La cartella n. 4/Riccardo Cuor di Leone
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RICCARDO CUOR DI LEONE.
Io però della poesia amavo sopra tutto quella epica, e la mia ambizione era d’essere un eroe. Tutte le manifestazioni della forza fisica mi entusiasmavano.
Da piccino m’ero fatto un idolo di Davide per il suo duello con Golia; e poi, a poco a poco, a quell’idolo troppo piccolo se n’era sostituito nell’animo mio uno colossale: Sansone, che atterrava un intero esercito colla mascella d’un asino. A dir vero non mi riesciva d’immaginarmi esattamente che cosa fosse quella mascella; se era l’osso della mandibola, oppure la parte carnosa che lo copre. Ma ad ogni modo era sorprendente che con quell’arma disadatta e difficile a maneggiare, Sansone avesse operato quei portenti di valore.
Col tempo però divenni infedele anche a Sansone; vennero gli eroi d’Omero, Orlando, poi tutti i cavalieri del medio evo, ed i guerrieri moderni, ed i miei idoli si chiamarono legione.
Tutti i miei sogni erano sogni di gloria.
Essere al campo, udire un generale parlare d’un dispaccio importante, d’una missione perigliosa, d’un’esplorazione nel campo nemico e farmi innanzi calmo ed ardito:
— La farò io!
E poi partire solo, di notte; essere assalito, combattere e salvare le carte affidate a me, a costo d’ingoiarle; vincere o morire.
Ma il morire era l’ipotesi meno frequente delle mie epopee immaginarie. Tornavo sempre glorioso. Avevo ucciso una quantità di nemici, avevo disperso un intero drappello, avevo salvata la vita a qualche gran personaggio.
Ogni domenica la mamma veniva a vedermi con mia sorella; sedevo accanto a loro e facevamo lunghe conversazioni. La mamma s’informava de’ miei studi; la Margherita mi domandava se avevo scritto dei versi, e voleva vederli. Ma io passavo di volo sugli studi e sulla poesia. Le mie facoltà intellettuali mi portavano alla letteratura, ma i miei gusti bellicosi mi facevano disprezzare quella gloria incruenta.
Parlando con quelli della mia famiglia, gli argomenti più graditi per me erano la mia forza muscolare, la mia agilità nella ginnastica, la mia precisione nel tiro al bersaglio, la mia abilità nella scherma.
La mamma era contrariata ed un po’ sgomenta; la Margherita sbadigliava e guardava i vestiti delle sorelle e delle mamme degli altri allievi.
Ma io mi ascoltavo, mi esaltavo colle mie stesse parole, mi spronavo, m’infiammavo.
Non c’era pericolo che non fossi pronto a sfidare, e che non mi sembrasse una bazzecola.
Si narrava d’un incendio in cui qualcuno era perito?
— Se ci fossi stato io! Avrei traversate le fiamme; no il fumo non mi avrebbe soffocato. Io so stare sott’acqua venti secondi; sarei stato altrettanto nel fumo. E se si fosse rotta la trave sotto i miei piedi, avrei spiccato un salto, mi sarei aggrappato ad un cornicione, ad un chiodo, alla sporgenza più tenue; ma nessuno sarebbe perito se ci fossi stato io.
Un monte di spavalderie; il mio coraggio immaginario non indietreggiava davanti a nulla. Nessuno aveva mai compiuto le prodezze che io mi sentivo capace di compiere.
— Dà retta, Riccardo. Non essere tanto vanitoso, — mi diceva la mamma. — Bada che altro è parlar di morte altro è morire.
E mia sorella rideva, e mi ripeteva il nomignolo che m’avevano affibbiato i compagni di collegio: Riccardo Cuor-di-leone.
Ma io non me ne offendevo:
— Che ne sapete voi altre donne?
Nutrivo un profondo disprezzo pel sesso debole. Ma un bel giorno il sesso debole si vendicò crudelmente: m’innamorai.
Ecco come andò la cosa: ci mettevamo sempre in parlatorio sul piccolo divano a destra dell’uscio. Una domenica vennero a sedere accanto a noi il babbo d’un mio compagno colla figliola, una giovinetta bionda, bellezza in erba, dicevo io; sebbene la Margherita, colla impertinenza de’ suoi quindici anni, protestasse che l’erba aveva avuto tempo di metter le spighe, perchè aveva ventidue anni. Ma questa doveva essere una maldicenza atroce.
Per solito non mi curavo punto di essere o di parere elegante vestendomi; quanto comandava rigorosamente la disciplina, e nulla più.
Ma quella domenica memorabile, traversando il parlatorio dopo la visita, mi alzai un pochino sulla punta dei piedi per vedermi quanto meglio era possibile nello specchio appeso al muro, che riflettè la mia faccia scolorita attraverso la mussolina bianca che lo salvava dalle mosche.
E la domenica seguente, quando scesi in sala, avevo pettinato con grandissima cura i miei capelli ispidi, ed avevo versata mezza boccetta d’acqua di Felsina nella catinella prima di lavarmi. Olezzavo come un barbiere. Avevo le unghie un po’ lunghette; le avevo lasciate crescere tutta la settimana e quella mattina le avevo arrotondate e limate amorosamente; e durante la visita avevo sempre tenute le mani distese sulle ginocchia ammirandone l’eleganza insolita.
Questo fu il primo indizio. Il secondo fu una preferenza tutta nuova per le imprese galanti; eroiche sempre ma galanti.
Intanto continuavo a vedere la Fulvia ogni domenica. Quando la vedevo entrare in parlatorio, alta un buon palmo più di me, coi capelli ondulati e biondi come i capelli d’una madonna, intorno ad un viso arguto come quello di certe attrici francesi, colla bocca un po’ grande che sorrideva sempre mostrando dei denti un po’ grossi ma bianchissimi, tutti i miei nervi trasalivano.
Doveva passare davanti a noi per andare al suo solito posto, ed io mi rizzavo stecchito come se dovessi cominciare l’esercizio, e facevo il saluto militare.
E lei era d’una gentilezza! Mi fissava in volto quei suoi grandi occhioni grigi in cui brillava un raggio di malizia, e sorrideva.
La udivo parlare con suo fratello. Che note vibravano nella sua voce! Era la melodia più soave che avessi ascoltata mai. C’erano dunque uomini a questo mondo che si sentivano dire ti amo, da una voce come quella? Mi pareva che tutto il sangue mi affluisse sul volto, ed abbassavo il capo per nascondere quella debolezza. Ma la Margherita mi gridava con fraterna sincerità:
— Che orrore! Come sei diventato rosso! Sembri una barbabietola.
Alle volte pensavo con isgomento a’ suoi ventidue anni ed a’ miei poveri tre lustri, e mi pareva di essere il Furio del De Amicis. Ma io non avevo quegli abiti così curiosamente corti e stretti. La mia uniforme mi stava bene.
Furio era matto ad innamorarsi d’una donna di trent’anni, che avrebbe potuto essere sua madre, ed era sua cognata, ed aveva marito. — Questa era giovane; senza dubbio la Margherita esagerava la sua età; non poteva avere più di dicianove anni, ed io era forte e robusto, dimostravo due anni almeno più di quelli che avevo. Chiunque me ne avrebbe dati diciasette; la differenza si riduceva dunque a due anni; a nulla.
Avrei dato l’anima mia per poterle dire quanto l’amavo; ma non le ero stato presentato, non ci conoscevamo. Dovevo contentarmi di guardarla, di divorarla cogli occhi. Tutta la settimana rivedevo la sua manina; mi pareva di spogliarla del guanto che le dava una rigidezza e una levigatura gelida; di sentirla tepida, e liscia; di baciarla; di coprirmene il volto, per susurrarci dentro la mia confessione appassionata, per nasconderci le mie lagrime. Sospiravo un’occasione per poterle parlare, per fare qualche cosa per lei.
Mi figuravo di scontrarla durante la vacanze in una gita a cavallo, e che il suo puledro bisbetico si impennasse minacciosamente sopra una strada ripida all’orlo d’un precipizio; ed io la vedessi sul punto d’essere rovesciata, e sfracellata giù sui sassi del burrone; e mi avventassi per salvarla; e fossi atterrato dal cavallo, pesto, ucciso; ma ancora morendo, tenessi fermo il puledro pel morso finchè lei fosse salva, e spirassi sentendomi mormorare sulle labbra un «grazie» nella dolcezza d’un bacio.
C’era una ballata di Schiller che mi appassionava; la bella ballata intitolata Il guanto.
Descrive un circo. Un leone, una tigre e due pardi, ruggono affamati nell’arena. Ad un tratto la bella Cunegonda lascia cadere dalla loggia un guanto, e dice al cavalier Dalorgia:
— Se è vero che mi amate, andate a raccoglierlo.
Ed il cavaliere scende ardimentoso tra le fiere inferocite, prende il guanto, risale fra il plauso e lo stupore della folla. Ma fattosi incontro alla nobile donzella che gli sorrideva, orgogliosa di quella impresa compiuta per amor suo, invece d’inginocchiarsi a’ suoi piedi implorando il premio del suo coraggio, le getta sdegnosamente in faccia il piccolo guanto ricamato, e le dice:
— Io non voglio nulla da voi. — E l’abbandona per sempre.
Avevo tradotta quella ballata, e l’avevo studiata a memoria in tedesco. I miei compagni ammiravano la mia traduzione, ed indovinavano a chi la dedicavo. Io del resto non ero molto circospetto. Sentivo il bisogno di manifestare la mia indignazione contro il cavalier Dalorgia, e di dichiarare che nel caso suo avrei operato meglio di lui.
Invocavo tutte le belve del giardino zoologico. Avrei voluto vederne gremita l’arena di Milano, udirne i ruggiti minacciosi. E se una fanciulla che amavo ci avesse gettato il suo guanto, sarei corso in mezzo ad esse, e chinando il capo tra le fauci del leone, sotto l’occhio iniettato di sangue della iena, avrei raccolto l’oggetto prezioso. Non mi sarebbe neppure dispiaciuto una buona morsicatura, purchè in un punto che non mi sfigurasse, per poterle mostrare che versavo il mio sangue per lei. Mi pareva di sentirmi sul collo l’alito ardente delle fiere, di udirne l’ansimare affannoso e rauco. Io non l’avrei disprezzata per quella sfida la bella fanciulla. Me ne avesse procurate delle imprese per dimostrarle la mia audacia! Non era per nulla che mi chiamavano Riccardo Cuor-di-leone.
Ma intanto le settimane passavano; io continuavo a vedere la Fulvia in parlatorio ad ogni visita, ad arrossire, a tremare, a sudar freddo, ed anche caldo, perchè ormai s’era nel maggio; — e non era mai capitata la menoma occasione di fare prova del mio coraggio esponendo la vita per lei.
La seconda domenica del mese, il signor Malinverni giunse solo in parlatorio per vedere suo figlio. La Fulvia non era con lui.
Tutto il tempo della visita fui inquieto e distratto. Non udivo che cosa mi dicesse la mamma; mi voltavo ogni volta che s’apriva l’uscio; ero sulle spine. Che fosse già andata in campagna? E non avessi a vederla per tutto l’anno;.... e forse mai più! Suo fratello era maggiore di me; l’anno seguente doveva entrare all’Accademia.
Quella settimana passò lunga e triste. Alla ricreazione m’accostavo al Malinverni per domandargli di sua sorella. Ma poi il nome non voleva uscire dalle labbra. Mi si metteva in gola come il torsolo del pomo d’Adamo e non c’era verso di tirarlo fuori. Mi strozzava. Con tanto ardimento che avevo nel cuore non osavo parlare. Ci volevano fatti per me, non parole. Oh, un’occasione! Chi mi faceva nascere un’occasione per far vedere che non ero timido, che non esitavo, che nelle circostanze ero forte ed audace come il mio amore!
La domenica seguente la Fulvia mancò ancora. Non esitai più. La sera stessa nel cortile, mi accostai al Malinverni e gli dissi risolutamente:
— Senti...
— Che cosa? — mi domandò.
— Senti.... volevo dirti....
— Che cosa, via! Sbrigati!
— Che fra due settimane ci sarà la distribuzione delle cifre reali.
Mi asciugai la fronte bagnata di sudore. Sempre il torsolo del pomo d’Adamo. M’era rimasto in gola.
Ed intanto la sua lontananza, la paura di non rivederla più, m’infiammavano sempre maggiormente. Tremavo di me stesso, della mia passione calda e pazza. Chi poteva dire a che eccessi di audacia mi avrebbe portato? Mi sentivo il coraggio di rapirla; temevo di non sapermi frenare, di slanciarmele incontro cieco, fremente d’amore, e di stringerla al cuore alla presenza di tutti.
La distribuzione delle cifre reali fu fissata per l’ultima domenica di maggio. Tutti i parenti furonvi invitati; doveva essere una festa solenne.
Oh se la Fulvia fosse venuta! Io non avrei avuto ai fianchi come le altre domeniche la mamma e la Margherita; e dal mio posto in mezzo ai compagni avrei potuto contemplare la mia bella fanciulla, mentre lei mi avrebbe guardato co’ suoi grandi occhi chiari. Mi guardava sempre, e mi sorrideva. Oh mio Dio, mio Dio! che cosa sarebbe accaduto? Mi sentivo delle audacie, delle audacie!...
E quel giorno venne senza ch’io l’avessi più riveduta al parlatorio. Quando scesi nel cortile per la cerimonia, ero in uno stato d’esaltazione da non si dire. Se non veniva, era finita; non l’avrei forse veduta più. Era necessario che quel giorno la Fulvia venisse, e che quel giorno sapesse che l’amavo. Avevo passata la mattina a scriverle in ottava rima, le angoscie e le smanie del mio cuore innamorato. Bisognava che ad ogni modo le dessi quel biglietto, anche a costo di far nascere uno scandolo. Che m’importava di suo padre, de’ miei parenti, di tutto il mondo? Io lo sfidavo il mondo nella foga del mio amore.
Eravamo tutti schierati. Il generale con un seguito di ufficiali superiori ci passava in rivista. Gli invitati venivano a gruppi; le signore cogli ombrellini aperti, cogli abiti lunghi lunghi, che i signori pestavano un pochino per poi salutarle fino a terra nel dire pardon. Pigliavano i posti con un gran bisbiglio, poi li mutavano per star più comode, e movevano le sedie, e le facevano cadere, e salutavano le nuove venute da lontano, poi volevano avvicinarle, si scambiavano dei segni, s’alzavano in piedi un’altra volta, e ricominciavano ad andare e venire, e conversare.
In quella confusione, per quanto guardassi, non potevo vedere se c’era la Fulvia. Avevo anche il sole che proprio mi dava negli occhi.
Ad un tratto risonò un rullo di tamburo prolungato, s’intonò la musica. Cominciava la distribuzione delle cifre reali. Dovevo essere uno dei primi chiamati.
Quando udii il mio nome uscii fuori. La cifra da darsi a me era stata portata alla mamma. Mi feci innanzi, umile in tanta gloria... Dio degli innamorati! Accanto alla mamma c’era il signor Malinverni, ed accanto a lui la Fulvia, come in parlatorio. Un momento fui sul punto di correre a lei, di gettarmi a’ suoi piedi. Ma la mamma era là colle mani stese per darmi la cifra; tutti gli occhi erano su di me; dovetti frenare il mio ardore, e stare ad ascoltare quanto mi diceva la mamma, ed accogliere i complimenti di una quantità di cugini che aveva condotti con sè.
Ma in realtà non ascoltavo nulla. Guardavo la Fulvia, più bella che mai, con un vestito bianco leggero; mettevo tutta l’anima negli occhi, e fissavo i suoi, che mi fissavano anch’essi, e mi sorridevano...
Se il cavallo del generale, in un accesso di pazzia, avesse preso la fuga precipitandosi contro di lei! Mi sarei gettato innanzi a farle scudo del mio corpo, l’avrei sollevata fra le mie braccia, con tutta l’audacia del mio amore e de’ miei quindici anni!
«Oh!» — non era il cavallo. Era la Fulvia che facendo per vezzo il mulinello col fazzoletto di trina, mentre mi guardava sorridendo, se l’era lasciato sfuggire di mano.
Era venuto a cadere a due passi da me, e lei continuava a sorridere come per invitarmi a raccoglierlo. Dio, che momento!...
Il cuore si pose a sussultarmi con tanta violenza nel petto, come se volesse uscirmi dalla bocca. Volli spingermi innanzi, precipitarmi. Ma il movimento non mi riusciva. Era come il torsolo del pomo d’Adamo che restava in gola. Rimanevo là inchiodato, guardando con ansia quel piccolo disco di trina.
Oh! se ci fosse stato soltanto un leone, un piccolo leoncino... Ma in quel circo di belle signore che mi guardavano bisbigliando fra loro, che nascondevano dietro il ventaglio il sorriso ironico delle loro labbra, ed intanto ridevano colla fronte, cogli occhi, con tutta la persona... oh! meglio tutti i ruggiti della fossa di Daniele che quel chiacchierio sommesso e pungente, come il sibilo d’un branco di serpi.
Ed intanto la Fulvia continuava ad invitarmi collo sguardo, e dietro a me i miei compagni urtandosi col gomito susurravano troppo forte:
— Riccardo Cuor-di-leone.
Presi una risoluzione eroica; mi spiccai dal mio posto; mi feci innanzi arditamente contro il fazzoletto... ma nel momento di curvarmi a raccoglierlo sotto il fuoco di tanti sguardi, il cuore mi mancò; — gli diedi una lunga occhiata, un sospiro, — poi mi scansai per non calpestarlo, e tornai al mio posto fra i compagni, che mi accolsero con una salva di fischiate.