La cartella n. 4/I morti parlano

I morti parlano

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Chi lascia la via vecchia per la nova Riccardo Cuor di Leone
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I MORTI PARLANO.

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Questo racconto fu pubblicato alcuni mesi sono nel Fanfulla. Per non toglierci nulla della sua verità, lo ristampo colla lettera che lo accompagnava al direttore del giornale.
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Al Direttore del «FANFULLA»

Roma.


Milano, 29 giugno 1879

Caro signor direttore,


LL
e mando due lettere che ho ricevute dall’America a circa un anno di distanza l’una dall’altra. La seconda è un seguito affatto impreveduto della prima; ed entrambe riusciranno certo più interessanti ai lettori del suo Fanfulla, che non sarebbe riuscita quella tale mia novella [p. 102 modifica]che vado promettendo da tanto tempo e non scrivo mai.

Mi si va ossidando l’immaginazione; non so più inventar nulla, e sono ridotta a fare da cronista, mandandole invece d’un romanzo la relazione d’un fatto vero che somiglia ad un romanzo.

Veda se può accontentarsene, ed in tal caso la prego di restituirmi le lettere quando le avrà pubblicate perchè sono d’un’amica lontana che forse non vedrò più, e le tengo preziose.

Devotissima sua

La marchesa Colombi.


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LETTERA PRIMA.

Filadelfia, 5 gennaio 1878.

Mia cara,


WW
ggi tutti i giornali cittadini si occupano di un originale che morì ieri l’altro; un tipo strano che ti voglio descrivere perchè forse ti gioverà in qualcuno de’ tuoi romanzi.

Tanto, non avrei altre notizie da darti, perchè mio marito è sempre fuori per i suoi [p. 104 modifica]affari, Ettore è in collegio, ed io muoio di nostalgia, al solito.

Ti dissi che m’ero abbonata al teatro di Walnut-Street. Ci andavo ogni sera coll’assiduità d’una persona annoiata che cerca distrarsi. Qui posso andar sola al teatro in assenza di mio marito. A Milano mi sarebbe sembrata un’enormità.

Dal mio palco potevo vedere tra la prima e la seconda quinta, un ometto piccolo, magro con un viso tutto zigomi, colle labbra così sottili che la sua bocca pareva una ferita cicatrizzata, col naso anch’esso sottile come una piccola parete di cartoncino, un paravento messo là fra due guance, perchè l’occhio destro non potesse vedere quello che accadeva a sinistra. La testa era completamente calva, ed ai due lati del paravento luccicavano due occhietti piccoli, neri, vivacissimi, irrequieti, guarniti di ispide ciglia rossiccie, dalle quali [p. 105 modifica]si poteva argomentare che quando quell'uomo aveva avuto dei capelli, erano stati rossi.

Era un operaio del teatro. Un buon operaio; tutto il giorno lavorava alle scene, agli attrezzi, ai sipari, a tutto il meccanismo del palcoscenico che io non conosco. Ma la sera non faceva nulla. Non bisognava contare su lui.

Prima che si accendessero i fanali era là al suo posto fra la prima e la seconda quinta, ascoltando ogni parola, seguendo ogni gesto, cogli occhi scintillanti, la bocca semi-aperta, la persona protesa innanzi, completamente elettrizzato da quanto vedeva ed udiva.

Erano quarant'anni che faceva quella vita; era entrato al servizio del teatro a sedici anni, ed ora ne aveva cinquantasei.

S'era ammogliato tardi, ed aveva sposato una cameriera del console francese, che aveva imparato per pratica la lingua dei suoi padroni, e ne andava superba. Ma l'amore per la gio[p. 106 modifica]vane Bess non lo aveva distolto dal suo grande amore per l’arte. Era questa per lui una specie di mania.

Pare che non avesse mai compreso precisamente cosa fosse l’artifizio drammatico; e confondeva bizzarramente nella sua testa la finzione colla realtà.

Sapeva che i signori del teatro — come diceva lui — studiavano una parte; vedeva che gli stessi avvenimenti si ripetevano moltissime volte, organizzati sotto un dato titolo; capiva che quei personaggi morivano sul palcoscenico, poi tornavano a vivere dietro il sipario. Ma, malgrado ciò, quei personaggi per lui esistevano realmente; li identificava cogli attori, ed in ogni dramma vedeva una parte di vero.

Qualche volta, filosofando coi suoi compagni operai un po’ demoralizzati che dubitavano dell’immortalità dell’anima, Tobie Reed era uscito a dire, come prova di quanto egli [p. 107 modifica]credeva con fede profonda, che aveva veduto Otello uccidere Desdemona e poi uccidere sè stesso al Walnut-Theatre, la tale sera e la tale altra, e poi li aveva riveduti tutti e due trasformati in Giulietta e Romeo, o in Fausto e Margherita.

Tutti i frequentatori del Walnut-Theatre conoscevano le piccole manie di Tobie, come lo chiamava con accento francese la Bess. Era divenuto celebre per una scena buffa.

La sua grande ambizione, l’aspirazione della sua anima da artista, era quella di rappresentare una parte sul palcoscenico, una parte qualunque; non ci metteva orgoglio.

— Sia pure da servitore o da spazzino — diceva. — Sono un povero operaio, e non potrei diventare un signore nè un re. Ma se potessi comparire là fuori anch’io.....

Era un pensiero che lo tormentava continuamente. Gli pareva che entrando in iscena [p. 108 modifica]prenderebbe parte a quella vita avventurosa dei drammi che lo appassionava tanto.

Il capocomico, il quale era anche primo attore nella sua compagnia, era agli occhi di Tobie l’onnipotenza; egli pensava con ansietà che sarebbe bastata una parola di quell’uomo per aprirgli il varco a quel mondo fantastico a cui anelava.

Tobie non avrebbe mai osato rivolgersi direttamente a quel personaggio alto e misterioso che vedeva ogni sera sotto nuovi aspetti e con nuovo prestigio. Ma da tutti gli impiegati, da tutti i subalterni del teatro gli faceva portare la sua supplica di accoglierlo nella compagnia, e stava sempre aspettando una risposta.

La Bess, che s’infastidiva di quell’idea stravagante, gli diceva spesso:

— Non farti illusioni, Tobie. La tua voce è troppo cupa. Non sei fatto per recitare. E poi, a cosa servirebbe? [p. 109 modifica]

Era una donnina positiva, d’idee strette, ignorante, che passava la vita lavorando. Al teatro non ci andava mai, e credeva che tutte le arti fossero perditempi inutili, ed anche un po’ peccaminosi.

Ma Tobie non rinunciava per questo alle sue speranze.

Una sera si dava l'Amleto. Egli era là, al solito posto fra le quinte, cogli occhi sbarrati, il cuore palpitante per quel povero principe mesto, che era il capocomico. Ad un tratto gli sente dire con accento di profonda incertezza:

Tobie or not Tobie...

Parlava di lui! Era preoccupato della sua domanda. Rifletteva se dovesse ammettere Tobie all’onore della scena. Ci doveva essere un posto vacante, ed il principe pensava se gli convenisse meglio ammetterci Tobie or not Tobie. [p. 110 modifica]

Tobie era timido, rispettosissimo; ma in quel momento vedeva agitarsi la grande questione della sua vita: «that is the question» diceva pensosamente Amleto. Una parola detta a tempo, un’intercessione, potevano forse deciderlo in favore del povero operaio.

Tobie si lasciò vincere dalla sua grande passione, si fece innanzi sul palco, un passo solo, colle mani giunte, e con voce supplichevole esclamò:

Oh yes sir! Tobie! Tobie!

Neppure la sepolcrale serietà d’Amleto potè resistere a quella scena; ed il pubblico applaudì con entusiasmo.

Tobie, da quell’uomo discreto che era, si ritirò subito. Ma il sorriso del capocomico gli aveva dato buone speranze. Infatti, egli aveva preso interessamento per quel personaggio bizzarro, che aveva ridotta ai minimi termini per conto suo la grande questione dell’essere [p. 111 modifica]o non essere. Ogni volta che gli passava accanto dopo quel fatto, sorrideva ancora.

Una sera, al momento di andare in iscena, venne a mancare, per un malessere improvviso, un attore di terz’ordine che doveva comparire soltanto un momento per annunciare ad un sovrano che la reggia era stata incendiata dai sudditi ribelli. Erano poche parole. Una comparsa.

— Accontentiamo Tobie Reed — disse il capocomico. — Vestite lui, ed insegnategli la parte.

Si può figurarsi la gioia, l’esaltazione di Tobie. Aveva raggiunta la mèta sospirata tanto lungamente. Ecco; un sovrano lo prendeva al suo servizio; e toccava a lui, Tobie, dare il primo allarme per avvertire il suo signore dell’incendio.

In un momento tutto si confuse in quella povera testa. Non pensò più ad altro che [p. 112 modifica]al pericolo del sovrano suo signore; se ne appassionò; avrebbe voluto correre subito da lui; e ci volle tutta a trattenerlo fino al momento in cui toccava veramente a lui d’entrare in iscena.

Appena gli dissero: va, egli balzò con furia fuori dalle quinte, al colmo dell’esaltazione, urlando come uno spiritato:

— Fuoco! Fuoco! Siamo circondati dalle fiamme!

E la sua voce cavernosa aveva preso un accento così spaventosamente vero, che il pubblico impaurito rispose con grida di terrore, balzò in piedi, rovesciò le panche, ed urtando, calpestando tutto, si precipitò fuori, pazzo di terrore, credendo che fosse realmente incendiato il teatro.

Naturalmente quel successo impreveduto troncò netta la carriera drammatica di Tobie Reed, e le simpatie del capocomico per lui. [p. 113 modifica]Egli lo riprese severamente, lo chiamò vecchio imbecille, e lo rimandò con disprezzo ai suoi lavori manuali.

Fu un avvilimento profondo per Tobie. Avevano forse ragione la Bess ed i suoi amici. Egli aveva una voce cavernosa che impauriva la gente. Doveva rinunciare a recitare; rinunciarvi per sempre, perdere la speranza che aveva vagheggiata per tanti anni.

Ne era profondamente desolato. Ma d’altra parte riconosceva che la sentenza che lo colpiva era giusta; egli aveva veduto con sgomento la catastrofe suscitata in teatro dalla sua comparsa; aveva constatati i danni; non c’era a dire; meritava d’essere espulso; ma era un gran dolore, un gran dolore!

Soltanto Tobie non riesciva a comprendere come mai — dopo averlo respinto dalle scene con tanto sdegno e tanto perentoriamente — ogni volta che si rappresentava l’Am[p. 114 modifica]leto il capocomico tornasse ad agitare fra sè la stessa questione: «Tobie or not Tobie!»

Che volesse prenderlo un’altra volta nella compagnia? Riammetterlo alla difficile prova? Non era possibile; lo aveva chiamato vecchio imbecille; gli aveva imposto severamente di non comparirgli più dinanzi. Eppure tratto tratto era là daccapo, perplesso, inquieto, a ripetere:

Tobie or not Tobie; that is the question.

A forza di pensarci, il povero Tobie ne perdeva la testa; vaneggiava.

Associava quella scena coll’altra del cimitero, e si faceva delle idee sempre più confuse e truci. Finì per immaginarsi che il sovrano suo signore, ch’egli aveva servito così poco, e che ora confondeva con Amleto, lo avesse condannato a morte per punirlo della scena dell’incendio, ed avesse ordinato a’ suoi sgherri di portargli la testa del colpevole decapitato. [p. 115 modifica]

E Tobie era in grado di riconoscere meglio di chicchessia, che il sovrano aveva le sue buone ragioni per dubitare dell’identità del cranio che gli dava il becchino, e per domandare ripetutamente se proprio era «Tobie or not Tobie».

Sul palcoscenico del Walnut-Theatre non erano mancati tiranni sanguinari, per giustificare le supposizioni atroci di Tobie.

C’erano momenti in cui il pover’uomo, nel suo immenso sconforto, pensava che, se veramente quel cranio fosse stato il suo, avrebbe rappresentata una parte nell'Amleto, ed una parte importante; e gli doleva quasi di non essere stato decapitato.

A lungo andare, e col ripetersi di quella scena, il pensiero di Tobie si fissò con insistenza su quella combinazione funebre, la quale conciliava il suo desiderio di prender parte alle rappresentazioni drammatiche colla incompatibilità della sua voce e la sua inettitudine a re[p. 116 modifica]citare. Se avesse potuto davvero mettere là il suo cranio! Ma come fare?

Finalmente, a forza di rifletterci sopra, gli parve d’aver trovato il modo; e da quel momento il suo spirito apparve più sollevato e tranquillo. Aveva ancora una speranza, una meta, per quanto stravagante, a cui rivolgere l’attività della sua mente.

In quell’epoca cominciò a correre voce che Tobie Reed avesse fatto una ricca eredità. Ma il suo modo di vivere non mutò affatto; continuò a lavorare tutto il giorno e ad assistere alle rappresentazioni della sera coll’usata assiduità; la sua casa non s’ingrandì nè si fece più bella; la Bess continuò a lavorare di cucito per un negoziante di biancheria come aveva fatto sempre; e la diceria dell’eredità non ebbe più corso.

Tuttavia era stata una ragione abbastanza plausibile che l’aveva suscitata. Per più d’un [p. 117 modifica]mese Tobie s’era mostrato preoccupatissimo della sua successione. Voleva far testamento; andava domandando a tutti come si facesse, come potesse esprimere validamente le sue ultime volontà un uomo che non sapeva scrivere; e se fosse indispensabile ricorrere a un notaio, e se si dovesse pagarlo, e quanto.

Questo se e questo quanto erano stati due ostacoli insuperabili pel povero Tobie, ed avevano privato i posteri delle sue ultime volontà. Egli aveva messo fuori un gran sospirone sulla spesa approssimativa d’un testamento che gli avevano indicata, e non ne aveva parlato più. Era evidente che le supposizioni dell’eredità erano state infondate. Tobie aveva desiderato di far testamento per qualche sua stranezza, come aveva desiderato di recitare; era stata una nuova manìa; ma in realtà di patrimonio da legare non ne aveva, dacchè gli mancavano persino i quattrini per pagare il notaio. [p. 118 modifica]

L’anno scorso in principio dell’inverno il signor Edison prese in affitto il teatro di Walnut Street per un dato numero di sere. Doveva fare davanti al pubblico i primi esperimenti del fonografo.

Tobie rimase sbalordito quando vide il palcoscenico invaso fin dal mattino da quelle macchine d’ogni dimensione. Che cosa dovevano farne? E dove starebbero gli attori? Non gli riesciva d’immaginare che strano dramma si preparasse. Specialmente quel cilindro, lungo quasi un metro, montato sopra una specie di cavalletto, con tanta complicazione di piombi appesi a catene di varie lunghezze, e ruote e manovelle, quel grande ordigno che teneva il posto d’onore sul davanti della scena, lo impensieriva moltissimo.

Tutta l’altra serie di fonografi di dimensioni minori, che erano sparsi su varie tavole, Tobie li credette macchine da cucire, e sup[p. 119 modifica]pose che le avessero portate là perchè nel dramma si dovesse rappresentare una sartoria, un laboratorio, o qualche cosa di simile.

La sera del primo esperimento Tobie fu sollecito ad accorrere al suo posto fra le quinte, più curioso, più interessato che mai. Non vedeva l’ora di sapere che parte doveva rappresentare quella macchina.

Cominciò dal non capir nulla, e dal sorprendersi al vedere che non comparivano attori, che non c’erano scene, che un giovane signore tutto solo e vestito di nero faceva al pubblico un lungo discorso.

It is a lecture — è una conferenza — disse Tobie.

Ma la sua meraviglia passò ogni limite, quando vide il giovane signore accostare la bocca alla macchina misteriosa, e confidare al suo orecchio d’ottone il solito dilemma che da tanti anni tribolava il capocomico: [p. 120 modifica]

Tobie or not Tobie; that is the question.

Era dunque per decidere di questo che si era fatto tutto quell’apparecchio? E che cosa ne risulterebbe?

Tobie aveva finito per rassegnarsi a non essere artista; aveva un altro progetto che appagava le sue lunghe aspirazioni. Tuttavia fu vivamente interessato da quel modo tutto nuovo di risolvere una questione.

Dopo aver parlato, il giovane signore passò dietro la macchina e si pose a tirare le corde ed i piombi.

— Si estrarrà a sorte — pensò Tobie. Ed aspettava di veder uscire da qualche parte una cartolina su cui fosse scritto il , o il no.

Ma invece fu la macchina stessa che ripetè colla medesima intonazione piena di dubbi:

Tobie or not Tobie, that is the question.

Era stupefacente che quel suo desiderio fosse diventato la preoccupazione generale. Che [p. 121 modifica]persino le macchine si tormentassero con quella questione. Alla lunga, però, capì che la macchina non aveva pensieri suoi da esprimere; che ripeteva soltanto quanto le avevano detto. Ripeteva tutto; colla stessa voce, colle stesse intonazioni! Una macchina che parlava!

Era un miracolo come quello dell’asina di Balaam.

Ma dopo la macchina grande parlarono anche le piccole, le macchine da cucire. Il miracolo era più grande d’ogni altro scritto nella Bibbia. L’asina di Balaam era unica.

Tobie era in un orgasmo straordinario. Nessuna produzione drammatica lo aveva mai esaltato tanto.

— Parlano! — gridava. — Udite, udite! Vi sono macchine che parlano! Ripetono una volta, dieci volte, cento volte, quanto hanno udito! [p. 122 modifica]

E s’informava se quelle macchine potessero ripetere un discorso dopo un dato tempo... dopo un mese... dopo un anno...

— Sì, potevano ripeterlo dopo un tempo infinito, purchè non venisse toccato il foglio di stagnola su cui era rimasta l’impressione della voce, mediante le oscillazioni inflitte al piccolo perno....

Tobie non comprendeva nulla delle spiegazioni; ma la sua gioia era al colmo. Batteva le mani, saltava, rideva come un pazzo. Pareva che quella scoperta lo toccasse ne’ suoi interessi più vitali; che l’avessero fatta esclusivamente per lui.

Quando il teatro fu deserto, egli s’introdusse sul palcoscenico, e passò parte della notte a far girare il manubrio dei fonografi, ad ascoltarli ripetere le parole che erano state dette nella serata, a dirne di nuove ed a farle ridire. E così continuò per tutte le notti finchè dura[p. 123 modifica]rono gli esperimenti. Si credeva che lo avesse colto una nuova mania.

— Chiodo scaccia chiodo — dicevano i suoi compagni. — L’idea fissa del fonografo gli farà passare quell’altra di recitare. Ma sarà pazzo egualmente. Soltanto avrà cambiato pazzia.

Invece quando i fonografi sgombrarono il teatro, Tobie non ne parlò più; ed al desiderio di diventare attore drammatico non fece più la menoma allusione. Si era fatto serio, tranquillo; lavorava assiduamente. Guarito da quelle idee strane, era un buon operaio ed un buon marito.

Al teatro si diceva per celia:

— Ecco la prima utilità del fonografo. Ha guarito un pazzo. Forse la serietà di quella scoperta e di quelle dimostrazioni scientifiche gli ha raddrizzata la testa.

Era questo un risultato non preveduto dal signor Edison; ma un risultato buono, ad ogni [p. 124 modifica]modo; e gli amici di Tobie se ne rallegravano. Ma era un’illusione, se ne accorsero ben presto.

Un giorno, circa un mese dopo gli esperimenti del fonografo, la Bess si vide portare a casa il marito sopra una barella tutto insanguinato. Era caduto dall’alto d’una scala a pioli sulla quale era salito per disporre i sipari del teatro; era precipitato in orchestra e s’era ferito gravemente al capo, battendo la fronte contro un leggio di ferro.

Quando lo deposero sul letto, era svenuto. Il medico dichiarò che la ferita era mortale, e non diede nessuna speranza.

La Bess mandò a chiamare un cugino del marito Seth Reed, il solo parente ch’egli avesse. Dopo circa un’ora, Tobie si risvegliò dal suo abbattimento, riconobbe il cugino e la moglie, e stese loro le mani; ma ebbe appena il tempo di dire: [p. 125 modifica]

— Udite, udite. Questa è la mia ultima volontà. Tagliatemi la testa, e portatela al teatro di Walnut-Street per fare il cranio nell'Amleto.

Ricadde sul guanciale; gli prese il rantolo e mezz’ora dopo spirò.

La mania di Tobie Reed non era guarita affatto. Egli visse e morì nella sua idea fissa di diventare attore drammatico. Soltanto si era tranquillato perchè, una volta persuaso di non poterci riuscire da vivo, aveva pensato un modo per riuscirci almeno dopo morto, mettendo sulla scena il suo povero cranio. E questo lo appagava.

Pur troppo, mia cara, il mio racconto è finito, e debbo riconoscere che non ha un bel finale d’effetto; anzi non ha finale addirittura, e termina meschinamente a coda di sorcio. Ma le cose vere non sono mai così bene organizzate come i vostri fatti da romanzo, immaginati apposta per fare impressione a chi li legge. La realtà non mira a far impressione; [p. 126 modifica]è quel che è; e per questo i romanzi piacciono quasi sempre di più.

Ad ogni modo, io t’ho dato un tipo abbastanza originale. Se ti riesce di creargli intorno un romanzo, una novella, qualche cosa, non mancare di spedirmene una copia, la prima. Ho tanto bisogno di distrazioni contro la nostalgia che mi tormenta! Tanto, che t’ho scritto una serie di pagine abbastanza scipite per ingannare la noia di un lungo pomeriggio, a rischio di triplicare il porto della mia lettera.

Saluta tuo marito per tutti noi, dammi notizie di voi altri e della mia cara Milano, e credimi

Tua di cuore

Maria T.

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LETTERA SECONDA.

Filadelfia, 10 aprile 1879.

Cara,


DD
opo la scoraggiante accoglienza che hai fatta l’anno scorso al povero Tobie Reed, dovrei limitarmi a scriverti il bollettino sanitario della mia famiglia; noi stiamo bene, e così spero anche di te; e non aspirare mai più a suggerirti nessun tipo pe’ tuoi racconti. [p. 128 modifica]

Ma tutti abbiamo la nostra parte d’amor proprio. Io poi, oltre la mia, debbo avere anche quella di qualchedun altro, perchè quella tua risposta a proposito della mia narrazione: povera di fatti, punto interessante e che finiva male, non la mi è mai andata giù. Ed ora che quel racconto ha avuto un seguito di fatti, ed un’altra fine, provo una specie di soddisfazione personale; mi pare che tutto questo sia avvenuto per dare una riparazione a me e per provarti che la storia ch’io t’avevo suggerita non era poi così poco interessante come tu credevi. Sicuro! Ho scoperto che non finiva là; era soltanto il prologo di un dramma, un vero dramma questo, che si è svolto or ora, sotto i miei occhi. Figurati se voglio rinunciare a narrartelo!

Circa un anno fa, poco prima della morte del Reed, era morta qui una ricchissima vedova senza figli. Aveva dei parenti, che, come [p. 129 modifica]al solito, avevano fatto grande assegnamento sulla sua eredità. Ma all’apertura del testamento, si era trovata una clausola stravagante, che diminuiva il patrimonio di più di un terzo. Ella chiamava eredi universali de’ suoi beni mobili ed immobili, ecc., i suoi due fratelli Abele e Nathan Blounty; ma faceva un’eccezione riguardo a’ suoi gioielli, i quali dovevano essere tutti sepolti con lei, nessuno eccettuato.

Quei gioielli erano qualche cosa di favoloso. Te ne cito uno solo per darti un’idea del loro immenso valore. Ti ricordi la famosa collana di perle che il povero marchese A.... aveva voluto comperare a Parigi per sua moglie, e non potendola pagare sborsò finchè visse trentamila lire all’anno, come interesse del capitale che rappresentava? Devi ricordartela, perchè l’abbiamo veduta insieme molti anni sono alla Scala, ed allora tutta Milano ne parlava. [p. 130 modifica]

Ebbene, quella collana — che alla morte del povero marchese A...., completamente rovinato, era tornata al suo proprietario — era poi passata per varie mani, ed aveva finito per capitare a Filadelfia all’epoca dell’ultima esposizione.

Qui era stata comperata dalla vedova Blounty, ed ora faceva parte dello sfarzoso corredo di gioielli destinati ad ornare il suo cadavere pel giorno del Giudizio.

Puoi figurarti con che desolazione i fratelli accompagnarono al cimitero ed affidarono alla terra la salma preziosa.

La cassa in cui l’avevano rinchiusa era addirittura una cassa forte, tutta coperta di ferro, e saldata in giro. Essi avevano, per forza, obbedito al volere della defunta; ma non rinunciavano a custodire gelosamente quelle ricchezze, come se le considerassero sempre di loro proprietà, e sperassero che, per qualche evento imprevedi[p. 131 modifica]bile, dovessero un giorno o l’altro tornare nelle loro mani.

Pare però che quelle precauzioni non fossero sufficienti. Quel tesoro sepolto doveva naturalmente allettare i ladri.

Infatti, circa quindici giorni sono, nella notte del 27 marzo, furono arrestati nel recinto del cimitero due giovani, un uomo ed una donna, armati di vanghe e di leve.

Il sexton (custode del cimitero) li aveva uditi, ed era corso a chiamare due roundsmen (uomini della polizia che fanno ronda durante la notte). Egli sapeva che a quell’ora avevano l’abitudine di fare una lunga sosta ad una birraria poco lontana, ed infatti aveva avuto la fortuna di trovarli.

I colpevoli erano stati arrestati e frugati. Ma non s’erano trovati addosso a nessuno dei due, nè oggetti funebri, nè oggetti di valore di nessuna specie. [p. 132 modifica]

Non spettava ai roundsmen d’interrogarli, nè di fare ispezioni nelle loro case. Si limitarono a condurre i due arrestati alla questura, ed a farvi la loro deposizione.

Al mattino, ed appunto mentre il police sergeant stava ricevendo quella deposizione, si presentò all’ufficio di polizia il sexton per annunciare che la tomba della vedova Blounty sembrava essere stata aperta. La cancellata di ferro che la circondava era intatta; era bassa, ed i ladri potevano averla scavalcata; ma la tavola di marmo che chiudeva l’ingresso del sepolcreto era stata sollevata; o almeno s’era tentato di sollevarla, perchè si vedevano alcune scheggie staccate, al punto in cui era stata introdotta la leva fra le commessure.

Il police sergeant accorse subito sul luogo con due periti, per rilevare se, e con quali mezzi, fosse avvenuta la violazione della tomba. Ed infatti si constatò che la pietra sepolcrale [p. 133 modifica]era stata smossa. Ma restava a sapere se i ladri erano riusciti ad introdursi nella capella mortuaria, a forzare quella cassa tanto gelosamente chiusa. Si poteva presumere di no, dacchè nelle perquisizioni fatte all’atto dell’arresto sulla persona dei colpevoli, e nella mattina alle loro case, non s’era trovato nessun gioiello. Tuttavia bisognava procedere all’esame dei luoghi.

Furono chiamati immediatamente gli eredi della Blounty; alle sette essi giunsero in carrozza. Allora fu sollevata la lastra di marmo, e la visita giudiziaria discese nella camera funebre. Ma gli eredi mandarono un grido d’orrore appena la luce delle lampade portate da due policemen rischiarò il sarcofago. Era scoperchiato, ed il coperchio di marmo giaceva in terra.

«......Dall’un canto
Dell’avello solitario
Sta il coperchio rovesciato...»

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Ma l’avello non era solitario; non era la morta che s’era risvegliata. Anche la cassa di ferro era stata forzata tutt’in giro dov’era saldata. I periti dichiararono che l’operazione doveva essere stata compiuta con uno scalpello tagliente, sul quale s’era picchiato con un martello o con un sasso; e non poteva essere stata fatta in meno d’un’ora, dato che ci avessero lavorato due persone.

Il coperchio di ferro era stato rimesso al suo posto; ma combaciava male. Quando venne sollevato, si vide la morta pallida e composta nella bara, ma spoglia di tutt’i gioielli coi quali era stata sepolta. Sui suoi piedi bianchi giacevano abbandonati uno scalpello ed un grosso martello. I periti riconobbero gli strumenti coi quali era stata forzata la cassa.

Le carni della morta, rimaste sempre ermeticamente chiuse, non si erano scomposte. Ma erano rammollite, e nello sforzo che avevano [p. 135 modifica]fatto i ladri per disgiungere le mani, il pollice della sinistra s’era strappato, ed era rimasto chiuso tra il pollice ed il palmo della destra.

Quella mutilazione non indicava nessuna barbarie premeditata nè volontaria; era affatto accidentale, ed il cadavere insensibile non ne aveva sofferto; s’era voluto unicamente togliere qualche braccialetto o qualche anello, che non avrebbe potuto staccarsi senza disgiungere le mani.

Tuttavia quel fatto bastò ad accrescere oltremodo l’indignazione degli astanti, ed appena la notizia si sparse per la città, tutti gli animi furono mal prevenuti contro gli imputati; nessuno metteva in dubbio la loro colpabilità. Soltanto dovevano avere un terzo complice, al quale era riuscito di fuggire coi gioielli della morta.

Il fatto era così evidente, i ladri colti in flagrante erano talmente nella impossibilità di giu[p. 136 modifica]stificarsi che il processo non ispirò neppure alla prima grande curiosità. Dal nome del complice in fuori, si sapeva già tutto.

Ma appena i giornali recarono i primi resoconti dell’istruttoria, la curiosità e l’interesse furono eccitati al più alto grado, ed alla prima udienza pubblica il pubblico accorse in gran folla al tribunale.

Negli interrogatori era stato esaminato prima l’imputato il quale aveva detto di chiamarsi Seth Reed, d’anni 31, cesellatore. Egli aveva negato assolutamente il furto, e l’intenzione del furto; aveva negato d’avere altri complici oltre la donna che era stata arrestata con lui.

Aveva narrata una storia meravigliosa ed incredibile, secondo la quale sarebbe stato dietro un avviso sopranaturale che avrebbero deciso di introdursi nel cimitero per violare una tomba. Ma non la tomba della vedova [p. 137 modifica]Blounty. Di questa dichiarava di non sapere assolutamente nulla; nè la località, nè le ricchezze che conteneva.

Le deposizioni della donna s’erano trovate perfettamente conformi a quelle del suo complice. Ella credeva fermamente d’aver obbedito ad una voce d’oltre tomba, recandosi al cimitero nella notte del 27 marzo. Pareva infervorata nella sua idea; ne parlava con riverenza come di cosa sacra.

Era evidente che volevano farsi credere allucinati; era il loro sistema di difesa.

La comparsa degli imputati ai dibattimenti fu una sorpresa pel pubblico, che s’aspettava di vederli truci ed arditi come due audaci malfattori. Sono invece due figure affatto insignificanti. L’uomo, che fu chiamato prima, ha una corporatura erculea, spalle da atleta, proprio le spalle che si richiedono per aver potuto sollevare il coperchio di marmo del sarcofago. [p. 138 modifica]Ma il suo viso è bonario e sciocco. Ripetè quanto aveva detto nelle prime deposizioni, senza contraddirsi mai, ma facendosi strappare le parole con fatica, e rispondendo a monosillabi.

La donna, che fu introdotta dopo, è una biondina che dimostra appena ventidue o ventitre anni, così piccola e delicata, con lineamenti così minuti, da togliere persino alla sua opulenta capigliatura dorata l’appariscenza comune alle figure bionde.

Parla assai meglio dell’uomo, ed è la sua deposizione che ho notata sul mio taccuino per darti la relazione dei fatti.

Quando il Supreme Judge la invitò a rispondere, ella obbedì tenendo il capo chino e gli occhi fissi sulle sue manine minuscole e rozze. Le palpebre abbassate e guarnite di lunghe ciglia incolori nascondevano affatto i suoi occhi. Ma in quell’insieme fragile c’era una [p. 139 modifica]sicurezza sorprendente; non era agitata, non tremava; rispondeva senza la menoma esitazione.

Disse di chiamarsi Betty Lawrence, vedova Reed, di ventinove anni, cucitrice.

— Da quanto tempo siete vedova? — domandò il giudice.

— Da quattordici mesi.

— Come avvenne che vi trovaste la notte del 27 marzo nel recinto del cimitero coll’imputato Seth Reed?

— Eravamo saliti in cima al muro con una scala di corda, e l’avevamo scavalcato.

— E vi eravate introdotti nel sepolcreto della famiglia Blounty?

— Nossignore. Ho già dichiarato che non sapevo nulla della vedova Blounty.

— Sapete però che là era sepolta una vedova, mentre io vi ho detto il sepolcreto della famiglia Blounty. [p. 140 modifica]

A questa osservazione insidiosa l’imputata alzò per la prima volta il capo in atto di stupore, e fissando in volto al giudice due grandi occhioni d’un grigio scialbo, rispose:

— Non mi ha detto ieri, signore, che eravamo accusati d’aver rubato i gioielli della vedova Blounty? Ecco come so che si tratta di una vedova.

Non si ricorda?

— Narrate per qual motivo vi eravate introdotta nel cimitero.

— Per tagliare la testa al mio povero marito.

— Perchè volevate tagliargli la testa?

— Era il suo testamento.

— Ma esiste questo testamento scritto?

— Nossignore, lo disse a voce.

— E c’erano testimoni quando espresse questo desiderio?

— Mi pare di sì. C’erano nella camera il dottor Wintry, che era venuto a visitarlo, ed il clergyman. [p. 141 modifica]

— E perchè quell’ultima volontà del defunto non l’avete eseguita a suo tempo?

— Credevo che fosse peccato tagliar la testa ad un morto.

— E l’andarla a tagliare un anno dopo, violando una tomba, non vi sembrava più un peccato?

— Questo, era la sua anima che m’aveva ordinato di farlo. Sapevo che la sua anima era in pena, ed era mio dovere di dargli pace.

— Non sapete fare un’esposizione seguìta dei fatti? Narrate tutto quanto vi è accaduto dalla morte di vostro marito fino al 27 marzo passato.

— Ho già narrato tutto negli altri interrogatori, signore.

— Non importa. Tornatelo a dire.

— Dopo la morte di mio marito, il cugino Seth, che prima veniva di rado, cominciò a farsi vedere più sovente a casa mia, e dopo [p. 142 modifica]pochi mesi mi domandò se volevo sposarlo. Ma io volli aspettare a rispondergli finchè fosse passato l’anno del lutto, per rispetto al defunto. Alla festa dei Magi deposi il bruno, ed allora Seth mi disse:

— Ebbene, cugina, ora è tempo di concludere.

Ed io dissi di sì. Ma bisognava lasciar passare i mesi dell’inverno, che sono quelli del maggior lavoro per me e per lui. Si decise di sposarci alla fine di marzo.

La casa di Seth è più grande della mia e più ariosa perchè è fuori della città, ed io dovevo lasciare l’alloggio ed andare a stabilirmi con lui.

Ogni giorno quando avevo finito il mio lavoro, preparavo un po’ di roba imballata, e la sera, quando Seth se ne andava, la portava a casa. Così si faceva lo sloggio senza spesa.

Una sera aprendo un armadio dove c’erano delle cose vecchie fuori d’uso, mi cadde [p. 143 modifica]sott’occhio una cassetta inchiodata, che il mio povero marito aveva portata a casa circa un mese prima della sua morte. Mi venne in mente che allora gli avevo domandato se avesse un tesoro in quella cassa; ed egli mi aveva risposto:

— Che! È roba del teatro. Anzi, tientelo bene a mente, Bess, se io venissi a morire, l’avresti a restituire.

— Ma la cassa è nostra — avevo detto io che la riconoscevo benissimo.

— Terrai la cassa — aveva soggiunto Tobie — e restituirai al Walnut-Theatre quello che c’è dentro.

Tutto questo m’era poi uscito di mente; ma al vedere la cassa, mi ricordai, e pensai subito di vuotarla e di restituire al teatro la roba sua.

Voltai la cassa da tutte le parti per vedere quale degli assi mi tornasse più comodo [p. 144 modifica]di sollevare; nel capovolgerla sentii un rumore come d’un orologio a sveglia... trrrrrr.....

— È un orologio, pensai. E feci per introdurre lo scalpello. Ma appena il rumore dell’orologio cessò, udii la voce del mio povero marito chiara, ma indebolita come quando aveva parlato l’ultima volta, ripetere le parole del suo testamento:

«Tagliatemi la testa.....»

Io non udii il seguito. Mi prese una paura orrenda; volli gridare, e mi mancò la voce, ed in un momento non vidi, non udii più nulla. Mi parve di morire.

Quando rinvenni, ero seduta in terra, e Seth mi stava accanto. Venendo per la sua solita visita, m’aveva trovata svenuta, e m’aveva soccorsa.

Gli narrai com’era andata la cosa, e gli dissi: [p. 145 modifica]

— Senti, Seth, l’anima del povero Tobie è in pena, e non avrà pace finchè non avremo adempiuto alla sua ultima volontà.

Seth non voleva credere, e diceva:

— Come vuoi che il povero Tobie stia in quella cassetta? Ci starebbe appena la sua testa.

Ed io sostenevo che era la sua anima. Fosse il tronco o la testa, che cosa importava? Lo spirito c’era; ed era lo spirito che aveva parlato.

Allora Seth cominciò a dire di aprire la scatola. Io non volli; mi sarei lasciata uccidere piuttosto che permettere una cosa simile; bisogna rispettare i segreti dei morti.

— Lasciamela soltanto osservare — disse Seth. — Se Iddio ha permesso che parlasse una volta, chi sa che lo permetta ancora; ed allora io crederò come te.

Prese la cassa in mano, e la voltò come avevo fatto io, guardandone le commessure. [p. 146 modifica]Ma appena l’ebbe capovolta, si udì subito il rumore dell’orologio, trrrrr..... e poi la voce del morto tornò a dire:

«Tagliatemi la testa, e portatela al teatro di Walnut-Street per fare il cranio nell'Amleto

Questa volta non svenni, ed udii tutto il discorso. Seth era pallido come un morto. Tremavamo tutti e due.

— Sì — disse Seth. — È vero. L’anima del defunto è in pena, e ci comanda di eseguire la sua ultima raccomandazione. Ma come si fa?

— Si va al cimitero, e gli si taglia la testa — dissi io. — Le volontà dei moribondi sono sacre; e noi abbiamo peccato, trascurando di obbedirgli.

Seth non si sentiva il coraggio di tagliare la testa ad un cadavere. Diceva che gli faceva ribrezzo; gli pareva una cosa orribile. [p. 147 modifica]

Io invece sentivo che non avrei esitato. Quando me l’aveva detto il moribondo, io pure avevo raccapricciato, e non avevo voluto neppure pensarci; ma ora che lo diceva il morto, non avevo altro desiderio che di obbedire, perchè i morti non parlano senza il volere del Signore.

— Io verrò con te — dissi a Seth. — Non ho paura quando si tratta di fare il mio dovere; ed in una cosa tanto sacra poi! Se ne avessi la forza materiale, come ne ho la forza d’animo, farei tutto io stessa.

Ma Seth non sapeva risolversi. Allora gli suggerii di dare qualche lira al sexton, perchè tagliasse la testa lui.

Egli è avvezzo a maneggiare i morti.

L’indomani al mattino Seth venne a prendermi. Andammo insieme al cimitero, e proponemmo al sexton la cosa. Era vecchio, ma forte; e poteva benissimo fare tutto come a[p. 148 modifica]vrebbe fatto Seth se ne avesse avuto il coraggio.

Gli offrimmo una lira sterlina, poi due, poi tre; poi tutto il poco denaro che avevamo raggranellato fra tutti e due per le spese di nozze.

Ma fu inutile. Quell’uomo non volle saperne; e non solo ricusò di prestarci aiuto, ma anche di lasciar adempiere a noi quel sacro dovere.

— Diteci a chi dobbiamo ricorrere — domandai — ed otterremo il permesso.

Il sexton si mise a ridere; egli gridava:

— Il permesso di tagliare la testa ad un morto! Ma questa donna è pazza.

Nessuno vi darà mai questo permesso.

Seth voleva rinunciare alla cosa. Diceva:

— Vedi bene che non si può.

Ma io avevo la mia risoluzione nel cuore, ed insistetti presso il becchino. [p. 149 modifica]

— Non c’è nessun mezzo per far questo? Io sono disposta a dare tutto quello che possiedo, ad espormi a qualunque pericolo. È l’ultima volontà d’un moribondo, il suo testamento. Io ho trascurato di obbedirlo, ed ora la sua anima è in pena, e forse non avrà più pace finchè non avremo eseguito quel comando. Il suo spirito è venuto a ripeterlo dopo un anno; lo abbiamo udito tutti e due. È un ordine del Signore. Aiutateci per carità.

E continuai a pregarlo per un pezzo.

Quell’uomo pareva pensare un modo di accontentarmi; pensava molto, e tratto tratto sorrideva tra sè. Finalmente domandò se fossimo veramente decisi a fare la cosa ad ogni costo; ed io risposi per tutti e due di sì; che eravamo sposi, ma che avevo giurato sulla Bibbia di non rimaritarmi finchè l’anima del povero Tobie non riposasse in pace. Allora egli disse: [p. 150 modifica]

— Miei cari, non c’è altro mezzo che scavalcare il muro di notte. Fate quello che credete. Ma io non vi apro, non vi aiuto e non vi consiglio.

Io sono il sexton, ed il mio mestiere è di custodire i morti, non di decapitarli.

Quando fummo usciti, Seth mi disse:

— Quell’uomo non ha parlato chiaro perchè è legato dal suo impiego, ma è così che dobbiamo fare; l’ha fatto capire abbastanza; e dacchè l’ha fatto capire, vuol dire che è disposto a far finta di non avvedersi.

Io pensavo a quel progetto; ed ero risoluta ad adottarlo. Seth vedendomi preoccupata credette che esitassi e riprese:

— Però, il meglio sarebbe di rinunciarvi, portare la scatola al teatro e non pensarci più; se non avremo obbedito, non sarà stato per mancanza di buon volere.

Io stavo zitta; ma mi rinforzavo sempre più nel mio proposito; ed intanto Seth s’inde[p. 151 modifica]boliva nel suo, e cercava di dissuadermi: tornò a dire:

— D’altra parte quando porteremo quella testa al teatro sapranno tutti che l’avremo tagliata noi; e se è proibito.....

Allora mi sdegnai, e risposi:

— Da quando in qua è proibito eseguire le ultime volontà dei moribondi?

Allora a cosa servirebbero i testamenti? Io ho giurato che finchè non avrò dato pace all’anima del mio povero marito, non mi rimariterò più, e nessuno toccherà più quella cassa; ed io stessa non avrò più un’ora di tranquillità, perchè la coscienza mi dice che quello è il mio dovere.

Seth finì per lasciarsi persuadere.

— Ebbene — disse — andiamoci questa notte, e facciamola finita.

Combinammo che io avrei lavorato al magazzeno. Ch’egli sarebbe venuto a prendermi dopo la giornata, avremmo pranzato fuori di [p. 152 modifica]città e poi saremmo andati nella notte al cimitero. Io non volevo rientrare in casa sola con quel rimorso sulla coscienza. Quella notte avevo creduto di morire dalla paura. Avevo anche le convulsioni; vedevo il morto, e tutta la stanza risuonava del suo grido:

«Tagliatemi la testa! Tagliatemi la testa!»

Si fece come s’era detto. Ma era una notte nuvolosa e scura; ci volle del tempo a scavalcare il muro; specialmente per me che non ero mai salita sopra una scala di corda, e tremavo tutta dalla paura.

C’inoltrammo nei viali bui, per cercare la tomba del povero Tobie. Ma non avemmo il tempo di trovarla. Il sexton ci aveva ingannati, oppure nell’oscurità non riconobbe che eravamo noi, e ci credette due ladri; ci fece arrestare.

— A che ora siete entrati nel cimitero? — domandò il giudice. [p. 153 modifica]

— Dovevano essere le undici e mezzo, perchè alle undici ed un quarto eravamo giunti al recinto; e la scalata del muro e la ricerca della tomba ci occuparono un quarto d’ora circa.

— E foste arrestati appunto alle undici e mezzo?

— Sissignore.

— E persistete a dire di non aver adoperato vanga nè leva, e di non aver aperta nessuna tomba?

— Nessuna; non se n’ebbe il tempo, e forse non ci sarebbe neppure riuscito di trovare la tomba in quel buio. Non avevamo pensato a portare una lanterna.

— E non ci sarebbe il caso che, per errore, in causa dell’oscurità, aveste aperta la tomba della vedova Blounty invece dell’altra? — domandò il giudice con ironia.

— Noi non abbiamo aperta nessuna tomba. [p. 154 modifica]

— E sapete che in tutte le perquisizioni fatte in casa vostra e nella casa del nominato Seth Reed, non s’è trovato nulla di simile alla cassetta misteriosa che voi pretendete dotata di un linguaggio sovrannaturale?

— Signore, ho già detto che finchè l’ultima volontà del povero Tobie non sia adempiuta, nessuno dovrà toccare quella cassetta. Temevo che a Seth tornasse l’idea di aprirla, e la riposi la sera stessa in luogo sicuro.

— Badate che la serietà della legge non ammette questi prodigi e queste voci dell’altro mondo. Il non trovare la cassetta è una prova che non è mai esistita, e che tutte le vostre deposizioni sono false.

— Quanto ho detto è tutto vero. Quite quite true. La cassetta l’ha veduta ed udita anche Seth.

— Non avete altro testimonio da citare che il vostro complice? [p. 155 modifica]

— Nessun altro, eravamo soli.

— In tal caso, se non potete produrre la cassetta, la sua testimonianza non conta più della vostra.

— Io ho giurato sulla Bibbia che nessuno dovrà aprire quella cassetta finchè l’anima del povero Tobie non abbia pace; e neppure per giustificarmi non posso mancare ad un giuramento.

Nella seduta del pomeriggio furono interrogati il medico ed il clergyman che s’erano trovati presenti alla morte di Tobie Reed.

Il medico, Augustus Wintry, è un uomo di sessantatrè anni, d’aspetto nobile e buono. Egli crede al testamento del Reed, ma non l’ha udito dalla bocca del moribondo. Lo aveva visitato, ed aveva ordinata una pozione per rianimarlo. Un vicino di casa era corso dal farmacista; ma tardava a tornare, ed il medico s’era accostato alla finestra ed era rimasto a [p. 156 modifica]guardare giù nella via aspettando che tornasse l’uomo dalla medicina. La camera di Tobie Reed era stretta e lunga; il letto era dalla parte opposta alla finestra. Ad un tratto il teste aveva udito un rumore di voci; s’era voltato, ed aveva veduto che il ferito s’era rizzato a sedere sul letto ed aveva mormorato qualche parola; ma egli non aveva compreso nulla, e nel minuto che aveva impiegato a traversare la camera per accostarsi al letto, il moribondo era ricaduto sui guanciali ed agonizzava.

La Bess gli aveva detto subito:

— Oh mio Dio! Mio Dio! egli delira!

Più tardi, pochi minuti dopo la morte di Tobie, ella aveva raccontata al medico la raccomandazione del moribondo, e di nuovo aveva detto:

— Ma era un delirio! Non è vero, dottore, che il delirio gli faceva pensare quella mostruosità? [p. 157 modifica]

Il teste aveva affermato che infatti poteva essere stato l’effetto d’un momento di vaneggiamento.

Il giudice gli domandò se credeva che realmente il moribondo avesse dette quelle parole strane. Egli rispose con sicurezza:

— Ripeto che non le ho udite. Ma l’imputata era troppo impressionata nel riferire il legato del marito perchè io possa supporre che mentisse. E d’altra parte la morte del Reed avveniva in un modo ed in un momento affatto impreveduti. Come mai quella donna, in un’ora di sorpresa come quella, avrebbe potuto improvvisare a sangue freddo un piano di furto da eseguirsi poi nel cimitero, e pensare a stabilire quel precedente d’un legato supposto e trasgredito, per fornire più tardi una scusa alla difesa nel caso che il furto fosse poi stato scoperto, e ne fosse risultato un processo? Sarebbe attribuirle una fertilità d’immagina[p. 158 modifica]zione e una perfidia, di cui non ha mai dato prova.

Il clergyman Jeoffrey Treden, giovane magro ed austero, di trent’anni appena, dichiara egli pure di non aver udite le parole del moribondo. Questi aveva cessato appunto di parlare quando il teste s’era presentato alla soglia della camera per confortarlo negli ultimi momenti. Era giunto al letto del malato nel tempo stesso in cui vi giungeva il medico, ed aveva udita la Bess domandargli se non credeva che quella raccomandazione fosse effetto di delirio. Il teste conferma la dichiarazione del dottor Wintry, circa l’agitazione e l’apparenza di sincerità con cui aveva parlato l’imputata. Non era credibile che mentisse. Più tardi la Bess e Seth Reed, l’avevano preso a parte mentre egli usciva, e gli avevano domandato se credesse che in coscienza fossero obbligati a tagliare la testa al defunto. Egli aveva [p. 159 modifica]risposto che sarebbe stata una profanazione. Non credeva che il moribondo fosse stato in possesso delle sue facoltà mentali quando aveva espresso quel desiderio.

— E come spiega lei — domandò il giudice — la dichiarazione degli imputati che il morto stesso, dopo un anno, abbia parlato ripetutamente in una scatola per rinnovare quell’ordine trasgredito?

— Io non lo spiego — rispose severamente il teste. — La cosa è incredibile ed impossibile. La religione stessa ci vieta di prestar fede a queste storie di spiriti.

— Crede dunque che gl’imputati siano allucinati? O, come dice l’onorevole avvocato della difesa, in istato di unsound mind (di mente malferma)?

— Le loro deposizioni lo farebbero supporre. I loro precedenti no. Furono sempre operai onesti, tranquilli e religiosi. L’imputata [p. 160 modifica]specialmente è ferventemente religiosa. Ma non ha mai date prove di esaltazioni superstiziose. Del resto questo punto non mi riguarda. È la scienza che potrà deciderlo.

Il giudice si rivolse alla Bess.

— Imputata, avete udito? I soli testimoni che avete invocati negano d’aver udita la raccomandazione del moribondo Tobie Reed.

— Credevo che l’avessero udita perchè erano nella camera — rispose la Bess colla tranquillità di chi riconosce di essere caduta in un errore, ma non ci attribuisce importanza.

L’ultimo testimone interrogato fu il custode del cimitero; un uomo sui cinquant’anni circa, robusto, acceso in volto; un atleta con un viso da ipocrita ed un ridere volpino, che alla prima riescì repulsivo. Il nome inglese sexton non dice nulla; ma il nostro beccamorti gli si attaglia a perfezione. L’espressione d’avidità che traspira dal suo sguardo acuto, dal [p. 161 modifica]naso adunco, dà proprio l’idea che debba beccarli quei poveri morti per portarseli via.

Interrogato sulla visita che gli avevano fatta gl’imputati, confermò le loro deposizioni poi soggiunse:

— Io non avevo creduto alla storia del testamento e dell’anima che parlava nella cassa chiusa. Sono venti anni che sto a custodire i morti chiusi nelle casse, e so che quando sono là dentro non parlano più; figurarsi poi quando non ci sono! Ho capito che volevano rubare i diamanti della vedova Blounty. Tutti i ladri debbono pensare a quei diamanti, ed io dormo sempre da un occhio solo, dacchè sono là sepolti.

— Gli imputati — osservò il giudice — pretendono che voi stesso abbiate indirettamente suggerito il progetto d’introdursi nel cimitero di notte per mutilare il cadavere.

— È vero. Avevo detto quelle parole appunto per attirarli nell’agguato. Perchè dalle [p. 162 modifica]loro chiacchiere avevo capito che erano ladri, ed i ladri è bene metterli al sicuro.

— E come mai, essendo quasi certo che sarebbero venuti quella notte, siete rimasto solo nella vostra casa, ed avete lasciato loro il tempo, che dev’essere stato più d’un ora, per compiere il furto?

— Sapevo di trovare i roundsmen alla birraria vicina, dove li ho trovati infatti. Credevo di poter udire i ladri al primo avvicinarsi, e di farli arrestare prima che potessero far nulla. Ma sono vecchio. Il mio orecchio non è più tanto fino come una volta. Ho udito troppo tardi; debbono essere entrati nel cimitero alle dieci; ma io li ho uditi soltanto alle undici e un quarto. Nel tempo che ho impiegato a chiamare i policemen, non più di sette od otto minuti, pare che il terzo ladro sia fuggito col bottino.

L’avvocato della difesa si alzò per osservare che, se per compiere il furto si era do[p. 163 modifica]vuto impiegare più d’un’ora, come avevano dichiarato i periti, e come confermava il sexton, sarebbe bastato provare che un’ora prima dell’arresto gl’imputati non erano al cimitero, per dimostrare che gli autori del furto non erano essi.

Il giudice aderì ad interrogare gl’imputati.

— Dove siete stati dalle nove e mezzo fino alle undici e mezzo circa, quando foste arrestati? Rispondete, imputato Reed.

— Abbiamo fatto una lunga passeggiata perchè la Bess aveva paura a rientrare nella sua casa.

— Potete citare qualcheduno che vi abbia veduti durante quella passeggiata?

— No. Siamo usciti dalla città per non incontrare nessuno, perchè eravamo agitati dal fatto che stavamo per compiere; e di questa stagione non c’è molta gente che passeggi fuori di città. [p. 164 modifica]

— Ed avete fatto quella lunga passeggiata portando sempre le vanghe e le leve colle quali foste arrestati?

— No. La mia casa è fuori di città, appunto dalla parte del cimitero. Alle undici andammo a casa a prendere gli stromenti che avevo preparati là. Avevo la chiave e salii io solo.

— E non potete citare un inquilino, che vi abbia udito o veduto?

— Non c’è nella casa che un altro inquilino; è un garzone della birraria, e rientra sempre tardissimo. A quell’ora era fuori.

Pareva che gli imputati lo facessero apposta a sventare tutti gli appigli a cui la difesa si aggrappava.

L’indomani s’aprì la seduta col discorso del People’s counsel, il quale, dopo avere brevemente riassunti i fatti, concluse che i due imputati, sorpresi nel cimitero, non avevano trovato altro argomento da addurre in loro [p. 165 modifica]difesa, fuorchè una storia affatto improbabile di spiriti e d’anime in pena, a cui la serietà della legge non poteva dare importanza.

Al tempo stesso, e precisamente dopo l’intrusione e l’arresto degli imputati nel recinto del cimitero, una tomba era stata aperta e depredata di immense ricchezze. Questa coincidenza pesava inesorabilmente sugli imputati.

Quando anche essi avessero potuto produrre la scatola misteriosa, e farle ripetere dinanzi al tribunale il suo mostruoso comando, non avrebbero provato ancora la loro innocenza. Come mai, mentre essi affermavano di non aver mirato che alla tomba dell’alienato Tobie Reed, questa era rimasta intatta, e quella violata era un’altra? Dunque dovevano esserci stati altri profanatori di tombe in quella medesima notte nel recinto del cimitero. Eppure gl’imputati affermavano di non aver veduto alcuno, di non essersi accorti in verun modo [p. 166 modifica]della presenza di altre persone nel cimitero, finchè non erano risuonate le grida del sexton e dei roundsmen. Era facile, diceva l’oratore, spiegare la cosa. Gli imputati non avevano avvertita la presenza di altri profanatori, perchè il solo che vi fosse era con loro, era il loro complice, fuggito coi gioielli.

La tomba del Reed era rimasta intatta perchè nessuno attentava alla sua povera salma ignuda, e le ricche spoglie della vedova Blounty erano scomparse perchè tutto quel complotto era stato montato per riescire ad impadronirsi di quelle ricchezze. Ed infatti gli imputati non avevano potuto provare di non essersi introdotti nel cimitero un’ora od anche più, prima del tempo che avevano indicato. Secondo le deposizioni, avevano fatto una passeggiata talmente solitaria da non essere veduti da nessuno, erano rientrati a prendere le vanghe e le leve in una casa tanto deserta, da non es[p. 167 modifica]sere uditi da nessuno. Non era cosa abbastanza strana, e non riesciva più facile supporre che nessuno li avesse veduti, nè uditi dopo le dieci di sera, perchè già a quell’ora, erano occupati nel cimitero a commettere il doppio delitto di profanazione e di furto?

Sebbene nè il dottor Wintry, nè il reverendo Jeoffrey Treden, i soli testimoni citati dall’imputata, non avessero udito il testamento di Tobie Reed, il giudice non voleva supporre che quel testamento fosse stato inventato dai colpevoli un anno prima, in previsione del furto. Ammetteva che il testamento fosse vero; faceva più; ammetteva che alla morte di Tobie Reed la vedova ed il cugino di lui non pensassero ancora a commettere un furto nel cimitero.

Ma più tardi quando avevano combinato quel piano colpevole, avevano pensato di valersi del testamento del povero maniaco, per [p. 168 modifica]giustificare la loro presenza nel cimitero in caso d’arresto, e per questo avevano cominciato quattordici mesi dopo, a dare un’importanza postuma a quel legato, che prima avevano considerato come una follia.

Ed infatti, per stabilire meglio che quello era il loro movente e non il furto, erano andati a parlarne con finta ingenuità al sexton; a quel modo credevano di prepararsi un testimonio in loro favore.

Ma violare una tomba era sempre un delitto, qualunque ne fosse il motivo. Ed essi avevano pensato, nella loro superstiziosa ignoranza di declinare la responsabilità di quel fatto, inventando un ordine soprannaturale a cui obbedivano per sentimento religioso.

Sgraziatamente per loro, soggiungeva ironicamente l’oratore, avevano commesso l’imprudenza di collocare l’anima del trapassato che parlava ai superstiti, in una cassetta inchio[p. 169 modifica]data; e la scomparsa della cassetta deponeva contro la loro asserzione. Perchè non lasciarlo libero quello spirito, ora che era sciolto dal suo involucro mortale? Almeno avrebbe potuto perdersi nell’immensità dello spazio, senza che la giustizia umana, indiscreta, gli domandasse conto della cassa che l’aveva ospitato durante i suoi miracolosi responsi.

L’avvocato Thomas Doulton prese la parola in difesa degli imputati. La sua arringa si appoggiò tutta sulla irresponsabilità — unsound mind — dei due colpevoli. Negò il furto. Ricordò ai signori giurati che non si poteva condannarli per furto dacchè non c’erano le prove. La coincidenza di tempo fra il loro arresto e la violazione della tomba Blounty, gli strumenti che essi portavano, non potevano considerarsi come prove del furto. Erano prove dell’intenzione di violare una tomba; e questa gli imputati la confessavano. Ma erano due allucinati. [p. 170 modifica]Avevano creduto di udir parlare un morto. La cosa non era nuova. Molti fanatici, molti estatici avevano provati fenomeni simili.

Quella donna alla morte del marito era stata impressionata da quel testamento atroce. Era religiosa fino allo scrupolo. Alla prima, combattuta tra il dovere di obbedire alla volontà di un moribondo, e la paura di commettere un peccato mutilandone il cadavere, aveva finito per cedere alla paura religiosa, e trascurare il legato. Ma più tardi la coscienza aveva cominciato a rimproverarle quell’ommissione. S’era fissata su quel pensiero, e man mano s’era esaltata fino al delirio. Rivedendo un oggetto, che aveva ricevuto in deposito dal marito defunto, l’esaltazione del suo spirito era aumentata fino a credere di udire il morto ripetere l’ordine in quella cassa il comando che lei aveva trasgredito. Sotto l’impressione d’un’allucinazione paurosa era sve[p. 171 modifica]nuta, e, sorpresa dal fidanzato in quello stato, le era stato facile influenzare quel giovane solitario ed ignorante, il quale aveva partecipato del suo delirio. Questa era la loro storia. Quanto al furto, nulla provava che la tomba della famiglia Blounty fosse stata derubata appunto in quella notte. Forse era stata spogliata molto tempo prima, quando l’impressione prodotta del testamento della ricca vedova era ancora viva, e la popolazione ne parlava, e le cupidigie ne erano eccitate. Il sexton non se ne era accorto prima, ed aveva scoperto il furto quella notte soltanto, messo in sospetto dalla presenza dei due imputati nel cimitero.

La difesa riuscì debole. L’allucinazione sarebbe stata ammissibile, ma la scomparsa della cassa, la coincidenza del furto la rendevano meno credibile; e la perizia medica non trovava nessun segno d’alienazione negli imputati. [p. 172 modifica]

D’altra parte il People’s counsel, in una controrisposta all’avvocato Doulton, ricordò che gli eredi Blounty andavano quasi giornalmente a visitare la tomba della sorella, ed avevano dichiarato di non aver mai notato il menomo segno che potesse far sospettare una violazione. La deposizione del sexton aveva confermate le stesse cose.

Il pubblico era impressionato dalla evidenza dei fatti, e la fermezza degli imputati invece di interessarlo in loro favore lo irritava. Quando è stato commesso un delitto, ciascun individuo si sente in diritto di esigere la scoperta e la punizione del colpevole. L’istinto della sicurezza personale, l’amore della proprietà lo fanno insorgere contro quel suo simile che è una minaccia continua alla sua pace.

Non c’era da sperare nella risposta negativa d’un giurato. Era quasi certo che il ver[p. 173 modifica]detto di colpabilità riuscirebbe coll’unanimità richiesta dalla legge.

Il Supreme Judge prima di proporre i quesiti ai giurati si rivolse agli imputati e domandò:

— Imputati, avete nulla da aggiungere in vostra difesa?

Le risposte furono simultanee, ma diverse. La Bess crollò il capo e disse:

— No. Ho detto tutto, e quello che ho detto è vero; sono innocente del furto.

Seth Reed invece, pallido, agitatissimo, gridò:

The box! The box! Oh pray; bring the box! La cassa, la cassa; oh, ve ne prego! Portate la cassa!

Questo grido disperato dell’uomo sorprese non solo il pubblico, ma anche l’accusa e la difesa. Era nella convinzione di tutti che la storia della cassa fosse una frottola volgare, inventata dai complici di comune accordo. Ora l’udire che uno di essi ci credeva, e reclamava [p. 174 modifica]quella cassa come un ultimo argomento di difesa, indeboliva tutte le supposizioni fatte fin allora.

Lo stesso People’s counsel, che non aveva mai dubitato un momento della simulazione dei due colpevoli, fu scosso, e pensò che forse la donna sola aveva ordito tutto l’inganno, ed era riuscita realmente a far credere a quell’uomo ignorante, che uno spirito d’oltre tomba comandava loro d’introdursi di notte nel cimitero. Egli manifestò questo dubbio rivolgendo la parola alla Bess.

— Imputata — le disse — voi udite; il vostro complice invoca che venga prodotta la cassetta misteriosa; egli ci crede; se voi pure ci credeste, potreste esitare a dirci dove si trova? Potreste lasciar condannare voi ed il vostro complice, senza tentare quest’unico mezzo per provare che, in parte almeno, siete stati in buona fede? [p. 175 modifica]

— Io credo che la scatola ha parlato — disse la donna. — Lo credo come credo a Dio. Ma ho giurato di non lasciare che alcuno vi porti la mano profana, finchè l’anima del povero Tobie Reed non abbia ricuperata la pace nella sua tomba.

— Sapete che, persistendo in questo silenzio, potreste essere condannata a morte?

La povera creatura, da pallida che era, si fece livida. La colse un tremito convulso; si guardò intorno smarrita, come per invocare soccorso; poi si nascose il volto fra le mani, e singhiozzò disperatamente. Non era un’eroina; non era neppure una donna forte; la morte le faceva una paura orribile.

Il giudice, vedendola in quello stato, le rivolse egli pure la parola:

— Voi avete diritto di trascurare per voi stessa, forse, quell’ultimo argomento di difesa; ma in coscienza non potete ricusare di addurlo [p. 176 modifica]per salvare la vita del vostro complice. Foste voi che lo traeste alla colpa; non farete tutto quanto sta in voi per difenderlo?

— Ho giurato — rispose la povera creatura, singhiozzando sempre.

— Ma non pensate che se egli sarà condannato, e se voi credete che quella testimonianza possa avere un valore per attenuare almeno la sentenza, la vostra coscienza vi rimorderà nei vostri ultimi momenti, e, morendo con lui, avrete sulla coscienza, oltre al vostro delitto, anche la sua morte?

— Oh, mio Dio! mio Dio! — gridava la Bess, piangendo. — Chi mi scioglie da quel giuramento?

— A chi avete giurato? — domandò il giudice.

— A Dio. Era quella sera orrenda. Seth era partito. Io ero sola, ed in preda di una paura atroce. Avevo paura della cassa; avevo [p. 177 modifica]paura del mio stesso progetto d’andare l’indomani dal sexton per far tagliare la testa al morto. Allora presi la Bibbia, cercai il libro di Tobia; perchè il povero morto si chiamava anch’esso Tobia, e pensai nel mio cuore: «Il primo versetto che mi verrà sott’occhio, aprendo la pagina, mi dirà quello che debbo fare, e lo farò». Apersi la Bibbia colla mente rivolta a Dio, e col proponimento fermo, e lessi subito:

«Ma Tobia, temendo più Dio che il re, involava i corpi dei morti, e li nascondeva in casa sua, e nel mezzo della notte li seppelliva».

Era chiaro; Dio voleva ch’io facessi come Tobia temendo più il suo ordine divino che le leggi umane. Fu allora che mi proposi di fare ad ogni costo quanto mi aveva comandato la voce del morto; ed affinchè nè Seth nè altri potesse persuadermi del contrario, mi obbligai [p. 178 modifica]con un giuramento. Posi una mano sulla Bibbia e dissi forte:

«Giuro che lo farò; e, finchè lo spirito mi ha parlato in essa, non abbia trovato la pace eterna nessuno aprirà questa cassa.»

E poi, pensando che Seth avrebbe potuto cercare ancora di aprirla, per evitare ogni controversia, la nascosi in luogo sicuro.

Il giudice ascoltava l’imputata con un’attenzione che tradiva una certa deferenza. Egli cominciava a vedere qualche cosa di ideale in quei due popolani che aveva creduto dapprima due ladri volgari. Forse non era più così profondamente convinto della loro colpabilità, e si insinuava nel suo spirito la persuasione che l’ignoranza, la superstizione, un sentimento religioso esaltato, avevano potuto avere una gran parte nei fatti per cui quei due giovani erano processati. [p. 179 modifica]

Come quasi tutti gli Americani, il giudice non aveva una fede molto profonda nella missione divina e nelle facoltà divine dei sacerdoti. Ma gli premeva di indurre la Bess a produrre quella cassa che aveva potuto esercitare un’influenza così grande su lei e sul suo fidanzato, e per questo secondò i suoi scrupoli religiosi.

— In una circostanza tanto grave — le disse — in cui si tratta della vita d’un uomo, io credo fermamente che la Chiesa possa sciogliervi dal giuramento che avete fatto.

— Chi me lo assicura? — domandò la Bess agitatissima, evidentemente combattuta tra il desiderio di giustificarsi e la paura di commettere un peccato enorme, com’era ai suoi occhi quello spergiuro.

— Un sacerdote potrebbe assicurarvene. Non c’è un clergyman in cui abbiate fede? [p. 180 modifica]

— Oh sì! Il reverendo Jeoffrey Treden — rispose la Bess. — Ma vorrei essere sola con lui; e che nessuno gli parlasse prima; che nessuno lo influenzasse.

— Se avete fede in lui, non dovete credere che sia possibile influenzarlo. Del resto, la legge non si serve di mezzi che non siano onesti — osservò il giudice severamente.

— Io non ho voluto alludere alla legge — disse l’imputata esitando; ed i suoi occhi si volgevano con diffidenza a Seth.

Era chiaro che non era punto innamorata del suo sposo. Forse gli aveva portato quel tanto di affetto di cui era capace il suo cuore. Ma in lei il sentimento religioso era il solo capace di un grande sviluppo; in quella creatura, apparentemente delicata e fredda, c’era la stoffa di cui si fanno le martiri. Calma ed insignificante nelle circostanze normali, quando nulla si frapponeva fra lei ed i suoi doveri [p. 181 modifica]religiosi, aveva dimostrato, davanti ai primi ostacoli, che poteva calpestare ogni sentimento umano, ogni umana legge, quando credeva di doverlo fare per obbedire al Signore. Parlava di mutilare un cadavere, come di leggere un versetto della Bibbia. Non aveva esitato a scalare un muro, di notte, a mettersi in contravvenzione colle leggi, ad affrontare pericoli d’ogni sorta, ed a trascinarvi lo sposo con sè. Lo avrebbe lasciato condannare per non violare un giuramento che considerava sacro; ed ora aderiva a consultare un sacerdote, perchè la spaventava l’idea d’una colpa maggiore, d’un peggiore rimorso, lasciando condannare un innocente. Ma la passione umana, l’amore, non aveva grande influenza sopra di lei. La religione la dominava. Se il sacerdote le avesse detto: «ad ogni costo dovete serbare il giuramento», avrebbe sofferto senza dubbio, avrebbe pianto e pregato per lui, ma avrebbe [p. 182 modifica]abbandonato Seth alla giustizia, e sè stessa con lui.

Per buona sorte, il sacerdote era un uomo rigido, che biasimava i giuramenti audaci, e tutto quanto tendeva al fanatismo. Le rimproverò quell’atto che non considerò come religioso; le disse che doveva parlare in omaggio alla verità, se credeva che la sua rivelazione potesse salvare la vita e provare l’innocenza di Seth. Le rimproverò pure la sua ostinazione a credere che uno spirito le avesse parlato; era superstizione ed orgoglio. Come poteva supporsi tanto privilegiata da Dio, perchè s’avesse a rinnovare per lui un miracolo che appena era avvenuto per i più grandi profeti?

Tra la seduta del mattino e quella del pomeriggio, il clergyman s’intrattenne sempre coll’imputata, la quale si lasciò convincere facilmente, perchè non aveva altre idee, nè altri principî fuorchè quello di fare tutto quanto la [p. 183 modifica]religione le comandava, e di farlo ad ogni costo.

Dacchè il sacerdote le diceva che era suo dovere produrre la cassa misteriosa davanti al tribunale, ella confessò d’averla sepolta in un angolo del suo cortile, sotto un grosso vaso di fiori, che aveva rimesso a posto per nascondere che il terreno era stato smosso.

Lo stesso clergyman accompagnò i policemen che furono mandati alla casa dell’imputata, ed assistè all’operazione perchè la cassa fosse disotterrata e portata in tribunale senza che le venisse data la menoma scossa.

Quando si riaperse la seduta, alle due del pomeriggio, la cassetta famosa che aveva inspirati tanti dubbi, tante discussioni, era là, chiusa, come l’avevano descritta gl’imputati.

Il giudice li interrogò uno dopo l’altra se riconoscevano la cassetta da cui dichiaravano essere uscita la voce del defunto.

Sì; entrambi la riconoscevano. [p. 184 modifica]

— E quale movimento avevate fatto colla cassa quando udiste parlare?

— L’avevo capovolta per vedere da che parte si aprisse; udii subito un rumore come d’un orologio a sveglia; e poi il rumore cessò ed udii la voce del morto.

Questa risposta la diede Seth, che aveva acquistata un po’ d’energia dalla presenza di quel testimonio da cui sperava la sua giustificazione.

Quanto alla Bess invece era abbattuta. Le lotte interne, le paure della coscienza scrupolosa, avevano paralizzato il suo coraggio. Ella aveva desiderato che, se si avesse ad aprire o maneggiare la cassa, non dovesse farlo altri che il clergyman. Per mano di quella persona sacra, le pareva che la profanazione dovesse riuscire meno grave.

Per non agitarla maggiormente, il giudice e l’avvocato dell’accusa avevano aderito a quella preghiera. [p. 185 modifica]

Fu dunque al reverendo Jeoffrey Treden che il giudice si rivolse invitandolo a capovolgere la cassa.

Regnava il più alto silenzio. La curiosità del pubblico era eccitata al sommo grado. Gli imputati erano convulsi; una, pallida, impaurita; l’altro, ansioso, cogli occhi sbarrati ed il volto proteso verso quest’ultima speranza.

Appena il clergyman capovolse la cassa si udì il trrrrr prolungato che aveva descritto la Bess, ed immediatamente seguì la voce fioca, sepolcrale, pronunciando distintamente, come in un singhiozzo da agonizzante, che ne mozzava le consonanti, l’orribile testamento:

«Tagliatemi la testa, e portatela al teatro di Walnut-Street per fare il cranio nell'Amleto

Un grido, terribile come un urlo, non interruppe la frase, ma sorse a coprirne le ultime [p. 186 modifica]parole. Quel grido pauroso era partito dal fondo della sala.

Un uomo era stato colto da terrore, e si dibatteva in un accesso di convulsioni. Fu portato fuori; il silenzio si ristabilì lentamente. Tutti avevano qualche cosa da dire. La parte colta del pubblico aveva riconosciuto la voce di un fonografo.

Il giudice, i giurati sorridevano ironicamente. Tutto si spiegava. Gli imputati avevano messo essi stessi il fonografo nella scatola per accreditare la loro fiaba. Era un inganno volgare e stupido. Il pubblico era offeso, e l’avvocato Doulton si sentiva scoraggiato. Non era più possibile sostenere l’irresponsabilità degli accusati. Essi sapevano cosa c’era nella scatola, essi avevano ordita quella sciocca trama, ed avevano recitata la commedia dell’allucinazione.

Fu aperta la cassa, ed infatti se ne cavò fuori un piccolo fonografo a manubrio. [p. 187 modifica]

Sul volto degl’imputati si dipinse il più profondo stupore. Erano due commedianti di prima forza. Udii qualcuno accanto a me che diceva:

— Quel povero Tobie Reed che si disperava di non saper fare la commedia! Se fosse vivo, potrebbe consolarsene facendo recitare sua moglie.

— Conoscete questa macchina, imputata Bess Reed? — domandò il giudice.

— Sì — rispose la Bess — è una macchina da cucire.

— Voi siete cucitrice; di macchine di questo genere dovete intendervi. Saprete dirmi come s’adopera?

— No. È un sistema che non conosco.

Il giudice si rivolse a Seth:

— Imputato, conoscete questa macchina?

— Nossignore.

— Credete che sia una macchina da cucire? [p. 188 modifica]

— Può darsi; non me ne intendo.

— Non avete mai veduto un fonografo?

A questa domanda Seth rispose semplicemente di no, come uno che non capisce di cosa gli si parli. Ma la Bess sussultò, ed alzò il capo come ad un improviso ricordarsi; ed impulsivamente, senza essere interrogata, esclamò picchiandosi colla mano la fronte:

— Ah! il fonografo! La macchina che parla!

— Imputata, voi conoscete il fonografo dunque — disse il giudice.

— Sì. Me ne aveva parlato tanto il mio povero marito.

— E vi aveva mostrato questo? E voi l’avete posto in questa cassa?

— Nossignore. Me ne aveva parlato soltanto. Non mi conduceva mai al teatro; non ne avevo mai veduti. Oh mio Dio! Non era uno spirito; era una macchina che parlava! [p. 189 modifica]

— E voi ne siete sorpresa? Non lo sapevate? domandò il giudice con ironia.

— Non l’avrei mai pensato. Avevo dimenticato quei discorsi della macchina. Come potevo immaginarmi?......

— E secondo le vostre deposizioni questa macchina apparterrebbe al teatro di Walnut-Street?

— Sì; quando il povero Tobie portò a casa la cassetta chiusa mi disse che quanto conteneva era del teatro, e che avessi a restituirlo alla sua morte.

Il giudice diede un ordine perchè venisse condotto all’udienza il proprietario del Walnut-Theatre. Intanto l’avvocato Doulton prese la parola:

— È evidente che si attribuisce agli imputati l’astuzia d’essersi serviti di un fonografo per dar colore di verità alle loro affermazioni sorprendenti. Ma io vorrei che fosse chiamato [p. 190 modifica]il rappresentante del signor Edison, perchè esamini la macchina, e riconosca, se è possibile, da quanto tempo la lastra di stagnola ha ricevute le impressioni. E se non basta, chiunque ha conosciuto da vicino il defunto Tobie Reed potrà giudicare dell’identità della voce. Intanto è facile riconoscere che quella non è la voce di nessuno degl’imputati; ed è cosa molto probabile che il povero maniaco, impressionato dalla scoperta meravigliosa del signor Edison, abbia voluto servirsene per rammentare ai superstiti la sua ultima volontà. È più probabile senza dubbio, di quanto si è mostrato qui di supporre, che due giovani ignoranti, che non s’interessano punto ai trovati della scienza, abbiano potuto farsene argomento d’una mistificazione puerile, che certo non avrebbe potuto ingannare la maestà della giustizia.

Il giudice non ebbe il tempo di rispondere perchè fu introdotto il proprietario del [p. 191 modifica]Walnut-Theatre, e quasi subito dopo sopraggiunse il rappresentante della casa Edison.

Informato della scoperta fatta aprendo la cassetta, e delle deposizioni degli imputati, il proprietario del teatro rispose, — che infatti, appunto un mese prima della morte del Reed, al momento di ritirare le sue macchine dopo gli esperimenti, il signor Edison, s’era lagnato della scomparsa di un piccolo fonografo. Forse il povero Tobie, che se ne era appassionato e che passava lunghe ore a contemplare quei prodigi, in un momento di pazzia se ne era impadronito. Il teste non aveva sospettato lui, perchè lo sapeva onestissimo.

Il giudice interrogò il rappresentante della casa Edison:

— Riconoscete questo fonografo?

— Sì; è uno di quelli che avevamo in deposito e che abbiamo trasportati al Walnut-Theatre l’anno scorso all’epoca degli [p. 192 modifica]esperimenti. Quando li ritirammo ne mancava uno.

— Potrebbe ella dirci, esaminando il fonografo, da quanto tempo il foglio di stagnola ha ricevuto le impressioni della voce?

L’interrogato crollò il capo in atto di dubbio, e si pose ad osservare la macchina.

In quella accadde un movimento alla porta. Un signore si affacciò, acceso in volto, affannato. Voleva essere ammesso a parlare al tribunale. I policemen lo trattennero, ed uno di essi venne a dire al giudice che il dottor Wintry aveva una comunicazione importante da fare. Il giudice lo fece venire, e gli accordò la parola. Egli disse, parlando con un’agitazione che alla sua età aveva qualche cosa di solenne:

— La verità si è fatta chiara da sè. Gli imputati sono ignoranti, fanatici, ma sono innocenti del furto. Al principio della seduta, [p. 193 modifica]quando il fonografo ripetè il testamento del maniaco Tobie Reed, un uomo mise un grido e cadde in convulsioni atroci laggiù presso la porta. Dacchè durano i dibattimenti avevo sempre osservato quell’individuo dalla fisonomia volpina. Mi era antipatico, e m’inspirava dei sospetti. Quando l’udii mettere quel grido, riconobbi il grido del rimorso, della coscienza colpevole impaurita. Nella mia lunga carriera medica, mi accadde più d’una volta di assistere nelle ultime ore uomini che, integri in faccia al mondo, avevano la coscienza tribolata da rimorsi atroci; le loro paure deliranti, erano ritratte nella convulsione ignobile di quell’uomo. M’affrettai ad assisterlo. Lo feci portare all’ospedale, me gli posi accanto; appena la convulsione gli permise di parlare, balzò a sedere sul letto, e domandò tremando:

— Il morto ha detto tutto?

— Tutto — risposi. [p. 194 modifica]

— Ah mio Dio! — urlò il miserabile — mi condanneranno a morte, mi impiccheranno...

La convulsione lo riprendeva violenta a quell’idea paurosa, ma la mente rimaneva libera. Era in grado di parlare, e bisognava indurlo a dire la verità.

— Potreste trovare indulgenza nei vostri giudici — gli dissi — se confessaste la vostra colpa sinceramente, e senza restrizioni.

— Ma non ha detto tutto il morto? — domandò con diffidenza.

— Sì. Ha detto che voi avete rubato i gioielli della vedova Blounty.

— Oh mio Dio! Mio Dio! — esclamò picchiandosi il petto. — È vero! Io non credeva che i morti potessero sorgere dalla tomba per accusarmi.

— Dovete dire se avevate altri complici.

— No; per amor del cielo, ch’io non mi metta altri delitti sulla coscienza. Era un [p. 195 modifica]anno che ambivo quel tesoro e non osavo portarci la mano per paura che mi scoprissero. Il primo sospettato sarei stato io. Quando vidi quei due idioti, ed udii la loro stupida storia del morto, pensai di profittare della loro intrusione nel cimitero per farli credere colpevoli del furto. Mi premunii degli strumenti; ero coraggioso e forte e non credevo che i morti parlassero; non credevo in Dio; non credevo nell’altra vita; li avevo sempre visti così insensibili e muti i cadaveri degli uomini....

— E quando essi furono arrestati voi solo apriste la tomba?

— Ci volle una grande fatica. Lavorai fino all’alba; dopo aver spogliato il cadavere e rimesso a posto il marmo esterno, seppellii i gioielli in un’altra fossa perchè non venissero scoperti in casa mia; poi corsi ad avvisare la polizia; e tutto sarebbe passato liscio, [p. 196 modifica]e, finito il processo, sarei andato lontano, avrei venduto tutto, avrei vissuto i miei ultimi anni nell’agiatezza. Ah! ma i morti parlano; io non sapevo che i morti potessero sorgere per accusarmi.

— Il suo stato è gravissimo — soggiunse il medico — e difficilmente potrà ricuperarsi. È disposto a dettare la sua deposizione. Ora spetta al tribunale raccoglierla legalmente, e render giustizia agli innocenti. Quell’uomo, quel miserabile, è Dionisius Ramble, il sexton.

Così finì quello strano processo.

I due fidanzati furono severamente ammoniti per il tentativo di violazione di tombe, ma considerata la loro superstiziosa ignoranza, che il prodigio del fonografo aveva esaltata, furono assolti.

Il colpevole non ebbe tempo a subire la sua pena. Poco dopo la confessione la paralisi gli tolse la parola, ed in pochi giorni morì. [p. 197 modifica]

Eccoti la Storia, e questa volta finita davvero, mia cara marchesa. Metto qui i miei saluti in fretta perchè sono stanca.

Tua di cuore

Maria T.