La cartella n. 4/Chi lascia la via vecchia per la nova
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CHI LASCIA LA VIA VECCHIA
PER LA NOVA....
Conoscevo la posizione di quella ragazza, ed avevo sempre preveduto che dovrebbe aprirsi una via di guadagno. — Recitava benino, ed un momento s'era anche parlato di farne un'artista drammatica; ma poi s'erano enumerati ad uno ad uno i pericoli, gli inconvenienti di quella carriera, e s’era respinto quel progetto.
All’udire che voleva farsi telegrafista, provai uno sgomento, una ripugnanza, maggiore assai di quella che mi aveva inspirato il teatro. L’altezza dell’ambiente morale in cui deve svolgersi un dramma per essere ben accolto dal pubblico, quell’esposizione continua di caratteri nobili, di azioni generose, e dietro ogni colpa la punizione ed il rimorso, deve necessariamente esercitare un’azione salutare sull’animo degli artisti; ed ho udito dire parecchie volte che gli artisti drammatici sono per lo più gente onesta, generosa, di sentimenti gentili. — Questo, senza avermi riconciliata colla proposta di mettere quella fanciulla sulle scene, era stato un pro, che avevo trovato da opporre ai molti contro. Poi c’era anche l’idea dell’arte, della possibile gloria avvenire... che so io?
Ma, per la telegrafista, l’avvenire doveva essere necessariamente oscuro come il presente; — e si trattava di vedere una ragazzina andare all’ufficio come un giovinotto, bazzicare cogli impiegati, senza sorveglianza, per riescire a che cosa poi? Ad essere tutta la vita un umile impiegato.
— Gli uomini che prendono quella carriera non hanno speranze maggiori, — si diceva, — e tuttavia se n’accontentano.
E questo è vero. Ma gli uomini non arrischiano tanto quanto una ragazza. — Ero malcontenta, diffidente.
In quell’incertezza pensai di scrivere ad una buona signora che era stata più d’un anno telegrafista prima di maritarsi, e di domandare consiglio a lei.
Mi rispose un biglietto breve, mandandomi un grosso manoscritto. Nel biglietto mi diceva:
«Il miglior consiglio che io possa darle per la sua giovine protetta, è di raccontarle la mia storia. Gliela faccia leggere, se ha coraggio. È meglio ancora scoprirle il pericolo, che lasciarvela cadere ad occhi chiusi. — Sono certa che lei stessa, quando sarà in fine del mio manoscritto, non permetterà a quella bimba di domandare l’impiego a cui aspira, se non quando sarà più matura. Per una zitellona o per una vedova, è una occupazione come un’altra. Ma per una giovinetta, creda a me, non è affare.
«È un sacrificio ed un’umiliazione che m’impongo confidandole la mia storia; forse potrà anche sembrarle una sconvenienza. — Ma è la sconvenienza di chi si denuda per gettarsi in mare a salvare un naufrago. — Me ne tenga conto, e se dovrà servirsi del mio esempio per ammonire altre giovinette, pubblichi pure la mia storia; ma prima cambi i nomi di persone e di paesi. Sono madre di famiglia, e non vorrei essere riconosciuta.»1
Ho cambiato i nomi, ed ecco il manoscritto come l’ho ricevuto.
I.
Una fanciulla dev’essere pura come un lembo di cielo, come un giglio, come una colomba, come tante cose rettoriche, della cui purezza non so chi risponda, — specialmente per la colomba.
Quando parte pel viaggio di nozze in un coupé di prima classe, non deve saper altro dell’amore, che quanto ne ha imparato alla scuola elementare: nome comune, astratto, genere maschile, numero singolare.
Le belle signore, che leggeranno forse queste memorie alla lampada del loro salottino ben caldo, — mentre Marietta prepara la loro abbigliatura pel teatro, e Giovanni striglia i cavalli che debbono trascinarle nella carrozza imbottita di raso, — si mettano una mano alla coscienza e mi dicano:
— Quando si sono maritate non ne sapevano più di così? Proprio no?
Ebbene, credano a me; non se ne insuperbiscano. Si ricordano che trincieramenti di babbi, di mamme, di zii, di prozii, di istitutrici, avevano intorno quando andavano fuori? E nessuna lettera giungeva mai fino a loro senza essere passata sotto gli occhi dei parenti. E di visite da sole non ne ricevevano. Ed alle feste ballavano soltanto con giovani, del cui procedere un comune conoscente si fosse in certo modo reso garante colla presentazione.
Avrebbe dovuto essere ben poco gentiluomo, chi in simili circostanze avesse osato dire una parola.... fuor di tempo. — E per acquistare, in fatto d’amore, delle cognizioni oltre quelle fornite dalla grammatica, una signorina avrebbe dovuto metterci della buona, — o piuttosto della cattiva volontà.
Ho premesso tutto codesto per arrestare nelle mani delle signore senza peccato la pietra, che mi avrebbero forse gettata fin dalle prime pagine del mio racconto.
II.
La mia mamma abitava Livorno Torinese. Era vedova con quattro figlioli, ed io era la maggiore. Si viveva tutti del frutto d’un poderino minuscolo; era un magro vivere, ma si viveva.
Io avevo frequentato le scuole comunali, poi avevo continuato a studiare coll’aiuto della maestra, nell’idea di ottenere anch’io il diploma di classe inferiore. Quella maestra era istrutta, aveva molti anni di pratica, ed aspirava ad un posto migliore; ed io aspiravo a prendere il suo, quando lei lo avesse lasciato. Trecento lire e l’alloggio, aggiunto ai frutti del nostro palmo di terra, per noi che avevamo pochi bisogni ed abitudini modeste, sarebbero stati una fortuna.
Ci si pensava sempre. Si facevano progetti su progetti:
— Trasportarci tutti nella casa magistrale; — erano tre camere, ma bastavano: non ne avevamo mai avute di più. — Vivere come s’era vissuto fin allora, soltanto con qualche privazione di meno; perchè, già, c’erano giorni in cui non si metteva la pentola al fuoco; e, se ci fosse venuto quell’aumento di rendita, codesto non sarebbe più accaduto. Esser sempre ben coperti l’inverno, e far fare a tutti i ragazzi le quattro elementari prima di mandarli ad un mestiere....
Io mi sentivo superba e contenta d’essere il perno su cui s’appoggiavano questi disegni facili a realizzarsi, e che ci avrebbero permesso di vivere tutti uniti, i figlioli sotto gli occhi della mamma, fintanto che fossi stata più matura. Poi avrei potuto sperare un posto onorevole, da istitutrice in una buona famiglia, o da direttrice in un collegio...
Un giorno venne fuori a trovarci una zia che avevamo a Torino, e mi parlò di certi impieghi al telegrafo che si davano alle donne.
Si guadagnava di più che a far la maestra, c’erano speranze di aumento, si poteva capitare a vivere in città.... Via; era una carriera aperta come per gli uomini; e punto faticosa....
Quella prospettiva mi parve splendida. Stare in una città; andare allo studio come un giovinotto; avere la mia casa, e molte ore di libertà; ed essere indipendente.
La mia testa cominciò a fantasticare su quel tema. Il progetto di fare la maestra nel mio piccolo paese a tutti quei contadinetti che conoscevo e che mi conoscevano, mi parve meschino. Una maestra cosa poteva aspettare dall’avvenire. Mentre una telegrafista, era un impiegato governativo.
Non so proprio cosa ci vedessi di bello; ma è certo che la stessa eccentricità della cosa lusingava la mia immaginazione. Quando ne parlavo in paese e vedevo le meraviglie che suscitava quel discorso, provavo un gran desiderio, una vera ambizione di raggiungere quella posizione meravigliosa. E mi compiacevo a figurarmi di ritorno in paese per qualche breve vacanza, vestita da cittadina, col titolo di telegrafista, anzi d'ufficiale telegrafico, discorrendo d’orari, di capi d’ufficio, d’avanzamenti, di traslochi; dicendo noi per nominare tutta la rete telegrafica dello Stato, tutti gli impiegati, gli uffici, le macchine, i pali e me stessa. Cos’era l’impiego decoroso di direttrice al confronto di codesto? Di direttrici ce n’erano molte, ce n’erano state sempre. Di telegrafiste non ne avevo vedute mai, e mi pareva che quelle donne impiegati dovessero essere qualche cosa di affatto differente dalle altre.
Avrei sempre portato denaro alla mamma; con uno stipendio che col tempo avrebbe potuto salire fino a cento lire al mese...! Figurarsi! Noi, in cinque che eravamo, non avevamo mai spese, e neppure vedute cento lire al mese.
Fu la stessa zia di Torino che mi fece andare a casa sua, e mi tenne con sè parecchi mesi, benchè fosse povera, per mandarmi alla scuola di telegrafia, ed avviarmi a quella nuova carriera aperta alle donne, che dev’essere la gloria, il trionfo dell’onorevole Salvatore Morelli; l’alloro che gli farà da primo guanciale per riposarsi delle sue fatiche parlamentari. Il secondo guanciale glielo farà il divorzio.
Lascio stare il tempo di studio, poi il primo impiego da giornaliera. Ero chiamata quando il lavoro era eccessivo, ed in quei casi avevo due lire al giorno. Se non c’era lavoro di troppo, non ero chiamata, e non avevo nulla. Ma non importa. Vivevo colla zia. A lei una tazza d’acqua di più nella pentola per aumentare d’una porzione la minestra, e quel poco di più ch’io potevo mangiare costava poco, e lo dava volentieri.
Non voleva neppure i miei piccoli guadagni che servivano a vestirmi. Non mi rimase mai nulla da mandare alla mamma. Ma era naturale. Ero in principio di carriera. Una volta che avessi avuto un impiego fisso, con un buono stipendio — allora sì che avrei potuto aiutare la mia famiglia.
Finalmente, dopo un lungo tirocinio, e tante suppliche, ricorsi, palpiti da pigliarne una malattia di cuore, lo ottenni quel sospirato impiego; e nientemeno che negli uffici telegrafici di Milano, con uno stipendio di ottocento lire all’anno.
A noi parve di veder giungere in casa Giove trasformato in pioggia d’oro con quella notizia. Dico a noi così per dire; ma la zia, poveretta, ed i suoi bambini non sapevano nulla di Giove e delle sue metamorfosi. E quanto alla mamma, lei non si rallegrava di quell’avanzamento.
Aveva le idee piccine. Le pareva che sarebbe stato meglio guadagnare soltanto trecento lire e stare in paese, e vivere tutti uniti aspettando il meglio per quando fossi stata matura, che andare in giro, una figliola di diciotto anni, sola per il mondo, a far l’impiegato.
— Dà retta, — mi diceva. — Codeste cose sono buone per le signorine venute al meno, che hanno la famiglia in città. — Andranno all’ufficio come tu dici; ma accompagnate dalla mamma o dal babbo; e, fuori di là, saranno ancora coi loro parenti. Per quelle lo capisco; è un lavoro come un altro. E poi ancora, se dentro gli uffici debbono stare cogli impiegati, non ce le dovrebbero mettere prima de’ venticinque o trent’anni.
Lei non lo sapeva che uomini e donne sono eguali davanti al progresso, e che l’emancipazione non ammette giovinette inesperte.
La lasciai accorata, povera donna, e venni sola a Milano. Nè lei nè la zia potevano fare la spesa del viaggio per accompagnarmi, e tutte e due avevano bambini da custodire.
Appena giunta mi presentai al capo d’ufficio, e lo pregai di dirigermi un poco nella mia installazione.
— Non ha altre risorse che il suo impiego? — mi domandò.
— Altre risorse! Ma il mio impiego mi frutta ottocento lire, — risposi sbalordita. — Sessantasei lire e sessantasei centesimi al mese con una frazione continua....
— Trovare una pensione a questo prezzo è difficile, — borbottò quel signore.
Io cascavo dalle nuvole. Dovevo spendere sessantasei lire e sessantasei centesimi soltanto nella pensione? E vestirmi? e mandare qualche cosa alla mamma! — Ma che! Quel signore, aveva idee troppo grandiose. Noi in casa con poco più d’una lira al giorno si viveva tutti.
Il capo d’ufficio ebbe forse pietà della mia inesperienza. Si occupò del mio magro affare, e gli riescì di collocarmi in una pensione dove mi davano alloggio e vitto per cinquantacinque lire.
A me pareva una spesa enorme. Ma più tardi mi accorsi che per vivere in città era pochissimo.
Alla fine del mese, appena ebbi riscosso il mio denaro, m’affrettai a pagare la padrona di pensione ed a fare un vaglia delle altre undici lire per la mamma. Coi sessantasei centesimi che avevo serbato per me, pagai il vaglia postale ed il francobollo, e rimasi a secco.
Quando uscivo la mattina per andare all’ufficio le botteghe erano chiuse, le strade quasi deserte; qualche lattivendolo, qualche panattiere col cesto in capo come il gran panattiere di Faraone, era tutta la gente che incontravo. Al ritorno gli altri impiegati salivano nell’omnibus. Io facevo la strada sola, a piedi, nel fango, pensando quali vantaggi mi procurava mai quell’impiego, che era sembrato a me ed a’ miei un colpo di fortuna.
La mamma scriveva che della mia lontananza risentiva soltanto il danno.
Quanto al mio mantenimento risparmiato non se ne accorgeva neppure. — E dire che a me quel mantenimento costava cinquantacinque lire! Cosa vuol dire separarsi!
Ed intanto si lagnava che non m’aveva più accanto, che non l’aiutavo più a custodire i bimbi ed a fare la massaia.
Le undici lire le aveva ricevute, ma mi raccomandava di non mandargliele più, povera donna, e di serbarle per rinnovare gli stivalini e gli abiti.
Sulle prime, la novità di trovarmi in una città grande, d’andare e venire sola, di sedere a tavola in una pensione con molta gente, di raccontare la mia posizione eccezionale, e di ripetere ancora ed ancora alla padrona di pensione, ed alla serva stupefatta, ed ai compagni di tavola, che ero impiegata come un uomo, e che guadagnavo come un uomo, mi mantenne in uno stato d’esaltazione, e mi sentii felice.
Ma alla fine del secondo mese, quando la padrona di casa mi presentò il conto della lavandaia, quello della stiratrice, più due lire pel lume che non era compreso nella pensione, in tutto nove lire che dovevo sborsare pigliandole sulla mesata ventura, cominciai a sgomentarmi.
Intanto era finito l’ottobre, ed il novembre cominciava con un freddo invernale. La sera gelavo nella mia stanza. Qualche volta mi lasciai andare al lusso di accendere il camino mentre stavo alzata a dare qualche punto alle biancherie, ed a ravviare gli abiti. Ma la spesa della legna era superiore a’ miei mezzi. Quel mese, tolta la pensione e quelle nove lire di conti pagati, m’erano rimaste due lire per le spese straordinarie. Nella nostra povera casa non m’ero mai trovata in quegli impicci.
Giorno e notte pensavo al modo di diminuire quelle spese. Rinunciai a ber vino per farmi ribassare di qualche lira il prezzo della pensione; ma tant’è tanto, se mi riesciva di pagare la lavandaia, la stiratrice ed il lume, per la legna non mi rimaneva nulla. E quel ribasso di prezzo aveva anche ribassata l’opinione che la padrona di casa aveva di me. Mi trattava con disprezzo.
Era una vita arida e noiosa. Casa e studio, studio e casa, coi piedi umidi, le membra assiderate, il pensiero occupato da calcoli minuti ed uggiosi, nessun’affezione per consolarmi, nessuna distrazione. — Ed i miei abiti si sciupavano, le mie scarpe si logoravano.
Eppure guadagnavo ottocento lire all’anno. Avevo raggiunto il mio sogno di grandezza, il mio ideale. Dio! che delusione!
Ero anche bellina. Quando andavo, sola e male in arnese per le strade, c’era spesso chi mi diceva parolette dolci, chi si offriva d’accompagnarmi, ed anche con molta insistenza e senza troppo rispetto.
Allora mi venivano in mente i discorsi della mamma, e le sue paure. — Ma poi tornavo alle mie idee:
— Quando le donne hanno un’occupazione seria, e pensieri seri, non cadono in leggerezze. La loro vanità dipende appunto dalla vita oziosa e senza responsabilità a cui sono condannate, ecc. ecc.
A me i pensieri seri non mancavano. — Avevo niente meno che da risolvere il problema di andar vestita, bene o male, di calzarmi, e di non gelare, senza spender denaro.
Ma tuttavia avevo diciotto anni. — Due, tre, quattro uomini, dieci, mi sembrarono insolenti e brutali colle loro parole galanti. Poi ne venne uno che non mi sembrò insolente nè brutale. — Era giovane, serio; per un pezzo mi seguì senza dirmi nulla, mi guardava soltanto; ed io la notte, nella mia stanza solitaria e fredda, rivedevo quello sguardo che la riempiva di calore e di luce.
Poi un giorno, entrando a pranzo dalla padrona di casa lo vidi là, alla tavola della pensione. — Aveva veduto dove abitavo, ed era venuto; s’era anche collocato accanto a me. Non mi aveva parlato brutalmente in istrada. Aveva presa una via lunga, mi si presentava come si usa tra gente ammodo. — Gliene tenni conto; forse troppo.
Mi sentivo autorizzata a discorrere con lui come cogli altri della pensione; e ne profittai. — Mi gettai a capo fitto in quella prima gioia; il mio cuore, giovane e caldo, sussultava alle sue parole. — M’innamorai pazzamente, sinceramente.
Oh, se m’avesse veduto la mia mamma, uscire, di sera, con quel giovane, rientrar tardi, agitata, impaurita, coll’anima combattuta tra la passione ed il rimorso.
Come avrebbe, ripetuto, povera donna, che gli impieghi di quella sorta si dovrebbero dare soltanto alle ragazze che hanno la famiglia in città, che vanno all’ufficio accompagnate dalla mamma, e che per giunta non sono più giovani. E che sarebbe stato meglio accontentarmi del posticino di maestra in paese a trecento lire, e vivere tutti uniti!
Ma la mamma era lontana: io era sola, innamorata, e senz’altro conforto al mondo che quell’amore.
Non serve dir altro. È la storia di molte ragazze indipendenti, e disgraziate.
Speravo che mi sposasse; il matrimonio rimedia a tutto. — Ma un bel giorno mi scrisse che affari di famiglia lo chiamavano in provincia presso i suoi parenti. Non sapeva quando tornerebbe. Suo padre era rigorosissimo. Non osava dirmi di scrivergli perchè in casa sua, se si fosse scoperta la nostra relazione, guai! Mi amava sempre; gli doleva di lasciarmi; ma contro l’impossibile non si può andare.... ecc., ecc. Di matrimonio neppure una parola, neppure una speranza lontana. — M’abbandonava.
Rimasi come fulminata. — Non me l’aspettavo, avevo riposta in lui tutta la fiducia de’ miei diciott’anni. Ero colpevole per lui; era lui che doveva redimermi. Questo mi sembrava giusto, e credevo che quanto era giusto si dovesse fare. Fu un balzo doloroso. Dal colmo della fede, alla delusione assoluta, senza speranza.
Mi trovai sola in faccia alla mia vita di lavoro inglorioso, con tre compagni tristi: l’isolamento, la miseria, la vergogna.
Malgrado tutto, mi durò un pezzo in cuore l’amore, e passai le lunghe notti in veglie e rimpianti; perchè la passione non ragiona.
Ma anch’essa deve pur nutrirsi di qualche cosa. — Ed io non avevo nulla.
Non ricevevo notizie nè dirette, nè indirette; non lo vedevo più; non sapevo neppure dove fosse. A poco a poco le preoccupazioni aride del pane quotidiano, i bisogni materiali ed imperiosi della vita, soffocarono la passione, mi assorbirono tutta.
Ero triste, uggita. Non avevo a chi confidarmi. Avrei voluto ad ogni costo uscire da quelle angustie; ma non osavo scrivere alla mamma che la mia ambizione era stata illusoria, che tutte le mie belle speranze m’avevano condotta a quegli estremi. Il posto di maestra era occupato; e poi io avevo lasciato andare gli studi per buttarmi al telegrafo, e non avevo diploma. — Avrei dovuto tornare in famiglia senza guadagnar nulla.
— Mi vergognavo. Preferivo soffrire, vivere di ripieghi, fare qualche debituccio, ma lasciar ignorare alla mamma i miei guai, e salvare le apparenze.
Tirai avanti così quasi un anno. — Ero scoraggiata, delusa; non avevo più nè fede nè amori; ero stanca; mi pareva d’essere vecchia.
III.
Era la fine d’ottobre. Tornava a venire l’inverno tanto difficile per me.
Ero infreddata; da alcuni giorni una febbriciattola importuna mi rendeva gravoso il lavoro, e pensavo con terrore che potrei ammalarmi, esser costretta a stare in casa, a letto, ed a chiamare il medico, a comperar medicine.... Come fare?
Era finito da poco il pranzo. Io m’ero accostata alla finestra, e stavo là colla fronte contro il cristallo e l’occhio fisso nell’aria buia, pensando vagamente che tornando nella mia stanza avrei freddo.
— Ha la febbre, signorina? — disse qualcuno accostandosi alla finestra dall’altro lato. Era l’anziano della pensione. Un uomo sui quarant’anni; un signore che veniva là a pranzo perchè non aveva famiglia e s’annoiava a pranzar solo; era buono, cortese, generoso; godeva la simpatia di tutti.
— Sì, — risposi, — ho la febbre. Ma è un’infreddatura; passerà presto.
— Però dovrebbe aversi riguardo; non esporsi all’umido.
— Oh, non sono tanto delicata.
— È giovane e forte; ma non bisogna abusarne. Domani dovrebbe stare in casa.
— Sa pure che non posso.
— Perchè non può? Per un giorno d’assenza ed anche più, quand’è per malattia, non si perde l’impiego.
Io non risposi. Pensavo che avrei voluto perdere l’impiego, perchè quella desolazione completa m’avrebbe dato il coraggio di vincere tutti i riguardi, tutte le soggezioni e di tornare nella mia famiglia. — Egli ripigliò:
— E poi, se anche lo perdesse l’impiego....
In quel momento credetti che avesse indovinato il mio pensiero e dissi:
— Sarebbe forse meglio.
— Anch’io credo che sarebbe meglio, — riprese. Poi domandò:
— Cosa farebbe se perdesse l’impiego?
Io stavo appunto figurandomi il mio ritorno al paese in quello stato, i commenti degli altri, la mia umiliazione. A quell’idea il coraggio mi mancava, l’amor proprio mi dava la forza d’esitare ancora; e risposi:
— Non so quel che farei. Non so.
— Sa cosa dovrebbe fare, Maria? — susurrò con dolcezza il mio commensale.
— Che cosa, signor Marco?
— Dovrebbe rinunciare all’ambizione di bastare a sè stessa; dovrebbe accettare l’appoggio che le offre un uomo di cuore, un amico che le vuol bene....
Parlava sommesso, e gli oscillava la voce, e nel dire che mi voleva bene cercò di prendermi la mano. Io ero così delusa, così avvilita, che avevo paura di tutto; vedevo soltanto insulti e vergogne; ritirai la mano con dispetto e lo respinsi per andare nella mia camera. Ma egli mi trattenne e riprese:
— Non mi giudichi male, Maria; non intendo farle torto. Sa pure che nessuno la rispetta più di me, poverina. La proposta che le faccio può dispiacerle forse, ma non può offenderla. — Sono vecchio per uno sposo, e lei è molto giovane per me; ma le voglio bene, mi creda; proprio di cuore, e se mi vuole.... non so come dire.... non sono un eroe da romanzo; ma sarò un buon marito, e credo che non si troverebbe male in casa mia; sarebbe signora e padrona, di me, della casa, di tutto.
Diceva codesto a frasi staccate: ma io non cercavo più di interromperlo; non fuggivo più. La riconoscenza m’aveva gonfiato il cuore. Ero scoppiata in pianto.
Dopo tanta amarezza, tanto sconforto quelle parole buone, quell’affetto generoso e vero mi commovevano profondamente. Era la vita che rientrava nella mia anima sfiduciata. Avrei voluto gettarmi ai piedi di quell’uomo, avrei voluto baciargli le mani, e dirgli che lo ringraziavo, che lo benedivo perchè mi toglieva dall’abbattimento in cui ero caduta, perchè m’aiutava a risorgere; che il mio cuore gli era guadagnato per sempre; che avrei consacrata tutta la vita a lui con entusiasmo, per compensarlo del bene che mi faceva in quel momento.
Ma non feci nulla, non dissi nulla. Continuai a piangere come una disperata, come una Maddalena. Oh! pur troppo ero una Maddalena.
Però quello sfogo muto di pianto gli disse quanto avrebbero detto le mie parole. Capì che era accettato, che era amato, che era benedetto. Non domandò altro. Mi carezzò le spalle con dolcezza come si fa a’ bimbi che piangono, e mi disse:
— Ora vada a riposarsi, Maria. Non pensi più ad andare all’ufficio. Domattina stia a letto, faccia passare la sua infreddatura, poi mi dirà lei quando vorrà ch’io scriva alla sua mamma, o che ci vada; farò tutto quello che vorrà. Intanto penso io a liberarla per sempre dal telegrafo.
Io gli presi le mani, le strinsi con riconoscenza profonda, con amore; ma non potei dir nulla.
Rientrai nella mia stanza consolata, con tutta la fede de’ miei diciott’anni rinata, e con essa tutte le speranze e tutti i sorrisi della vita, e con un nobile affetto nel cuore.
Che cambiamento! Che gioia! Non ebbi bisogno di stare a letto; la febbre dell’infreddatura fu assorbita dalla febbre d’entusiasmo che mi agitava tutta. L’indomani ero florida e felice.
Marco era un nobile cuore. Il suo amore da uomo maturo, un amore profondo senza tempeste, mi riposava delle tempeste passate. Mi sentivo così tranquilla, così rassicurata, dacchè m’appoggiavo a lui, che rinunciavo a pensare, a volere. Egli pensava e voleva per me. Era padre, amico, sposo ad un tempo.
Un solo cruccio avvelenava la mia pace; il pensiero del passato; di quell’altro amore, di quella colpa che Marco ignorava. Tutto quanto c’era in me di dignità, di gratitudine, d’ammirazione per lui, si rivoltava all’idea d’ingannarlo. Era un abuso di fiducia, una viltà. E d’altra parte l’amavo; non solo per gratitudine; l’amavo come un giovane, come un amante; come non avevo mai amato quell’altro. Sentivo che, se a quella rivelazione mi avesse abbandonata, non avrei potuto sopportarlo; ne sarei impazzita, ne sarei morta. Ed avevo paura di perderlo, e lottavo colla coscienza.
Ma l’amore che m’inspirava quell’uomo generoso era pure generoso e degno di lui. A misura che il giorno delle nozze si avvicinava, le mie esitazioni, le paure codarde svanivano, ed il sentimento del dovere s’imponeva alla mia coscienza. Tirai innanzi fino all’antevigilia del matrimonio. La mamma era venuta a Milano; avevamo prese due stanze arredate, e Marco veniva ogni sera come fanno gli sposi a trovarmi ed a far progetti.
Quella sera, dopo avergli stretta la mano, dopo averlo veduto uscire dall’uscio, dopo averlo guardato dalla finestra mentre s’allontanava, mi posi al tavolo pensando:
— Chissà! Forse non lo vedrò più.
Poi, malgrado il vuoto immenso che quel pensiero mi apriva dinanzi alla mente impaurita, malgrado l’angoscia che ne risentivo nel cuore, gli scrissi tutto, tutto. Non mi risparmiai, gli confessai che avevo ancora molte lettere dell’altro.
«Se hai la forza, la clemenza,.... o la debolezza di perdonarmi, — conclusi, — vieni più presto questa sera. La mamma ha invitato qualcuno perchè è la vigilia delle nostre nozze. Vieni prima degli altri. Saremo soli; brucieremo quelle reliquie del mio disgraziato passato, e tutto l’avvenire sarà tuo. Se non ti vedrò venire di buon’ora a domandarmi quelle lettere, vorrà dire che non puoi perdonarmi, che non ti vedrò più. Sia quel che Dio vuole di me; l’ho meritato.»
Fu un giorno d’agonia quella vigilia di nozze. Ogni volta che l’uscio s’apriva sussultavo: — È lui. — No, non era lui. — Forse non verrà. — Infatti, perchè dovrebbe venire? Certe colpe un uomo non le perdona. — Poi s’udiva ancora un passo. — Sì, eccolo. È qui. È tanto generoso. — Ma ancora non era lui.
Finalmente comparve il primo invitato. Erano le otto di sera. L’ora in cui Marco veniva sempre; e non era giunto ancora; non mi aveva perdonato. Non lo vedrei più.
Io non so come mi reggessi in piedi in quel momento. È certo che non parlavo; non l’avrei potuto. Mi chiamavano sposa, mi facevano auguri, mi portavano doni. Io non guardavo nulla, non rispondevo a nessuno.
Sentivo che intorno a me si ripeteva:
— È la commozione. È naturale. Deve lasciare i suoi, cambiare stato....
Ed io non lasciavo più i miei, non cambiavo più stato, non avevo più sposo.
Se ne avessi avuta la forza, lo avrei gridato a tutti. Non era il meschino amor proprio di non suscitar commenti che mi facesse tacere; era l’angoscia immensa che mi ammutoliva.
Ad un tratto udii entrare qualcuno; e tutti dissero:
— Eccolo; è qui; finalmente!
Non poteva esser lui. Non alzai gli occhi continuai a piangere, finchè una voce, una musica, un suono di cielo, mi disse:
— Che cos’hai, Maria? Perchè piangi?
— Oh Dio! Perchè? — esclamai singhiozzando. — Perchè non sei venuto prima!
— Mia cara, — riprese colla sua calma abituale, — è una grande sera questa. Ho avuto parecchie cosuccia da sbrigare. Domattina si parte presto; dovevo dar ordine a tutto....
Il suo sguardo era sereno e pieno d’amore, la sua voce era tranquilla. Pareva che non sapesse nulla; era l’uomo del giorno prima. Io gli dissi:
— Temevo che tu non venissi più.
Si mise a ridere e mi carezzò i capelli, dicendo:
— Bambina! Perchè non avrei dovuto venire?
Assolutamente non sapeva nulla. Per istinto in quel momento ne fui consolata.
— Meglio così, pensai. Forse non mi avrebbe perdonata.
Avevo consegnato quella lettera ad un fattorino di piazza, che non gliel’aveva portata.
Quella sera non fummo soli un momento. La mattina, quando venne a prendermi, ero vestita da sposa e circondata da parenti ed amici. S’andò subito al Municipio, poi in chiesa. Anche volendolo, non avrei potuto ritentare la mia confessione. Ma non volevo più. Avevo veduto troppo davvicino il pericolo di perderlo, la gioia immensa di ritrovarlo, per espormi un’altra volta a quel rischio.
Il mio dovere l’avevo fatto. Il caso, la Provvidenza forse, aveva impedito alla mia confessione leale di giungere fino a lui; io non ci avevo colpa. Venni a transazione colla coscienza, e lo sposai col mio segreto nel cuore.
IV.
Partimmo soli; andammo a Firenze, a Roma, a Napoli. Si passava di bellezza in bellezza; era una serie d’emozioni, di sorprese, di gioie insperate.
E la più cara era quella di sentirmi in una situazione legittima. Di pensare:
«Quest’uomo a cui mi appoggio è mio marito. Ho diritto di appoggiarmi a lui. Non dobbiamo nasconderci, possiamo darci il braccio in pieno giorno, darci del tu dinanzi a tutti.»
Quando Marco incontrava qualche conoscente e mi presentava dicendo: «la mia signora» il mio cuore sussultava di piacere e d’orgoglio.
Avevo provato l’umiliazione di dover scantonare in fretta in fretta per non incontrare il signor Tale o la signora Talaltra, che conoscevano il giovane a cui davo il braccio. Avevo veduto i garzoni d’albergo sogghignare quando entravo con lui. Ora non sogghignavano più. S’inchinavano seri seri, e mi chiamano rispettosamente la signora.
Quell’altro, — Edmondo, — m’aveva detto parecchie volte che l’amore dev’essere libero per essere vero e bello. Che la poesia sta nelle passioni indipendenti, e la legalità è la prosa della vita. Rideva dei mariti; diceva che il matrimonio è la tomba dell’amore; chiamava il maritarsi fare una fine, o passare nel numero dei più; parlava sempre di dote a proposito di nozze; tutti i luoghi comuni rancidi, che da più d’un secolo tengono luogo di spirito a chi non ne ha.
Io allora avevo cercato di entrare nelle sue idee per riconciliarmi colla mia posizione. Ma ora vedevo, sentivo che tutti quelli erano paradossi. Pel mio carattere serio e giusto, la poesia stava nella legittimità; nel sentirmi d’accordo colle leggi della gente onesta.
Dopo il viaggio si tornò a Milano, e provai la gioia di essere padrona in una casa rispettabile, di occuparmi della mia casa e di mio marito, di far qualche cosa per lui; mi chiamava qualche volta la sua massaia, ed io ne andavo superba.
Ogni giorno, ogni ora, benedivo il caso provvido, che aveva fatto smarrire per via la lettera in cui gli avevo scritta la mia confessione. Più conoscevo Marco, e più raccapricciavo all’idea che avrei potuto con quella rivelazione allontanarlo da me per sempre.
La sua tenerezza dolce, profonda, protettrice, non si smentiva mai. Il suo carattere era sempre sereno; il suo cuore pieno di bontà, di giustizia; e, co’ suoi quarant’anni, aveva più poesia, più entusiasmo che non avessi trovato mai in nessun giovinotto.
Non diceva mai una parola scortese; correggeva con indulgenza, approvava con gratitudine. Era un’anima generosa, elevata e buona, ed ero orgogliosa d’appartenergli; l’adoravo.
Passò più d’un anno, rapido come un sogno di gioia; la poesia scritta, gli idilli dell’immaginazione non hanno nulla che agguagli l’incanto di quella pace d’amore.
Pareva che il cielo si compiacesse a versare su noi a piene mani tutte le sue benedizioni. Eravamo ricchi, innamorati, ed avevamo la certezza che fra pochi mesi un bambino, un figlio nostro, il caro vincolo di due braccini fragili e rosati, verrebbe a legarci più strettamente ancora l’uno all’altra.
Quando consideravo l’alta bontà di Marco, pensavo che Dio era giusto: ma rivolgendo l’occhio su me, sul mio passato, avevo paura. — Con che diritto io, che avevo una colpa sulla coscienza, mi associavo alla felicità di quell’uomo leale? E se invece avessi associato lui, — lui nobile, onesto, dignitoso, — alla mia sorte, alla posizione che temevo, alle conseguenze del male? La notte mi svegliavo in sussulto, impaurita da quel pensiero. Era la sola nube che offuscasse il mio bell’orizzonte. Ma una nube grave di tempesta.
V.
Era d’estate, la sera uscivamo insieme perchè nel mio stato avevo bisogno di moto.
Una sera passeggiavamo lentamente sul Corso. Parlavamo del nostro bambino; del nome che gli s’avrebbe a dare; era una questione che agitavamo da un pezzo. Io volevo chiamarlo Marco o Marcella a seconda del sesso; — lui trovava che Marcella era brutto, e preferiva il nome di Mario o Maria. Era una gara di cortesia e d’affetto, in cui ciascuno di noi voleva far prevalere il nome dell’altro; poi ci eravamo messi di buon umore, e Marco m’andava proponendo i nomi più strampalati: Asdrubale, Melchisedecco, Ariodante.... ed io protestavo ridendo.
— Macario — disse Marco, scansandosi un poco per lasciar passare un giovine che ci aveva preso la dritta. Io non risposi.
— Non ti opponi? — riprese. — Chi tace consente. Lo chiameremo Macario.
Non risposi ancora. Lo stesso giovane, che era tornato indietro, era ripassato accanto a mio marito, mi aveva sbirciata rapidamente ed aveva tirato innanzi una cinquantina di passi. Mentre Marco parlava, io vedevo quel giovane fermarsi un minuto presso la mostra di una bottega, poi voltarsi e venirci incontro daccapo.
— E così Maria? Perchè non rispondi? — domandò Marco stringendomi il braccio. — Ti senti male?
— Sì, mi sento male; ho i brividi; torniamo a casa.
Voltò strada subito, e ci ritirammo. Ma la mia casa non mi parve più quel dolce nido di pace; la mia felicità era svanita; avevo lo sgomento nel cuore.
Quel giovane che m’era passato accanto era Edmondo.
Neppure le cure amorevoli di Marco valsero a calmare la febbre d’angoscia che mi agitava tutta.
Era stata come una visione di malaugurio. Sentivo che non poteva finire così; conoscevo quel carattere tempestoso, imperioso, e sapevo che la mia pace sarebbe perduta, che il mio bel nome di moglie non potrei più portarlo con quella dignità che mi riconciliava col passato. Guardavo la cara figura nobile di Marco, e pensavo:
— Ecco; io ho portato la tempesta nella sua vita, la vergogna sul suo nome; egli mi ha fatto tanto bene, ed io l’ho ingannato. Domani, doman l’altro, incontrerà per via qualcuno che gli dirà:
— Guarda; quel giovinotto là, era l’amante di tua moglie.
Avrei dato la mia vita avvenire, avrei dato persino il mio bell’anno di nozze, perchè quella lettera perduta fosse giunta a suo tempo al mio sposo; perchè mi avesse perdonata, o anche abbandonata, ma non fosse stato ingannato lui.
Le mie previsioni sì avverarono. Quell’incontro fu il principio d’una serie di dolori e di vergogne.
Il giorno dopo ricevetti una lettera da Edmondo. — Mi aveva seguita, conosceva il mio nuovo nome ed il mio indirizzo.
Suo padre era morto, ed egli era tornato libero e ricco per sposarmi. Non gli era riescito di trovarmi: erano molti giorni che mi andava cercando affannosamente, ed il suo amore s’accresceva in quelle ansietà. Finalmente m’aveva scoperta, ed al tempo stesso aveva scoperto che l’avevo dimenticato, che avevo sposato un altro.
«Povera Maria, — scriveva. — Fu il mio silenzio, l’isolamento, forse la crudele necessità di vivere, che t’hanno indotto a sacrificarti con un vecchio. — Ma io so che non puoi amarlo, che il tuo cuore è mio.»
Non posso ripetere quelle supposizioni oltraggiose, che facevano salire il rossore sulla mia fronte di moglie onesta. Mi pareva che quelle parole profanassero il mio amore devoto per Marco, m’avvilissero dinanzi a lui.
E dopo le supposizioni venivano le proposte oltraggiose anch’esse:
«Edmondo mi amava più che non mi avesse amata mai. — Mi perdonava, d’averlo tradito! — Desiderava ardentemente di rivedermi; mi aspettava l’indomani alla tale ora, nel tale luogo.»
Mi dava un appuntamento! A me, moglie d’un altro, vicina a divenir madre! — E non dubitava nemmeno ch’io potessi non andarci. Che avessi ad offendermi poi!.... Ed infatti, non gli avevo dato il diritto di giudicarmi così? Che ragione avevo di pretendere che mi credesse onesta?
Eppure ero onesta e pentita, e tutto quanto c’era di leale, di giusto nella mia anima, si ribellava a quella proposta vergognosa.
Non risposi; ma dopo alcuni giorni venne un’altra lettera.
«Perchè non ero andata? M’aveva aspettata. Non avevo potuto sfuggire al mio vecchio marito? Era geloso? E perchè non gli avevo risposto almeno una parola?»
Umiliata, indignata da quei ripetuti insulti gli risposi: «che cessasse di scrivermi; ch’io amavo e stimavo profondamente il marito che m’aveva offerto lealmente il suo nome: che avrei preferito morire che fargli il menomo torto.»
Ma quella risposta non fece che esaltarlo maggiormente. Irritato dal mio rifiuto, mi rispose un biglietto ironico e crudele.
— «Ah!, la signora si atteggia a Lucrezia Romana? — Ma io possiedo un grazioso epistolario, tutto scritto da lei, virtuosa signora; una raccolta di letterine che tengo preziose e di cui non mi priverei che dietro il grande compenso d’una sua visita, signora Lucrezia, oppure per farne un dono al suo caro Tarquinio. Se domani alle due Ella non sarà venuta a domandarmele, io manderò il piego a suo marito, e gli dirò: — Questa donna che voi chiamate vostra....»
Quella minaccia mi atterrì. — Se avesse parlato di uccidermi, di uccider sè stesso, m’avrebbe impaurita meno. Nell’esaltazione del mio spirito, avrei preferito un delitto, un rimorso eterno, alla vergogna dinanzi a Marco; al disprezzo di quell’uomo che ammiravo come un Dio, e adoravo come un amante.
Uscii di casa sola, paurosa, febbricitante, nascondendomi come un’adultera, ed andai a quell’appuntamento per ricuperare le mie lettere, il mio onore, l’onore di mio marito e di mio figlio. — Era per Marco che facevo quel passo; per la sua pace, per non espormi al suo disprezzo; che so io? perchè lo amavo, ed avevo paura.
Edmondo mi aspettava in un tratto isolato dei bastioni di porta San Celso.
Fu una scena ignobile ed umiliante. Quell’uomo a cui avevo dato il diritto di non rispettarmi, abusava della sua posizione con preghiere oltraggiose, e scusava l’insulto presente col ricordo d’un passato che era un altro insulto.
Ritornai di là senza aver nulla a rimproverarmi, lasciandolo irritato, respinto; ma sentendomi avvilita, scontenta di me.
Per indurlo a non rivelare a Marco il segreto colpevole del mio passato, avevo dovuto scendere ad una transazione, indegna d’una moglie onesta.
Egli non aveva voluto darmi che una sola lettera; la prima che gli avevo scritto:
— Sentite — m’aveva detto. — Se volete ch’io vi rispetti, dovete essermi indulgente. Io vi adoro, sono pazzo; abbiate pietà di me. Venite qui ogni volta ch’io vi chiamerò, ed io m’accontenterò d’adorarvi come la Madonna sull’altare; ed ogni volta che verrete vi renderò una delle vostre lettere. Quando non ce ne saranno più non verrete più; lo so; ed allora sarà di me quello che Dio vorrà. Ma finchè le tengo queste caparre, dovete venire; lo voglio. — E se una volta mancherete al mio invito, io manderò le lettere che mi rimarranno a vostro marito; e lui vi scaccierà, vi disprezzerà perchè l’avete ingannato, e quando vi troverete sola, senz’appoggio, senza risorse, dovrete per forza rivolgervi a me....
Nè ragionamenti, nè suppliche erano valsi a dissuaderlo da quel proposito; ed io avevo dovuto promettere che andrei, come una colpevole, come un’innamorata, a riconquistare ad una ad una le mie lettere a prezzo, se non del mio onore, del mio decoro.
Non so quali speranze insensate lo esaltassero ancora. Credeva forse che, a forza di rivederlo tornerei ad amarlo; o credeva di compromettermi con quegli incontri imprudenti, e di farmi scacciare dal marito senza scendere lui stesso all’odiosità d’una delazione.
Ed io tornai alla mia casa con quel coltello alla gola; a qualunque ora, in qualunque momento potevo venir chiamata dal mio antico amante; ed avrei dovuto accorrere, o lasciarmi denunciare a mio marito che adoravo, che mi sembrava innalzarsi sempre più nella sua virtù alta e serena, a misura ch’io ridiscendevo nel fango.
VI.
Da quel momento vissi in continue angoscie; non osavo sostenere lo sguardo di mio marito; tremavo all’udire il campanello dell’anticamera; sorvegliavo l’arrivo della posta, e più d’una volta nascosi vergognosamente una lettera sotto gli occhi della cameriera, all’udire il passo di Marco.
Due, tre volte ancora, uscii ad ore insolite, giustificando quelle stranezze con una bugia, e corsi all’appuntamento forzato d’Edmondo, coll’anima straziata, come Ernani all’appello della tromba che lo chiamava alla morte.
Camminavo contro il muro come per nascondermi, avevo il volto coperto da un velo, ero pallida e tremavo: e gli uomini mi guardavano sogghignando, ed i monelli, che mi vedevano incontrare un giovane sui bastioni deserti, giravano intorno a noi scambiandosi grida e canzoni sfacciate.
E quando rientravo nella mia casa onesta mi pareva di profanarla; quando Marco mi parlava colla sua voce schietta, chinavo gli occhi e mi sentivo indegna di lui.
Che importava che non lo tradissi? Che importava che lo amassi, e gli fossi fedele, ed odiassi addirittura il suo rivale, e non gli permettessi neppure una parola che potesse offendere mio marito? — Le apparenze erano contro di me; agivo come non avrebbe agito nessuna donna rispettabile; se Marco mi avesse sorpresa a quegli appuntamenti, o chiunque altri m’avesse sorpresa invece di lui, avrebbe avuto diritto di giudicarmi colpevole. — Da un giorno all’altro potevo scontrarmi in una signora che sapesse le mie uscite misteriose, e mi rifiutasse il saluto.
Era una situazione insopportabile. Il mio carattere se ne risentiva; rimpiangevo ardentemente la mia felicità perduta. Mi pareva d’esser punita troppo severamente delle colpe passate, e mi ribellavo contro i rigori della giustizia. Sentirmi onesta e fedele, ed esser condannata ad apparire infedele e disonesta; era un supplizio atroce; e non vedevo alcuna via per uscirne; e non ero abbastanza colpevole per avere il coraggio di quelle viltà. Ogni giorno mi sentivo più abbattuta; lottavo tra l’ansia di ricuperare fin l’ultima lettera, e lo scoraggiamento che mi spingeva ad abbandonare quella partita tremenda.
Marco doveva accorgersi che qualche cosa di terribilmente penoso accadeva dentro di me. Mi guardava fissa coll’occhio melanconico, come per dirmi:
— Perchè? Perchè non hai più fiducia in me? Perchè mi sfuggi? Perchè soffri, e mi nascondi il tuo dolore?
Ed io sentivo che lo rendevo infelice, ed ero disperata. E forse l’indomani avei dovuto tornare laggiù ai commenti dei passeggieri, agli scherni dei monelli, alle preghiere oltraggiose d’Edmondo!
Venne un giorno in cui non mi sentii più forza per quella commedia crudele. La mia salute era gravemente alterata. Soffrivo un doppio martirio del corpo e dell’anima. La vita m’era diventata una tortura; non avevo più il coraggio di sopportarla. Ero disperata; la mia testa si esaltava; — decisi di morire. Ne domando perdono a Dio; non sapevo quello che facessi; ma decisi di morire.
Combinai freddamente il mio disegno — Avevo in casa una boccetta d’arsenica che m’aveva ordinato il medico poco dopo il mio matrimonio; le mie nuove speranze materne erano sopravvenute a farmi sospendere quella cura ed il rimediò pericoloso era rimasto là, dimenticato in un armadio, col suo conta-goccie accanto. Ce n’era abbastanza per uccidermi.
Pensai sospirando con che scrupolo Marco mi contava le goccie quando pigliavo quel veleno salutare; e come si opponeva severamente a lasciarmelo amministrare da chiunque altri; e con che ansietà interrogava il medico e me stessa. Ora la mia salute non m’importava più.
— Io non conterò le goccie, — pensavo — Lo prenderò tutto d’un fiato, e che Dio mi perdoni. Avrò finito di soffrire a questo modo.
Ma poi un’idea orrenda mi balenò alla mente. Mio figlio! Avrei avvelenato mio figlio; l’avrei ucciso con me!
Oh Dio! Anche quell’amore santo di madre doveva essermi uno strazio. — No. Qualunque cosa potesse accadere, non volevo mettere a pericolo l’esistenza di mio figlio, non volevo privare suo padre di quell’ultimo amore.
— Vivrò finchè sarà nato, — dissi. — Ma non vivrò fra le menzogne e gl’inganni.
Non avevo speranza di commovere Edmondo; ero certa che la prima volta che avessi mancato di rispondere al suo richiamo imperioso, avrebbe mandate le lettere a mio marito. Era irritato dalle mie continue ripulse, dall’indifferenza con cui lo trattavo; era geloso del mio amore per Marco, non aspettava più che un’occasione per vendicarsi di tutto.
Ebbi un momento d’energia disperata.
— Non andrò più da Edmondo — pensai. Ma prima che mi denunci a mio marito, mi denuncierò da me stessa. Dacchè sono decisa a morire, voglio confessargli tutto, confessarglielo io, che posso pure dirgli qualche cosa per mitigare i miei torti ed attenuare il suo disprezzo. — Gli rammenterò com’ero sola, lontana da mia madre, da tutti i miei, e povera; e che a forza d’andare all’ufficio come gli uomini, e cogli uomini, non vedevo più la sconvenienza di trattarli con dimestichezza, non avevo più soggezione, non arrossivo più. Gli dirò che in quella posizione non avevo nessuna affezione, nessun consiglio, nessuna gioia per sfogare l’espansione della mia anima giovanile; e come fui punita, e come mi pentii. E poi gli dirò della lettera che gli avevo scritta; gli giurerò in ginocchio, davanti a Dio, che l’avevo scritta spontaneamente, per dirgli tutta la verità; e che non fu di proposito, ma per una combinazione fatale che l’ho ingannato.
Mi scaccerà egualmente, perchè la clemenza umana non basta per di certi perdoni, ed io implorerò che mi lasci vivere qui, lontana da ogni altra vergogna fintanto che gli abbia dato un figlio da amare. Poi me ne andrò a morire in qualche luogo isolato, senza contristarlo con una scena d’orrore. — Ed avrò almeno il conforto di sapere che quando penserà a me non mi accuserà d’averlo ingannato, mi giudicherà colpevole, ma non vile ed ingrata; e mi disprezzerà meno.
Sola nella mia stanza, mi esaltai tutto il giorno con quei pensieri, colla visione di quelle scene strazianti. — Stavo così male che potei evitare d’andare a pranzo; avevo pianto in modo da sfigurarmi, e poi avevo bisogno di non distrarmi dal mio proposito. Era la prima volta che non andavo a pranzo con mio marito; pensavo:
— Pranzerà in fretta, poi verrà subito a vedermi; — e lo aspettavo per fargli la mia confessione.
Avevo preparato in mente ogni parola, ogni atto. Era un discorso lungo, una serie d’accuse, di scuse e di suppliche. Ma sapevo che doveva finire con una separazione definitiva. No; non era possibile che mi lasciasse aspettare in casa sua la nascita del mio bambino, mi manderebbe dalla mamma, e non lo vedrei più. — Quando arrivavo col pensiero a quel punto, quando gli dicevo addio, ricominciavo a piangere disperatamente.
Essere uniti a quel modo, amarsi tanto, e doversi separare!
VII.
Ero appunto in una convulsione di pianto, quando Marco aperse l’uscio. Singhiozzavo tanto, che non l’avevo udito venire. Non lo aspettavo così presto. M’ero figurata che pranzerebbe prima; ma non aveva pranzato; appena gli avevano detto che stavo troppo male per andare a tavola, era corso a vedermi.
— Maria! — esclamò sorpreso di trovarmi a quel modo.
Tutto il mio discorso mi sfuggì dalla mente come se ogni parola avesse poste le ali. — Capii alla prima che non potrei mai fare una confessione solenne, a periodi ordinati, come l’avevo immaginata. La realtà è tanto diversa dall’immaginazione. Tutte le esclamazioni enfatiche, le scene pittoresche dei drammi sono s ogni da poeti. Nella vita reale le cose accadono in tutt’altro modo.
Però, anche rinunciando alla speranza di fare un bel discorso, mi rimase il proposito di confessare ad ogni modo, di uscire da quella ignobile pastoia d’inganni.
— Oh Marco! — singhiozzai. — Senti, ho una cosa da dirti.
— Di’ su, cara. — Cosa vuoi? — Mi rispose dolcemente.
— È una cosa enorme, vergognosa — balbettai esitando e coprendomi il volto col fazzoletto.
Non rispose, ma mi prese una mano come per farmi coraggio. Io mi lasciai scivolare pian piano dalla poltrona, e rimasi in ginocchio dinnanzi a lui che mi si era seduto accanto. Ma fu tutt’altro che la genuflessione drammatica che avevo progettata; feci quell’atto senza slancio, come per vezzo; poi nascosi il volto sulle sue ginocchia, e gli dissi:
— Lascia che te lo dica così; se ti guardassi non oserei.
Sentii le sue mani posarsi su’ miei capelli, e pensai:
— Ecco l’ultima carezza che mi fa. Fra un momento ritirerà le mani con ribrezzo e mi respingerà. — E tutto il mio coraggio svanì, e tornai a dire:
— Senti, Marco.... — ed intanto pensavo quale piccola mancanza potessi inventare per giustificare quella scena senza dirgli la verità.
— E così? — disse Marco. — Cosa debbo sentire? — Via di’; ti faccio paura? — Poi soggiunse in tuono di scherzo:
— Hai ammazzato qualcuno?
Quella parola mi richiamò vivissimo il mio proposito di suicidarmi; l’orrore d’aver compreso in quel progetto orrendo la vita di mio figlio; e le lettere; le lettere disgraziate che mi avevano condotta a quel punto. — Mi tornò al pensiero la scena di vergogna, tante volte temuta, di vedere quelle lettere, in cui sfogando i miei rimorsi avevo ripetutamente affermata la mia colpa, lette ad una ad una da Marco; e di udirlo dirmi:
— Perchè m’hai ingannato?
No; non potevo, non volevo ingannarlo più.
— Senti Marco, — ripresi con uno sforzo sovrumano — una volta, prima che tu m’avessi mai parlato — sai — quand’ero tanto sola — e tanto triste....
Esitai un momento. La mia voce tremava, ed il cuore mi batteva forte forte, ed avevo un fischio negli orecchi come quando s’ha preso troppo chinino; non avevo la forza di proseguire; avrei voluto che m’incoraggiasse. — Egli mi disse soltanto:
— Ebbene? Quand’eri tanto triste?...
Io pensai di dire alla prima il peggio, d’impegnarmi in modo da non poter più retrocedere, e misi avanti il nome:
— Edmondo — sai, — Edmondo Soldani....
Sentii la mano di Marco passarmi sotto il mento, poi chiudermi la bocca; poi, accanto all’orecchio, la sua voce, quel dolce suono d’amore, mi susurrò:
— Stai zitta, bimba. Io so tutto.
Fu tale lo sbalordimento a quelle parole, che dimenticai la vergogna e alzai il capo per guardarlo in viso. Poi all’incontrare il suo sguardo buono, sentii la vampa del rossore salirmi alla fronte, chinai di nuovo la testa avvilita e scoppiai in un pianto dirotto.
Egli lasciò che mi sfogassi un poco, poi mi disse:
— Via, Maria; calmati. Vedi pure che non sono un giudice tanto terribile....
— Oh ma tu non sai.... singhiozzai senza guardarlo....
— Io so tutto, t’ho detto. — Non ti ricordi che me l’hai scritto tu?
— Ah! tu hai ricevuta quella lettera? — gridai.
— Ma sì, non me l’avevi mandata tu stessa?
— Credevo che non ti fosse giunta.
— Sì, mi è giunta la vigilia delle nozze.
— Ma perchè non m’hai detto nulla?
Egli mi rialzò abbracciandomi; mi fece sedere sulle sue ginocchia, e carezzandomi amorevolmente la fronte ed i capelli, riprese con un accento di clemenza che mi spezzava il cuore:
— Perchè sapevo già tutto, anche prima che tu mi scrivessi quella lettera. Perchè t’avevo domandata in moglie, appunto per toglierti dalla falsa posizione in cui t’avevano posta. Perchè ti compiangevo e ti perdonavo. Perchè in gran parte la colpa non era tua; eri troppo giovane per allontanarti dalla mamma, per viver sola, per saperti condurre da te stessa nelle difficoltà della vita. La gioventù ha bisogno di guida. L’amore è un sentimento naturale, un istinto. Posta nell’occasione è certo che se non oggi, domani, una fanciulla s’innamora. Se è sola, libera, se non ha accanto una tutela che la trattenga a tempo, la passione la domina. Negli animi gentili, il pudore stesso può essere una tutela sufficiente. Ma quando una ragazza s’è avvezza a trattare gli uomini come compagni d’ufficio, a non arrossire dinanzi a loro, il primo pudore istintivo è già vinto, — e la caduta è più facile.
Io l’ascoltavo con raccoglimento, e mi ripetevo nel cuore ogni sua parola. — Era lui che mi scusava come avrei voluto scusarmi io stessa se avessi potuto parlare. Come faceva a leggere così nel mio cuore? — Era superiore in tutto. Chissà? Forse avrebbe avuta la clemenza di perdonarmi anche dopo la confessione che stavo per fargli. Dio perdona le più gravi colpe, ed egli era buono e grande come un Dio.
— Ed ora cosa debbo fare, Marco? — gli domandai timidamente.
— Cosa devi fare? — Ma nulla. Devi continuare ad essere una brava donnina, onesta, come sei stata sempre dacchè mi hai sposato....
— Ma io non sono una brava donnina, non sono onesta! — esclamai con uno slancio di lealtà, non potendo tollerare quegli elogi immeritati.
Con un moto istintivo mi allontanò da sè e si rizzò in piedi. Io pure ero rimasta in piedi a capo chino, e piangente. Ma egli riprese subito la sua calma da uomo giusto. Venne a fermarsi dinanzi a me e mi disse:
— Via, spiegati. Alza il volto e guardami.
Io obbedii e fissai timidamente ne’ suoi, i miei occhi pieni di lagrime. Marco riprese guardandomi fin nell’anima:
— È vero che la madre di mio figlio non è una moglie onesta? È vero, Maria?
— No, no, no, non è vero! — urlai con un grido disperato, un vero grido di madre.
— Allora siedi qui; calmati e parla.
E, sedendo egli stesso, mi additò una poltrona accanto a lui; era serio, ma senza rigore.
Io gli dissi tutto. Il ritorno d’Edmondo, le sue lettere, il supplizio degli appuntamenti, fino a quel giorno in cui non avevo più avuto il coraggio di sopportare quella tortura, e nella mia stessa debolezza avevo attinta la forza di confessarmi a lui, e di morire.
— Quando dovresti andare? — mi domandò con voce addolorata.
— Domani — susurrai.
— Domani manderà le lettere a me. Le bruceremo senza aprirle, e non ne parleremo mai più.
— E non mi manderai via? — dissi non potendo credere a tanta gioia.
— Perchè dovrei mandarti via, poverina? — Perchè tu dovessi ancora appigliarti ad un impiego insufficiente a farti vivere, ed essere trascinata dalle circostanze e dal bisogno a transigere col tuo decoro?
— È soltanto per non espormi a quel pericolo che non mi scacci? — domandai sentendo gelarmi il cuore al pensiero che di tutto il suo bell’amore non mi fosse rimasta che un po’ di compassione.
— È perchè ti voglio bene, e ti perdono; — mi disse abbracciandomi.
E d’allora la pace è tornata nel mio cuore e nella mia casa.
Ma ogni volta che sento declamare sull’emancipazione della donna, sulla produzione sociale a cui ha diritto, deploro queste novità pericolose, che rendono le giovinette indipendenti, e le allontanano dal loro ambiente naturale, che è la famiglia. — Vorrei che gli impieghi pubblici accordati alle donne, fossero dati esclusivamente alle vedove o alle giovani mature, e che avessero un compenso sufficiente, per farle vivere senza stenti; perchè la miseria è una triste consigliera. — Vorrei che le questioni sociali non facessero perder di vista le questioni morali. — Ora che ho fatto una prova dolorosa, e che sono madre anch’io, penso come la mia povera mamma:
— Meglio trecento lire soltanto, ma vivere in famiglia, e lavorare in una scuola ad educare dei bimbi con fatica materna e moralizzatrice, che guadagnare tre volte tanto, sole, giovani, ed inesperte, facendo l’impiegato lontano dai nostri protettori naturali.
- ↑ Questo racconto è scritto da più anni. D’allora i regolamenti hanno subite molte modificazioni, e gl’inconvenienti che io deploravo furono in gran parte rimediati.
l'autrice.