggi. Il Lanza, il Pignatelli, il Niscemi, il Riso, il Cesarò, il Notarbartolo e il Giardinelli appartenevano alle maggiori famiglie dell’Isola; rivelarono dignità e coraggio durante la prigionia, rifiutando l’indulto e mostrarono all’Europa che la rivoluzione in Sicilia non era opera delle classi infime, non degli elementi più compromessi moralmente, non degli esuli desiderosi di tornare in patria, non dei mazziniani, ne degli [p. 319 modifica]autonomisti, come diceva e ripeteva la diplomazia napoletana; ma era vero e unanime movimento popolare, suscitato si da varie cagioni, ma tutte ispirate politicamente da un sentimento unico: l’indipendenza da Napoli e l’unione all’Italia, con un governo moralmente migliore. Di quei giovani patrizi del 1860 sono superstiti il principe di Niscemi, senatore del Regno, il barone Giovanni Riso, il principe di Giardinelli e Giovanni Notarbartolo, fratello del povero Emmanuele.


Un decreto del 30 giugno, che portava le firme di Garibaldi dittatore e del segretario di stato della guerra, Vincenzo Orsini, diceva: “volendo annuire alle reiterate istanze fatte da molti tra i benemeriti cittadini, che prepararono e coadiuvarono il movimento siciliano„: veniva istituito un corpo speciale, che si chiamò col nome poco felice di “Guardie del palazzo dittatoriale„. Venne formato difatti dai cittadini più noti e più animosi, che prepararono e coordinarono il risorgimento siciliano ed erano centoventi. Di questo corpo eletto fu comandante, col grado di capitano, Gaetano La Loggia; il principe Antonio Pignatelli ne fu luogotenente; il barone Giovanni Riso, sottotenente; Corrado Niscemi, Martino Beltrami Scalia e Casimiro Pisani, juniore, ne furono sergenti; il principe di Giardinelli e Giovanni Notarbartolo di San Giovanni ne furono caporali; e Gabriele Cesarò, che era forse il più giovane, milite, ma i militi erano pareggiati a sottotenenti, e via via gli altri graduati. In questa compagnia di onore, che ricordava le cento guardie di Napoleone, e le guardie del Corpo dei Borboni, entrarono, anche come semplici militi, Enrico Albanese, Andrea Rammacca, Francesco Brancaccio di Carpino, Paolo Paternostro, Narciso Cozzo, Mariano Indelicato, Francesco Perrone Paladini, Rocco Ricci Gramitto. Giambattista Marinuzzi ne fu il furiere. Corpo veramente eletto, che in quei giorni rese buoni servigi anche alla sicurezza pubblica. I più giovani si arruolarono addirittura con Garibaldi e si batterono a Milazzo e sotto le mura di Capua. E qui occorre ricordare, che Francesco Lanza di Scalea, oggi senatore del Regno, ed Emmanuele Notarbartolo di San Giovanni, del cui efferato assassinio in questo momento tanto si parla, in vista dei grandi avvenimenti che si preparavano, avevano preso servizio volontario, nel febbraio del 1859, nell’esercito sardo; e Cavour, per il nome delle loro famiglie e il significato politico, che rappresentava [p. 320 modifica]il loro atto, li aveva indotti ad entrare nella scuola militare d’Ivrea, donde uscirono sottotenenti, il Lanza dei granatieri e il Notarbartolo della brigata Aosta. Si erano dimessi appena saputo lo sbarco di Garibaldi e corsero nell’Isola a prender parte alla rivoluzione. Scalea partì con Medici, e Notarbartolo fece parte di quella fortunosa spedizione, che, catturata dal Fulminante, venne rimorchiata a Gaeta. Quella spedizione era partita da Cornigliano presso Genova, la notte dall’8 al 9 giugno, sul Charles- Jeanes, clypper americano, rimorchiato dal vaporino l’Utile con bandiera sarda. Era un migliaio di volontari sotto il comando di Clemente Corte, poi generale e deputato, morto senatore del Regno, il quale allora aveva grado di maggiore, ed avrebbero dovuto raggiungere a Cagliari il resto della spedizione Medici, e colà ricevere armi, munizioni e uniformi. La cattura avvenne nella notte dal 9 al 10, e la nave, condotta a Gaeta, ancorò sotto il tiro delle batterie del porto. Ma poichè i volontari passavano per emigranti, il Piemonte e gli Stati Uniti protestarono, ma invano. La cattura durò sino ai primi di luglio, quando, concessa la Costituzione, il governo di Napoli si affrettò a liberarli, e poterono quei giovani prender parte alla battaglia di Milazzo. Emmanuele Notarbartolo vi trovò tanti suoi amici di Palermo, e basterà ricordare Narciso Cozzo, il Brancaccio, i due fratelli Ricci Gramitto, Rocco e Innocenzo, Stefanino de Maria, Pietrino San Martino, e vi trovò pure Francesco Scalea, Achille Basile e Corrado Niscemi, che la signora Mario fece poi morire a Cajazzo!nota E fra quelli, che dopo aver seguito Garibaldi al Volturno, entrarono poi nell’esercito, ricorderò Francesco Brancaccio di Carpino, che si battette a Custoza e vi guadagnò la medaglia al valor militare. Lanza di Scalea entrò in diplomazia.


Una caricatura dello Charivari aveva riassunta la situazione dell’esercito napoletano in Sicilia, dipingendo un’armata, nella quale i soldati avevano le teste di leone, gli ufficiali la testa d’asino, e i generali erano acefali, con questa annotazione in piedi: Voilà l’armée du roi de Naples en Sicile! Feroce caricatura, ma non immeritata, rispetto ai generali che dettero così desolante prova d’incapacità e di scetticismo. Non furono traditori, ma 1 [p. 321 modifica]incredibilmente inetti e noncuranti, non solo della causa che difendevano, ma della loro stessa reputazione: primo fra tutti, il Lanza, il quale non ebbe un sol lampo di risoluzione, e che chiusosi in palazzo Reale dal suo arrivo a Palermo, non ne usci che per sottoscrivere il secondo armistizio, dopo un iniquo e inutile bombardamento!

Si è parlato del Lanza e del Landi, ma sarà bene spendere una parola per gli altri. Il colonnello Cammillo Buonopane, che in quei giorni fece da spola fra Napoli e Palermo e sottoscrisse con Garibaldi la convenzione finale, veniva ritenuto il più dotto ufficiale dell’esercito, ed era sottocapo dello stato maggiore. Aveva precedenti liberali, e prima del 1848 era stato amico di Mariano d'Ayala e di Niccola Schiavoni, ma dopo il 1848, divenne assolutista convinto. Era intimo dell’abate don Mauro Minervini e aveva in moglie una baronessa Garofalo. Ricordo che quando, dopo il 1860, Niccola Schiavoni tornò dall’esilio, rivide il Buonopane in casa del Minervini. I due amici si narrarono a vicenda i proprii casi; e il Buonopane, rimasto borbonico, benchè dopo la convenzione del 6 giugno, sospettato di tradimento, fosse relegato in Ischia, non nascose allo Schiavoni tutta l’amarezza sua per sì ingiusti sospetti. Morì nell’agosto del 1862. Egli non aveva nessuna delle qualità acconcie per il posto che occupava, nè gli riusci di formare un piano di guerra contro Garibaldi, e quando gli fosse riuscito, non sarebbe stato possibile farlo accettare dal Lanza, la cui incapacità era soltanto superata dalla testardaggine di voler fare a modo suo, e ch’egli disprezzava. Capo dello stato maggiore era il generale Ischitella, il quale valeva meno del Buonopane, e che in quei giorni rappresentò, in modo così perfetto, la parte del confusionario, che interloquiva su tutto e non riusciva a far indovinare che cosa veramente volesse. Il Letizia pareva il più risoluto, e benchè vecchio, rivelava vivacità giovanile, ma il suo spirito era più vivace che illuminato, anzi scettico e leggiero nel fondo: non aveva paura, ma neppure iniziativa. Sotto il comando di un generale intelligente e audace, il Letizia si sarebbe fatto onore; lasciato a sé stesso, fu travolto nel vortice della comune rovina. I cognomi di Letizia e di Buonopane davano luogo ad epigrammi, da parte dei liberali. Uno dei più ripetuti era, che non si poteva perdere con letizia e buono pane, o che si sarebbe perduto . . . allegramente!

[p. 322 modifica]I generali Giovanni Salzano e Gaetano Afan de Rivera non difettavano di qualità militari: il secondo possedeva più cultura generale che militare, era figliuolo del celebre idraulico e cugino di Rodrigo, generale di artiglieria; ma aveva poco tatto e a Messina si era bisticciato col Russo. Primerano e Cataldo non avevano alcuna reputazione, neppure nell’esercito, anzi al Cataldo si rimproverò l’abbandono della posizione ai Quattro Venti, che rese impossibile ogni resistenza in Palermo. A tal proposito, Maniscalco, giunto a Napoli l’otto giugno, diceva a Gaetano Filangieri che l’abbandono dei Quattro Venti, da parte del Cataldo con quattromila uomini, senza essere stato aggredito; la ostinazione di Von-Mechel di continuare con la sua colonna la marcia su Corleone, invece di girare sopra Misilmeri e piombare addosso a Garibaldi; l’esitazione di questa colonna nell’attaccare, di ritorno, Palermo dalla parte meridionale, nonchè l’abbandono da parte del generale Landi della Gran Guardia, in piazza Bologni, erano state le principali cagioni dell’avvenuto disastro. E aggiungeva: “rovinoso fu il primo armistizio, ed anche più il secondo. La mattina del primo armistizio gli attacchi di Garibaldi erano molto rallentati, perchè egli mancava di munizioni; Palermo, durante i primi armistizi, si fortificò, costruendo innumerevoli barricate e tutte le saettiere aperte nelle case; l’incertezza, l’esitazione di Lanza erano tali da non farsi un’idea„.2

II Clary, che comandava a Catania, aveva discrete qualità militari; era blagueur, non quanto Bosco, ma un po’ gli somigliava. Da Catania fu mandato a Messina, dopo l’ingresso di Garibaldi a Palermo; e da Messina, dopo la capitolazione, fu mandato a Napoli; poi seguì Francesco LE a Roma, generosamente, non avendone pensione, nè assegno. Da Roma, venuto in sospetto delle autorità francesi, fu ricacciato in secondo esilio a Civitavecchia. Morì borbonico impenitente, convinto che la causa del disastro era dovuta al tradimento di Nunziante e di Pianell principalmente, e poi di tutti gli altri. Egli si condusse bene a Catania, resistendo il 31 maggio al tentativo di rivoluzione; ma la sua condotta a Messina non andò immune da accuse. Si era a oltre mezzo giugno, e la Sicilia, tranne Messina, Siracusa e Augusta, ubbidiva a Garibaldi. A Messina il Clary formò un piano arditissimo per [p. 323 modifica]rioccupare Palermo e Catania, e andò a proporlo al Re, il quale era a Portici. Nell’anticamera avvenne una scena molto vivace tra lui e il vecchio conte Ludolf, suocero di Pianell, alla quale presero parte Alessandro Nunziante e Rodrigo Afan de Rivera, i quali, col Ludolf, credevano doversi accordare la Costituzione, mentre il duca di Sangro era di diverso parere. Il piano del Clary fu approvato dal Re, ed egli ebbe il comando di tutte le truppe raccolte a Messina; ma quando si trattò di eseguirlo, prese tempo, affacciò delle difficoltà e non se ne fece nulla. Il 28 luglio capitolò con Medici, e il 2 agosto ebbe a Messina un caratteristico colloquio con Garibaldi, che fu da lui riferito in un dispaccio al Re. Garibaldi gli avrebbe manifestate in quel colloquio le seguenti intenzioni: “non voler fare tregua; esser deciso che l’Italia dovesse essere una; volersi prima disfare del Regno di Napoli, poi attaccare il Papa, e dopo, la Venezia, e questa liberata, passare a riprendere Nizza dalla Francia; disfarsi del Re di Napoli, col combatterlo o col farselo alleato, e con esso fare il resto; in ogni caso il Re di Napoli non dovrebbe che, o restare sotto Vittorio Emanuele, o andarsene„.3 Il 13 dello stesso mese, il Clary s’imbarcò per Napoli, lasciando il comando della cittadella al generale Fergola. I suoi rapporti sono interessanti per chi voglia penetrar meglio i fatti di quei giorni, e spiegar come, oltre al combattimento di Milazzo, non vi fosse più alcuna resistenza da parte delle regie truppe in Sicilia. Giungendo a Napoli il 14 agosto, sul vapore Maria Teresa, il Clary si presentò al Pianell, ministro della guerra, dal quale “fu ricevuto con molto sussiego, e si senti annunziare che la patria aveva molto a dolersi di lui„.4 La stessa Cronaca continua: “Clary chiede militarmente un consiglio di guerra che non è però mai convocato; il colonnello Anzani gli fa sentire che non può essere ricevuto in avvenire dal Re. Presenta da ultimo i documenti della sua gestione contabile negli ufficii del ministero della guerra per liquidare un credito di ducati 18000, oltre di altri ducati 7 500 per diverse spese„.4


Dopo tanti anni, sono capitate sotto i miei occhi alcune lettere inedite del generale Clary, datate nel 1863 da Civitavecchia, [p. 324 modifica]dove, così egli confessa, i francesi lo tenevano prigioniero. In una narra quel che avvenne a Catania, dopo il 31 maggio ed è bene riferirla:


Dopo la vittoria di Catania (31 maggio 1860) venne la colonna comandata dal signor maresciallo di campo Afan de Rivera, la quale si divise in due porzioni, una s’imbarcò con lui, e andiede a rafforzar la guarnigione di Messina, l’altra rimase con me, in aumento alle mie truppe. La mattina del 1“giugno 1860 comparve un vapore che portava il brigadiere Rodrigo Afan de Rivera e il colonnello Sponsilli, i quali mi ordinarono di ritirarmi. Risposi che non potevo, risposi chiaramente ed impertinentemente “che simile disposizione non poteva venire che da nemici del Re N. S., che alla fine de’ conti Sua Maestà mi avea scritto pochi giorni prima, che mi fossi sostenuto fino all’ultimo„ e ora, dopo un esito tanto felice, io non credea di dover ubbidire, tanto più che se fossi stato sconfitto per la strada (giacchè io mi disponevo a marciar sopra Palermo) avrei ripiegato o a Siracusa o a Trapani. Infine non volea partire, ecco l’assunto. Soggiunsero tutti due (Rodrigo Afan de Rivera e Sponsilli) — Generale, mettete il vostro rifiuto per iscritto — Subito. — In presenza loro, nella stanza del telegrafo elettrico, gli scarabocchiai un solenne rifiuto. Partirono il giorno stesso per Siracusa ed Augusta. Cosa fossero andati a fare non lo so; ma so che s’inquietarono pure con il maresciallo Rodriguez (che fu. sbalzato al ritiro pochi giorni dopo). Ritornarono a Catania, si presero le armi, le bandiere ch’io avea prese sul nemico, e mi dissero che un dispaccio loro giunto “mi metteva in istato d’insubordinazione, e ch’io doveva ritirarmi sopra Messina subito„. Chiamai tutti gli uffiziali Capi de’ Corpi (tra quali vi era Sciaquariello figlio unico di Afan de Rivera che comandava la batteria di obici a trascino) e loro dissi il volere dei Re, che que’ signori erano portatori. Tutti, eccetto De Biasio capitano d’artiglieria, Gabriel tenente d’artiglieria, due capitani de’ lancieri e cacciatori a cavallo, tutti gli altri cominciarono a gridare che essendo questa la intenzione del Re, essi non volevano parer ribelli. Allora dichiarai alto a Rodrigo Rivera e Sponsilli ch’io intendeva che mi mettessero in iscritto gli ordini sovrani. Ciò fecero, e conservo questo documento; ma sapete che le carte non sono presso di me. Presso a poco eccolo:

“Signor Generale,

“È volere di Sua Maestà il Re N. S. ch’Ella con tutte le truppe di suo comando, ripieghi sopra Messina, ove riceverà ulteriori ordini.

Il Brigadiere all'immediazione di S. M. il Re
firmato: Rodrigo Afan de Rivera„.


Nello stesso tempo essendo il telegrafo impedito, mandai dove si poteva fare un segnale, e scrissi a Severino, che mi rispose: Eseguite.


Sciacquariello, ricordato in questa lettera, era un giovanetto diciottenne, tenente di artiglieria che comandava una batteria di obici a trascino, e aveva avuto dai compagni quel nomignolo [p. 325 modifica]per il vivace e festoso ingegno, l’agile persona e la graziosità dei modi. Si era distinto il 31 maggio a Catania, nella sanguinosa repressione di quella sommossa, e aveva riportata una ferita alla gamba destra. Tornato a Napoli dopo lo sgombero di Catania, fu promosso capitano di stato maggiore e divenne aiutante di campo del generale Pianell, ministro della guerra. Più tardi andò a Gaeta dov’era il padre, e fece il dover suo. Figlio unico del brigadiere Rodrigo Afan de Rivera, aveva compiti i suoi studii nel collegio militare. Sciacquariello si chiamava Achille, ed oggi è deputato di Napoli, luogotenente generale e fu ministro dei lavori pubblici per due settimane.


Quale interesse vi era, dunque, perchè fosse abbandonata Catania alla rivoluzione, e le truppe col loro comandante si ritirassero a Messina? Nelle altre lettere lo stesso Clary chiama dolorosissimo il ritiro a Messina e afferma aver poi avuto ordini da Pianell “di cedere Messina e di entrare in trattative col nemico, di fargli la proposta della cessione dell’Isola con tutte le piazze forti, purchè lasciasse libero il continente„. Dichiara di aver dato solenni rifiuti a questi ordini, aggiungendo inoltre di avere avuto direttamente dal Re ordini di cedere Siracusa ed Augusta, e di essere andato in Napoli per impedirlo, e ne fu impedito — sono sue parole — però il documento sta in mano mia, e non esce» E così poi conchiude: “Pianell non ha mai scritto di andar in soccorso di Bosco, anzi mi toglieva tutt’i mezzi per soccorrerlo. Se avesse regolarmente esternata la volontà che un soldato doveva esternare per l’onore delle armi e del paese, io avrei pagata cara la infamia che si fece compire a Milazzo„ . Questa lettera, contiene tutta una serie di recriminazioni e di spavalderie; e ciò facilmente si spiega, imperocchè il Clary, non vedendo le cose che sotto il prisma di Catania e di Messina, perdeva il concetto del disastro irreparabile, che si andava maturando. Le lettere di lui sono sottoscritte D’Artagnan, e datate tutte da Civitavecchia nel luglio del 1863, quando il De Sivo apparecchiava la sua celebre storia. Egli ignorava che il Pianell aveva formato tutto un piano di resistenza sul continente, poichè in quanto alla Sicilia, così egli che i suoi colleghi del ministero e il Re erano di accordo che non si potesse più difenderla. La riuscita del piano del ministro della guerra esigeva, come condizione imprescindibile, che il Re si mettesse alla testa delle truppe; ma [p. 326 modifica]non fu potuto eseguire per le incertezze di costui. Achille Afan de Rivera, aiutante di campo del generale Pianell, mi afferma ch’egli andò tre volte a fare imbarcare i cavalli del ministro per Pizzo e per Sapri, e tre volte ordinò che fossero sbarcati. Le esitanze del Re furono caratteristiche in quei giorni, esitanze militari e politiche, che fecero veramente trionfare la rivoluzione da Reggio a Napoli. Certo la condotta del Pianell si presta agli attacchi dei suoi nemici e soprattutto di quelli in mala fede. Al Pianell non uomo politico, e per giunta ministro costituzionale, sfuggiva il solo concetto esatto, che per rimediare in modo concludente a quello sfacelo, bisognasse far fronte indietro: ritogliere la Costituzione, rimandare gli esuli fuori del Regno, fucilare Liborio Romano e far marciare il Re nelle Calabrie a capo dell’esercito. Altro rimedio non era possibile per salvare il Regno. Ma mancava l’uomo, mancava il principe, e non si sentiva più il pungolo del proprio dovere, soprattutto dai militari. Tutti concorrevano a far precipitare le cose perchè nessuno mostrava di avere più interesse a conservare quell’ordine politico. L’edifizio crollava da ogni parte. Il Pianell ha lasciate le sue Memorie, con obbligo che non dovessero pubblicarsi che alla morte dei suoi coetanei, e le Memorie sono in potere della vedova di lui, tuttora vivente. L’Afan de Rivera, che ha conservato per il Pianell sincero affetto, mi dice che più volte egli ha fatto vive premure perchè fossero pubblicate, ritenendo che la condotta del generale in quei tristi giorni ne uscirebbe pienamente giustificata.


L’esercito e la marina furono rovinati, è vero, dalla Costituzione, che scompigliò ogni vincolo di gerarchia, ma anche da quello spirito d’indifferentismo, di tolleranza e di falsa pietà, radicato, anzi connaturato all’indole meridionale. Compatimento scambievole, per cui era attutito il senso del lecito e dell’illecito, potendo la pietà per le persone farne perdonare i vizii, e anche le colpe. Se poi queste persone erano in conto di fedeli, allora si chiudevano tutti e due gli occhi. Indifferentismo giustificata anche da questo: dall’opinione divenuta generale che il Regno delle Due Sicilie dovesse scomparire dalla storia, e che perciò non valesse la pena di riscaldarsi per una dinastia, la quale non aveva più difensori, nè amici in Europa.

[p. 327 modifica]I momenti erano di una difficoltà eccezionale; Cavour lo capì da principio e non ebbe pace. Ordinò al Persano di andare a Napoli con la flotta, e, giunto ch’ei vi fu, la presenza dell’armata sarda accrebbe l’ardire degli unitarii e degli uomini di ordine. Prima ancora del Devincenzi, del Nisco e del Nunziante, aveva mandato a Napoli, a breve distanza l’uno dall’altro, Emilio Visconti Venosta, Giuseppe Finzi, Ignazio Ribotty e Carlo Mezzacapo, per farli cooperare al pronunciamento militare e al compimento della rivoluzione sul continente prima dell’arrivo di Garibaldi, e prima che sorgessero complicazioni diplomatiche, che egli aveva ben motivo di temere. Ma il pronunciamento, che pareva a Cavour il solo mezzo per giustificare la rivoluzione innanzi all’Europa, non fu possibile. Quel che narra il Nisco, a proposito della conversazione che ebbero il Devincenzi e il D’Afflitto col De Sauget ed altri ufficiali superiori nel quartiere di Pizzofalcone, mi è confermato, con nuovi particolari, dal Devincenzi. Sono notevoli le gravi parole, con le quali il vecchio De Sauget pose termine al colloquio: “lui e i suoi colleghi, ancor che il volessero, non potrebbero per verun modo salvare l’esercito napoletano. Non aver da gran tempo essi più alcuna autorito, sull’esercito; non essere in modo alcuno più sentiti i loro consigli; più essi erano elevati nei gradi, meno erano possenti; poichè l’alito corrompitore di ogni ordine nello Stato, quello della polizia, s’era introdotto nell’esercito; il soldato faceva la spia al caporale, il caporale al sergente, il sergente al tenente, questi al capitano .... Spero, soggiunse, che noi siamo andati esenti da questa tabe„.


Emilio Visconti Venosta, il più autorevole degli agenti di Cavour a Napoli, aveva appena trent’anni, ma rivelava vecchia serietà di cospiratore. Giunse colà pochi giorni dopo la promulgazione dell’Atto Sovrano, prima che Garibaldi sbarcasse in Calabria e prima della battaglia di Milazzo. Cavour, che molto l’apprezzava, lo mandò a chiamare, e nel colloquio seguito fra loro, alla presenza di Farini, ministro dell’interno, gli fece intendere che egli aiutava Garibaldi; ma nel tempo stesso si preoccupava dell’avvenire, se Garibaldi, e forse con lui i partiti estremi, rimanessero padroni di metà dell’Italia, e più ancora, se n movimento italiano sfuggisse alla direzione del governo del Re. Egli aggiunse che i pericoli maggiori si potevano [p. 328 modifica]probabilmente prevenire, se Napoli, prima dell’arrivo di Garibaldi, avesse fatta la sua rivoluzione in nome dell’unità e della dinastia nazionale, rappresentata laggiù, come altrove in Italia, dagli elementi temperati; e se soprattutto al moto popolare si fosse unito il moto militare, la manifestazione nazionale dell’esercito, come era avvenuto a Firenze. Il Cavour era persuaso esser questo l’unico modo per impedire che l’esercito napoletano si sfasciasse, e per averlo, come una forza organizzata e pronta nel caso, allora non improbabile, che l’Austria attaccasse. E perciò incaricava il Visconti Venosta di andare a Napoli, per indagare se questo piano avesse probabilità di riuscita, e per informarlo del vero stato delle cose.

Emilio Visconti giunse a Napoli con Carlo Mezzacapo, colonnello di stato maggiore nell’esercito dell’Italia del nord, ed oggi generale e senatore. Il Mezzacapo aveva da Cavour la missione speciale, come napoletano, di valersi delle sue numerose relazioni tra gli antichi compagni d’armi, per penetrarne le intenzioni e indurli a riconoscere la necessità di salvare l’esercito, facendolo dichiarare per l’unità nazionale. Alcuni giorni dopo, inviato pure da Cavour, giunse Giuseppe Finzi, uomo di azione e con propositi deliberati ad agire. Egli prese alloggio all’albergo di Roma, dov’era Visconti, ed entrambi procedevano d’accordo col Comitato dell’Ordine, Pochi giorni appresso arrivò mandato pure da Cavour, il generale Ignazio Ribotty, già capo militare dell’infelice rivoluzione calabrese nel 1848, e poi prigioniero per alcuni anni nelle carceri di Sant’Elmo.


Tutto questo armeggio, quasi alla luce del sole, non poteva sfuggire al ministero, e il ministro De Martino mandò a dire al Visconti, confidenzialmente, che lasciasse Napoli, non volendo il governo sentirsi costretto a farlo arrestare. Rispose il Visconti che egli era un deputato, e l’arresto di un membro del Parlamento avrebbe offerta al conte di Cavour una favorevole occasione diplomatica. Egli non ebbe più molestie, e non ne ebbero il Finzi, il Ribotty ed il Mezzacapo; anzi tutti seguitarono a cospirare sotto gli occhi del Re, benchè il fine vero della cospirazione non fosse raggiunto, per la decisa opposizione del Pianell a permettere il pronunciamento.

Nelle relazioni, che Visconti Venosta mandava a Cavour, sin [p. 329 modifica]dal principio scrisse, che il timore manifestato da taluni esuli napoletani a Torino, che l’annuncio della Costituzione e della lega col Piemonte avrebbe fatto sorgere un partito municipale, non esisteva; che l’opinione pubblica a Napoli era, nella grandissima maggioranza, dominata da una forte corrente unitaria e annessionista, ma che nel tempo stesso gli pareva poco probabile una rivoluzione a Napoli, perchè i liberali più avanzati preferivano aspettare Garibaldi; e i moderati temevano, tentando un moto insurrezionale, che si ripetesse il 15 maggio. E neppure nascondeva, sebbene non sconsigliasse di tentarlo, che a Napoli nulla si sarebbe concluso per iniziativa militare. Piuttosto consigliava, come mezzo più pratico e sicuro, di promuovere l’insurrezione nelle provincie, singolarmente in Calabria e in Basilicata, per effetto della quale Garibaldi, giungendo sul continente, avrebbe trovata la rivoluzione compiuta, o quasi compiuta.

Giuseppe Finzi, al contrario, con l’energia e la tenacia del suo carattere, volle esaurire tutti i tentativi e tutt’i mezzi per vedere se un moto popolare a Napoli fosse possibile. Ma non tardò a convincersi che non lo era, se non associandolo ad un moto militare, ed in questo caso, il solo corpo dell’esercito, che mostrasse qualche spirito di nazionalità, era quello dei cacciatori, e il solo uomo, il quale potesse avere su di esso un’influenza, credeva fosse il Nunziante, già partito da Napoli quando Finzi vi giunse. E furono le lettere del Finzi, che determinarono l’invito fatto da Cavour al Nunziante, ch’era nella Svizzera, di tornare a Napoli per promuovervi un moto militare.

Il Ribotty poi aveva ideato lo strano progetto di impadronirsi, da solo, di Castel Sant'Elmo, con la complicità di taluni tra gli ufficiali del forte. A tal fine si recava di notte lassù, e aveva abboccamenti con gli ufficiali, i quali, strano sintomo della condizione morale dell’esercito, consentivano a parlare con lui della proposta, pur non sapendo risolversi a nulla. Finalmente, il 2 agosto, con Gioacchino Saluzzo, principe di Lequile, si recò dal maggiore Gennaro de Marco, comandante del forte, e a nome di Cavour, gli propose a bruciapelo di cedere il castello alla guardia nazionale, che vi avrebbe inalberata la bandiera tricolore, prima che Garibaldi entrasse a Napoli. Offriva in compenso al De Marco il grado di colonnello, ma il fiero ufficiale rispose: “L’onore, di un soldato non si compra; prima di essere soldato io fui [p. 330 modifica]cittadino, quindi giuro sul mio onore, che a costo della vita non mi opporrò mai al movimento nazionale„.

L’unica azione veramente efficace, esercitata dai mandatarii del conte di Cavour, fu quella consigliata da principio dal Visconti Venosta: promuovere l’insurrezione nelle provincie, intendersi coi capi e inviare armi. Negli ultimi giorni però, dopo lo sbandamento delle truppe regie in Calabria, e quando il governo perdeva sempre più forza e prestigio, si pensò di tentare una manifestazione allo scopo di dare il tratto alla bilancia: far partire il Re e nominare un governo provvisorio, sotto gli auspicii di Vittorio Emanuele. Ma era tardi. Il conte di Cavour, con un dispaccio al Persano, fece sapere che un’azione diversa e distinta da quella di Garibaldi sarebbe stata, al punto a cui eran giunte le cose, senza effetto e capace forse di far sorger qualche grave discordia. Il conte aveva preso il suo partito e decisa la spedizione nelle Marche e nell’Umbria. Si era ai primi di settembre. Ho voluta riassumere qui l’opera di Cavour a Napoli, perchè meglio si possa giudicarla nel suo complesso, e perchè nessuno ne ha scritto finora con esattezza, e assai meno il Persano. Devo all’amicizia di Emilio Visconti Venosta se ho potuto farlo con esattezza e precisione.


E devo egualmente all’amicizia di Niccola Schiavoni un altro particolare, che rivela ancora di più l’inquietudine febbrile di Cavour in quei giorni. Non contento di aver mandato a Napoli il Visconti Venosta, il Finzi, il Ribotty, il Mezzacapo, il Nisco, il Devincenzi, il Nunziante, egli non era punto tranquillo circa gli avvenimenti, che con tanta rapidità si succedevano nelle Provincie meridionali. Sapendo da Poerio e da Massari che il loro amico Niccola Schiavoni, reduce da Londra, doveva recarsi a Napoli, li pregò di fargli sapere che desiderava vederlo. Schiavoni, giunto a Genova, trovò una lettera di Poerio che lo chiamava in fretta a Torino. Vi giunse e trovò Massari che l’aspettava alla stazione, e lo condusse da Poerio. Tutti e tre andarono dal ministro a casa, e trovatolo che andava a pranzo, vi furono da lui invitati. Diede poscia allo Schiavoni una lettera scritta tutta di suo pugno, e diretta al Devincenzi, raccomandando allo Schiavoni stesso di partir subito e consegnarla al destinatario, dopo che di essa gli ebbe per sommi capi riferito il contenuto, ch’era [p. 331 modifica]questo: tentare ogni via per ottenere un pronunciamento militare, per cui Garibaldi trovasse compiuta le rivoluzione al suo arrivo in Napoli. Schiavoni parti subito; giunse a Napoli negli ultimi giorni di agosto, consegnò a Devincenzi la lettera di Cavour; insieme andarono da Villamarina, ma questi rispose loro: troppo tardi! Si era difatti al 2 settembre e le cose precipitavano con una rapidità spaventosa. Garibaldi già marciava su Napoli, senza ormai trovare più alcuna resistenza nel suo cammino.







Note

  1. Jessie White Mario, La vita di Garibaldi, vol. I, cap. XXV, pag. 26,
  2. Archivio Filangieri.
  3. Cronaca, pag. 233.
  4. 4,0 4,1 Id., pag. 241.