La Teseide/Libro duodecimo

Libro duodecimo

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Libro undecimo Sonetto alle Muse
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LA TESEIDE

LIBRO DUODECIMO




ARGOMENTO


In questo duodecimo libello
     Disegna primamente l’autore
     Come e perchè si lasciasse il dolore
     Da tutti avuto del morto donzello:
Quindi l’aspetto grazïoso e bello
     D’Emilïa disegna, e con onore
     La fa sposare al tebano amadore,
     Chiamato prima Imeneo nel sacello:
Poi le sue nozze magnifiche pone;
     Ed il partir de’ regi dimostrato,
     Quasi per modo di conclusïone,
Debito fine fa al suo sermone,
     Dicendo, sè nel porto disiato
     Esser con venti diversi arrivato.


1


Quanto fosse crudele ed aspra vita
     Quella d’Emilia mentre queste cose
     Lì si facieno in onore d’Arcita,
     Coloro il pensin che sì dolorose
     Cose sentiro; ma essa vestita
     Di nero colle guance lagrimose,
     Senza prender volere alcun conforto,
     Solo piangeva il suo Arcita morto.

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2


E del bel viso il vermiglio colore
     S’era fuggito, ed era divenuta
     Palida e magra, ed il chiaro splendore
     Delle sue luci non avie paruta;
     E sì poteva in lei il fier dolore,
     Che stata appena sarie conosciuta:
     Per suo conforto notte e dì chiamando
     Arcita suo, piangendo e lagrimando.

3


Ma poichè furon più giorni passati
     Dopo lo sventurato avvenimento,
     Con Teseo essendo gli Greci adunati,
     Parve di general consentimento
     Ch’e’ tristi pianti omai fosser lasciati,
     Ed il voler d’Arcita a compimento
     Fosse mandato, ciò è che l’amata
     Emilia fosse a Palemon sposata.

4


Perchè Teseo chiamato Palemone
     Con molti di que’ re accompagnato,
     Non sappiend’esso però la cagione,
     Di ner vestito, e così tribolato
     Com’era, lui seguì ’n quella stagione;
     Ed esso con quanti eran se n’è entrato
     Dove con molte donne si sedea
     Emilïa, la quale ancor piangea.

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5


Quivi poichè ognun tacitamente
     Si fu posto a seder, Teseo stette
     Per lungo spazio senza dir nïente:
     Ma già vedendo di tututti erette
     L’orecchie pure a lui umilemente,
     Dentro tenendo le lagrime strette
     Ch’agli occhi per pietà volean venire,
     Così parlando incominciò a dire:

6


Così come nessun che mai non visse
     Non morì mai, così si può vedere
     Che alcun non visse mai che non morisse:
     E noi ch’ora viviam, quando piacere
     Sarà di quel che ’l mondo circonscrisse,
     Perciò morremo: adunque sostenere
     Il piacer degl’iddii lieti dobbiamo,
     Poi ch’ad essi resister non possiamo.

7


Le querce ch’han sì lungo nutrimento,
     E tanta vita quanta noi vedemo,
     Hanno pure alcun tempo finimento:
     Le dure pietre ancor che noi calchemo,
     Per accidenti varii, mancamento
     Ancora avere aperto lo sapemo;
     Ed i fiumi perenni esser seccati
     Veggiamo, e altri nuovi esserne nati.

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8


Degli uomini non cal di dir, che assai
     È manifesto a quel che la natura
     Gli tira, ed ha tirati sempre mai:
     De’ due termini all’uno, o ad oscura
     Vecchiezza piena d’infiniti guai,
     E questa poi da morte più sicura
     È terminata, ovver a morte essendo
     Giovani ancora, e più lieti vivendo.

9


E certo io credo che allora migliore
     La morte sia quando di viver giova:
     Il luogo e ’l dove l’uomo ch’ha valore
     Non dee curar, che dovunque e’ si trova
     Fama gli serba il suo debito onore:
     E ’l corpo che riman, null’altra prova
     Fa in un loco che in un altro morto;
     Nè l’alma n’ha più pena o men diporto.

10


Del modo i’ dico ancora il simigliante,
     Che come che alcuno anneghi in mare,
     O alcun si mora in sul suo letto stante,
     O alcun per lo suo sangue riversare
     Nelle battaglie, o in qual vuol di quante
     Maniere uom può morir, pure arrivare
     Ad Acheronte a ciaschedun conviene,
     Muoia come si vuole o male o bene.

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11


E però far della necessitate
     Virtù quando bisogna è sapïenza,
     Ed il contrario è chiara vanitate,
     E più in quel che n’ha esperïenza
     Che in quel che mai non l’ha ancor provate.
     E certo questa mia vera sentenza
     Può luogo aver tra noi, i qua’ dolenti
     Viviam di cose sempre contingenti:

12


Anzi più tosto necessarie in tutto:
     Cioè d’alcuno la morte; il cui valore
     Fu tanto e tale che grazioso frutto
     Di fama si ha lasciato dietro al fiore:
     Il che, se ben pensassimo, al postutto
     Lasciar dovremmo il misero dolore,
     Ed intendere a vita valorosa
     Che ci acquistasse fama glorïosa.

13


Ver’è che il voler dentro servare
     In cota’ punti la tristizia e ’l pianto
     Appena par che si possa ben fare;
     Onde conceder pur si dee alquanto:
     Ma dopo quel si dee poscia ristare:
     Chè il voler soprabbondare, in tanto
     Può nuocere a chi ’l fa, ed è follia,
     Nè saria però quel ch’uom disia.

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14


E certo se giammai fu lagrimato
     In Grecia nessun uomo valoroso,
     Si è debitamente Arcita stato
     Da molti re e popolo copioso,
     E con onor magnifico onorato
     È stato ancora al suo rogo pomposo,
     E ben soluto gli è ogni dovere
     Che morto corpo dee potere avere.

15


Ed ancora, siccome noi veggiamo,
     Durato è ’l pianto più giorni in Atene;
     E ciascheduno ancora abito gramo
     Portato n’ha, qual a ciò si convene:
     E noi massimamente che qui siamo,
     Da cui agli altri prender s’appartiene
     Esemplo in ciascun atto e seguitare,
     Massimamente nel bene operare.

16


Dunque da poi che parimente e’ more
     Ciò che ci nasce, e sia pur chi si voglia,
     Ed è fatto per noi ’l debito onore
     A colui per lo quale ora abbiam doglia;
     Estimo, per ragion, che sia il migliore
     Se quest’abito oscur da noi si spoglia,
     E lascisi il dolor, ch’è femminile
     Atto più tosto che non è virile.

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17


Se io credessi che riaver per pianti
     Arcita si potesse, i’ dicerei
     Che dovessimo pianger tutti quanti,
     E caramente ve ne pregherei:
     Ma non varria: però da mo in avanti
     Ciascun festeggi, e ’l piangere e l’omei
     Si lasci star, se piacer mi volete,
     Che ’n questo tanto pur far lo dovete.

18


E oltre a ciò, quel ch’esso ultimamente
     Pregò, si pensi mettere ad effetto;
     Perocchè Foroneo, che primamente
     Ne donò leggi, disse che il detto
     Estremo di ciascun solennemente
     Doveva, con ragione, esser perfetto:
     Ed el pregò ch’Emilia fosse data
     A Palemon che l’avea tanto amata.

19


Però deposte queste nere veste,
     Ed il pianto lasciato ed il dolore,
     Comincerem le liete e care feste;
     E prima che si parta alcun signore,
     De’ duo già detti nozze manifeste
     Celebrerem con debito splendore;
     Disponetevi adunque, i’ ve ne priego,
     E quel ch’io vo’ facciate senza niego.

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20


Poscia che Teseo tacque, confermate
     Fur le parole sue per molti allora,
     E con più detti allor fortificate;
     Ma Palemon pur tacito dimora,
     E fortemente gli sarebber grate,
     Se pubblica vergogna che l’accora
     Non contrastasse: e dopo molto stare
     Disse così, veggendosi aspettare:

21


Caro signor, da me più degnamente
     Che la mia vita amato, manifesto
     Conosco vero il vostro dir presente,
     E possibile ancor con tutto questo;
     Benchè sia assai rado contingente
     Poter cacciar dal cor caso molesto
     Con allegrezza: e però questo fia
     Quando a Dio piacerà, che n’ha balía.

22


Ma in quanto voi dite che ad effetto
     Volete vada quel che fu lasciato
     Da Arcita nel suo ultimo detto,
     Così vi dico, che se postergato
     Fosse il dover da me, ed il diletto
     Proposto, già ve ne averei pregato;
     Perocchè al mondo non fu cosa mai
     Che io amassi cotanto od assai.

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23


Ma questo cessi Iddio, che se m’è tolta
     Felicità, che almeno in me ragione,
     Più che ’l voler, non possa alcuna volta:
     E benchè in me tra lor sie gran quistione,
     Che ’l dover vinca i’ ho speranza molta:
     Il che se avvien, per lieta possessione
     Il guarderò, mentre gl’iddii vorranno,
     E sosterrò leggieri ogni altro affanno.

24


Io son di tante infamie solo erede
     De’ primi miei rimaso, che s’io posso
     Questa, la quale assai grande si vede,
     Io non mi vo’ coll’altre porre addosso.
     La donna è bella, e credo che si crede
     Che infin qui nel reame molosso
     Simile a lei non sia: ben troverete
     A cui vie me’ che a me dar la potrete.

25


E siccome gl’iddii testimonianza,
     Che sol conoscon degli uomini i cuori,
     Render porrien senza alcuna fallanza,
     Ch’e’ non fur mai tra due ferventi amori
     O per istretto sangue o per usanza,
     Ched e’ non fosser per certo minori
     Che quel che io ho portato ad Arcita,
     Poscia ch’i’ nacqui in questa trista vita.

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26


E se alcuno forse oppor volesse
     A questa verità, ver me dicendo,
     Se fosse vero ch’io amato l’avesse,
     Non l’avrei incitato combattendo;
     Risponderei che quella mi movesse
     A tal follia, che sempre ita è accendendo
     De’ nostri primi i cuori; ond’io saraggio
     Sempre mai tristo, ch’io ci viveraggio.

27


Perchè se io Emilïa pigliassi,
     Altro non fora che questo negare:
     Nè per segno maggior ch’io disiassi
     La morte sua, potrei altrui mostrare;
     La qual quanto mi doglia credo sassi
     Per tutti voi: non voglio adunque fare
     Cosa che il contrario se ne veggia,
     Nè di ciò prego ch’alcun mi richeggia

28


Se Arcita morendo questo disse,
     Volle ver me usar sua cortesia,
     Nè perciò legge a me in ciò prescrisse
     Che s’io non la volessi fosse mia:
     Ben mi credo che s’io vi consentisse,
     Per cortesia renderei villania:
     E però intendo che mentre ad altrui
     Che a me non si dà, sia pur di lui.

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29


E questo detto, gli occhi lagrimosi
     Basso in terra: al qual disse Teseo:
     I tristi pianti e i sospiri angosciosi,
     Già molto sconfortati da Egeo,
     Tutti ci fenno certi de’ pietosi
     Affetti, gli qua’ tu verso Penteo
     Portasti: nè potresti, per dolerti
     Mentre vivessi, noi farne più certi.

30


Nè fia, facendo ciò che diciavamo,
     Infamia alcuna, nè lieto mostrarsi
     Dell’altrui morte, poi che noi vogliamo;
     Nè sarà da ragion questo allungarsi;
     Perocchè simil tutto dì veggiamo
     Dell’un fratel la sposa all’altro darsi,
     Se morte quel previen, nè ch’ei contento
     Del morto sia è però argomento.

31


Qui si può dir che tutta Grecia sia
     Negli suoi regi, davanti alli quali
     Tal matrimonio per mia voglia fia
     Mandato a compimento; e ci son tali
     Che sè ’n ciò si dicesse villania
     Di te in alcun luogo, o altri mali,
     Siccome consapevoli, saranno
     Per te per tutto, e sì ti scuseranno.

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32


Pon dunque giù lo stolto immaginare,
     E segui il mio voler, che so ti piace;
     E vogli innanzi, mentre vivi, stare
     In lieta vita e in contenta pace,
     Che te con tristo pianto consumare,
     Il quale innanzi tempo l’uom disface:
     Così mi piace, e voglio che a te piaccia,
     Nè parola di ciò ’ncontro si faccia.

33


A questo fu da molti Palemone,
     Il qual taceva, molto confortato;
     Ora uno or’altro usando suo sermone
     Chente usar suolsi a così fatto piato;
     Assegnando una e ora altra ragione,
     Che da lui non doveva esser negato:
     Laonde Palemone il viso alzando
     Al cielo, in guisa tal s’udi parlando.

34


O Giove pio, che con ragion governi
     La terra e ’l cielo, e doni parimente
     A ciascheduna cosa ordini eterni,
     Volgi gli occhi ver me, e sii presente,
     E con giustizia il mio voler discerni,
     Il qual ora si fa consenzïente
     A quel del mio signor; nel che s’io sono
     Peccator, prego che mi dii perdono.

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35


E tu, sacra Dïana e Citerea,
     Delli cui cori il numero minore
     Far mi convien, benchè io non volea,
     E quindi appresso dell’altra maggiore
     Siate presenti, e ciascun altra dea
     Che ha ne’ matrimonii valore,
     E testimonio eterno renderete
     Di ciò ch’i’ ho nel cor, che conoscete.

36


E tu, o ombra pietosa d’Arcita,
     Dovunque se’, perdona s’io t’offendo,
     Nè odio por perciò alla mia vita,
     Se la cosa, la qual tu già morendo
     Dicesti che volevi, fia compita
     Per me, del gran Teseo ancor seguendo
     Anzi il piacer che ’l mio contentamento:
     Che or foss’io in un’ora teco spento.

37


E voi, o alti regi, i qua’ presenti
     Sete colà ov’io debbo seguire
     Ora del mio signore i mandamenti,
     Testimon siate: più per ubbidire,
     Che per seguire i miei disii ferventi,
     Fo quel ch’io fo, e disposto a servire
     Te, o Teseo: comanda, ch’io son presto
     Ad ogni cosa fare, ed anche a questo.

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38


Allor Teseo ad Emilia voltato,
     La quale in tra le donne sospirava
     Dolente molto col capo chinato,
     E le parole tututte ascoltava,
     Con animo di nulla ancor piegato,
     Tanto più duol che altro l’ansïava:
     A cui el disse: Emilia, hai tu udito:
     Quel che io vo’ farai che sia fornito,

39


A questa voce tutta lagrimosa
     Levò Emilia la testa, dicendo:
     Caro signore, e’ non è nulla cosa
     Ch’io non faccia, te voler sentendo:
     Ma per l’amor che tu alla pietosa
     Ombra d’Arcita porti, ancor sedendo
     M’ascolta un poco; e poi, se tu vorrai,
     Io farò ciò che comandato m’hai.

40


Siccome aver tu puoi udito dire,
     Tutte le donne scitiche botate
     Furo a Dïana allora che in disire
     Ebber primeramente libertate,
     E tu sai ben quel ch’è contravvenire,
     E non servare alla sua deitate
     Le cose a lei promesse: chè vendetta
     Subita fa, qual sa quel che l’aspetta.

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41


Ed io di quelle fui contra la quale,
     Per ciò che ’l boto non volea servare,
     Ha ella usato il già veduto male,
     Prima contro ad Acate, a cui donare
     Tu mi dovevi, e l’altro a quello eguale
     Contro ad Arcita; come ancor si pare
     All’abito di noi, ch’ora ne siamo
     Di ner vestiti, e ancora ne piangiamo.

42


Se tuo nimico fosse Palemone,
     Come fu già, volentier lo farei;
     Ma non vedendo agual nulla ragione
     Perchè odiar lo debbi, crederei
     Che fosse il me’, senza più provagione
     Far oramai del poter degl’iddei,
     Che mi lasciassi a Diana pur servire,
     E ne’ suoi templi vivere e morire.

43


A cui Teseo: questo dire è niente:
     Chè se Dïana ne fosse turbata,
     Sopra di te verria l’ira dolente,
     Non sopra quelli alli qua’ se’ donata:
     E però fa’ che lieta immantenente
     Di cor ti veggia e d’abito tornata:
     La forma tua non è atta a Dïana
     Servir ne’ templi nè ’n selva montana.

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44


Detto così, cogli altri gran baroni
     Della camera usciro, e ritornaro
     Come gli piacque alle proprie magioni:
     E ’l dì vegnente tututti cangiaro
     Abito, vestimento e condizioni,
     E quel che ciascun era dimostraro:
     E Palemone il simigliante feo:
     E così ritornarono a Teseo.

45


Teseo similemente avea cambiato
     Con tutti i suoi i vestir dolorosi,
     Ed in sembiante lieto era tornato
     Festa facendo: e già suoni amorosi
     E canti ed allegrezza in ogni lato
     D’Atene si sentia, tutti gioiosi
     Del lor signor ch’avea mutata vesta
     Per la futura magnifica festa.

46


Ippolita il simil fatto avea,
     E l’altre donne ed anche Emilia bella,
     A cui a forza ancora ciò piacea,
     Ma non poteva più: e però ella
     Faceva quel che allor Teseo volea:
     Ma dopo pochi dì la damigella
     Nello stato primier fu ritornata,
     Tanto fu dalle donne confortata.

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47


Deliberò Teseo con gli suoi quando
     Le sponsalizie si dovesson fare;
     E per Atene mandò comandando
     Che ciascun s’apprestasse al festeggiare:
     Indi venendo il giorno approssimando,
     Ciascun si cominciò ad apprestare,
     Secondo il proprio stato, a fare onore
     Alla giovane Emilia di buon cuore.

48


E già Arcita uscito era di mente
     A ciaschedun, nè più si ricordava,
     Ognuno a festa intendea solamente,
     E delle nozze lo giorno aspettava:
     Il qual venuto bello e rilucente
     Ad allegrezza ciascun confortava:
     Perchè fece Teseo il tempio aprire
     Di Venere per quivi voler gire.

49


Ed in quel simigliantemenle feo
     Li sacerdoti andar, li qua’ portaro
     La immagine bella d’Imeneo:
     Ed el con un vestir nobile e caro,
     Di dietro seguitando il vecchio Egeo,
     Con tutti gli altri re a quel n’andaro,
     E Palemon con loro, allegro tanto,
     Che mai non si potrebbe mostrar quanto.

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50


Chi porrie mai con soluto parlare
     L’oro e le pietre e li cari ornamenti
     Che i greci re avieno addimostrare?
     Egli eran tanti, e sì belli e lucenti,
     Che il volerlo al presente narrare
     Nol crederebbono il più delle genti:
     E al tempio giunti di gioia ripieno
     Aspettaron le donne che venieno.

51


Ippolita da molte accompagnata
     Quella mattina con solenne cura
     Avieno Emilia nobilmente ornata,
     Avvegnadiochè sì di sua natura
     D’ogni bellezza fosse effigïata,
     Che poco giunger vi potea coltura:
     E in cotal guisa del palagio usciro,
     E lente ver lo tempio se ne giro.

52


O sante donne, le quali Anfïone
     Ataste a chiuder Tebe, or fa mestiere
     Che da voi sia atato il mio sermone,
     Acciocch’io possa dimostrar le vere
     Bellezze che mostrò ’n quella stagione
     Emilia, a cui le piacque di vedere:
     Voi le vedeste, e so che le sapete;
     Adunque qui la mia penna reggete.

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53


Era la giovinetta di persona
     Grande, e ischietta convenevolmente,
     E se il ver l’antichità ragiona,
     Ella era candidissima e piacente;
     Ed i suoi crini sotto una corona
     Lunghi assai, e d’oro veramente
     Si sarien detti, e il suo aspetto umíle,
     Il moto suo onesto e signorile.

54


Dico che li suoi crini parean d’oro,
     Non per treccia ristretti ma soluti,
     E pettinati sì che in fra loro
     Non n’era un torto, e cadean sostenuti
     Sopra li candidi omeri, nè foro
     Prima nè poi si be’ giammai veduti:
     Nè altro sopra quelli ella portava
     Ch’una corona ch’assai si stimava.

55


La fronte sua era ampia e spazïosa;
     E bianca e piana e molto dilicata,
     Sotto la quale in volta tortuosa,
     Quasi di mezzo cerchio terminata,
     Eran due ciglia più che altra cosa
     Nerissime e sottil, nelle qua’ lata
     Bianchezza si vedea lor dividendo,
     Nè ’l debito passavan sè estendendo.

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56


Di sotto a queste eran gli occhi lucenti,
     E più che stella scintillanti assai;
     Egli eran gravi e lunghi e ben sedenti,
     E brun quant’altri che ne fosser mai;
     E oltre a questo, egli eran sì potenti
     D’ascosa forza che alcuno giammai
     Non gli mirò, nè fu da lor mirato,
     Ch’amore in sè non sentisse svegliato.

57


I’ ritraggo di lor poveramente,
     Dico a rispetto della lor bellezza,
     E lasciogli a chiunque d’amor sente
     Che immaginando vegga lor chiarezza;
     Ma sotto ad essi non troppo eminente,
     Nè poco ancora, di bella lunghezza
     Il naso si vedeva affilatetto,
     Qual si voleva all’angelico aspetto.

58


Le guance sue non eran tumorose,
     Nè magre fuor di debita misura,
     Anzi eran dilicate e grazïose,
     Bianche e vermiglie, non d’altra mistura
     Che in tra gigli le vermiglie rose;
     E questa non dipinta, ma natura
     Gliel’avie data, il cui color mostrava
     Per ciò che ’n ciò più non le bisognava,

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59


Ella aveva la bocca piccioletta,
     Tutta ridente e bella da baciare,
     Ed era più che grana vermiglietta
     Colle labbra sottili, e nel parlare
     A chi l’udia pareva un’angioletta:
     E i denti suoi si potian somigliare
     A bianche perle, e spessi ed ordinati,
     E piccolini e ben proporzionati.

60


Ed oltre a questo, il mento piccolino
     E tondo quale al viso si chiedea:
     Nel mezzo ad esso aveva un forellino
     Che più vezzosa assai ne la facea,
     Ed era vermiglietto un pocolino,
     Di che assai più bella ne parea:
     Quindi la gola candida e cerchiata
     Non di soperchio, e bella e dilicaia.

61


Pieno era il collo e lungo, e ben sedente
     Sopra gli omeri candidi e ritondi,
     Nè sottil troppo, piano e ben possente
     A sostener gli abbracciari giocondi:
     Il petto poi un pochetto era eminente
     Di pomi vaghi, per mostranza tondi,
     Che per durezza avien combattimento,
     Sempre puntando in fuor, col vestimento.

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62


Eran le braccia sue grosse e distese,
     Lunghe le mani, e le dita sottili,
     Articolate bene a tutte prese,
     Ancor da anella vote signorili;
     E brevemente, in tutto quel paese
     Altra non fu che cotanto gentili
     Le avesse come lei, ch’era in cintura
     Sottile e schietta con degna misura.

63


Nell’anche grossa e tutta ben formata,
     E ’l piede piccolin: quale poi fosse
     La parte agli occhi del corpo celata,
     Colui sel seppe poi cui ella cosse
     Avanti con amor lunga fïata:
     Immagino che a dirlo le mie posse
     Non basterieno avendola io veduta;
     Tal d’ogni ben doveva esser compiuta.

64


Non era ancor dopo ’l suo nascimento
     Tre volte cinque Apollo ritornato
     Nel luogo donde allor fe’ partimento;
     (Benchè da molti forse giudicato
     Ne sarie altro, prendendo argomento
     Dalla sua forma, che oltre l’usato
     In picciol tempo era cresciuta assai,
     Forse più ch’altra ne crescesse mai);

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65


Quando costei apparve primamente
     Ornata, come noi creder dovemo
     Che ella fosse allora, riccamente
     D’un drappo verde di valor supremo
     Vestita, ciaschedun generalmente,
     Che allor la vide dal primo al postremo,
     Venere la credette, nè saziare
     Si potea nullo di lei rimirare.

66


I teatri, le vie, piazze e balconi,
     Per li quali essa andando gir dovea
     Al tempio, là dov’erano i baroni,
     Tutte eran piene, e ognuno vi correa,
     Femmine e maschi, e vecchi con garzoni,
     Per veder questa mirabile dea,
     La qual ciascuno oltra ogni altra lodava,
     E per lo ben di lei Giove pregava.

67


Ma dopo certo spazio pervenuta
     Al gran tempio di Vener, con onore
     Magnifico dai re fu ricevuta;
     I qua’ la sua bellezza ed il valore
     Lodaron più che d’altra mai veduta:
     E Menelao vedendola in quell’ore,
     La riputò sì di bellezze piena,
     Che la prepose con seco ad Elena.

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68


Quivi non fu alcuno indugio dato:
     Ma fatto cerchio intorno dell’altare,
     Ch’era di fiori e di frondi adornato,
     Fecero a’ preti lì sacrificare;
     E con voci pietose fu chiamato
     L’aiuto d’Imeneo, siccome fare
     Era usato in Atene alla stagione,
     E dopo quel l’altissima Giunone.

69


E po’ in presenza di quella santa ara
     Il teban Palemon gioiosamente
     Prese e giurò per sua sposa cara
     Emilia bella a tutti i re presente;
     Ed essa, come donna non ignara,
     Simil promessa fece immantenente;
     Poi la baciò siccome si convenne,
     Ed ella vergognosa sel sostenne.

70


Questo fornito, al palagio tornaro
     Con somma festa dinanzi e d’intorno,
     Li greci re Emilia intonïaro,
     Non senza ordine debito e adorno,
     Come si convenia, con passo raro;
     E l’ora quinta già venía del giorno,
     Quando venuti nel palagio, messe
     Trovar le mense, ed assisersi ad esse.

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71


E qua’ fossero a quelle i servidori
     E quanti ancora sarie lungo il dire,
     Che furon pur de’ giovani maggiori,
     Nè si porien per numero finire:
     E’ ricchi arnesi non furon minori
     Che l’altre cose magnifiche e mire:
     Delle vivande mi taccio infinite
     Che vi fur delicate e ben compite.

72


Quivi fur sonatori ed istormenti
     Di varie condizioni, e tai che Orfeo
     Per lo giudicio di molti assistenti
     Con lor perduto avrebbe, e ’l gran Museo,
     Con tutti i suoi non usati argomenti,
     E Lino ancora ed Anfïon Tebeo:
     E canti ta’ che sarebbero stati
     Belli a Calliope e ben notati.

73


Di mille modi e di piedi e di mani
     Vi si potè il dì veder ballare
     Gli Ateniesi ed ancora gli strani,
     Giovani e donne, e chi me’ sapea fare:
     E mescolati gentili e villani
     Ciaschedun si vedeva festeggiare,
     E in cotal guisa spendevano il giorno
     Per la città in qua e ’n là attorno.

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74


Li greci re con li lor cavalieri
     Fer nuovi giuochi assai, e cavalcando
     Sopra coverti e adorni destrieri,
     E con ischiere varie armeggiando
     Per le gran piazze e ancora pe’ sentieri,
     La lor letizia a tutti dimostrando;
     Poi ritornando al palazzo gioioso
     Quand’eran disiosi di riposo.

75


Il giorno troppo lungo giudicato
     Da Palemon sen gía in ver la sera;
     Ed essendo già il ciel tutto stellato,
     In una ricca camera qual’era
     Quella dove fu il letto apparecchiato,
     Qual credere possiamo a così altiera
     Isponsalizia, invocata Giunone,
     Emilia se n’entrò con Palemone.

76


Qual quella notte fosse all’amadore
     Qui non si dice, quegli il può sapere
     Che già trafitto da soverchio amore
     Alcuna volta fu, se mai piacere
     Ne ricevette dopo lungo ardore:
     Credomi ben, ch’estimando, vedere
     Il possa quel che nol provò giammai,
     Che lieta fu più ch’altra lieta assai.

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77


Ver’è che per le offerte, che n’andaro
     Poi la mattina a’ templi, s’argomenta
     Che Venere, anzi che ’l dì fosse chiaro,
     Sette volte raccesa e tante spenta
     Fosse nel fonte amoroso, ove raro
     Buon pescator non util si diventa:
     El si levò, venuta la mattina,
     Più bello e fresco che rosa di spina.

78


E poi si fece Panfilo chiamare;
     E siccom’esso già promesso avea,
     Così gli fece eccelsi don portare
     Al tempio della bella Citerea,
     E con gran lodi la fece onorare,
     Lei ringraziando, per cui el tenea
     La bella Emilia da lui molto amata,
     E così lungo tempo disiata.

79


Quindi sen venne con allegro aspetto
     Nella gran sala riccamente ornata,
     Dove con gioia somma e con diletto
     Era la festa già ricominciata;
     E li re greci li vennero in petto,
     Con lieti motti della trapassata
     Notte qual fosse suta domandando,
     E molto di ciò insieme sollazzando.

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80


Durò la festa degli alti baroni
     Più giorni poi continovatamente,
     Dove si dieron grandissimi doni
     A ciascheduna maniera di gente:
     Ricchi vi fur, ministrieri e buffoni,
     E qualunque altri per sè parimente:
     Ma dopo il dì quindecimo si pose
     Fine alle feste liete e grazïose.

81


Già due fïate era stata cornuta
     La sorella di Febo, e tante piena
     Similemente era stata veduta,
     Poichè la nobil baronia in Atena
     Delle contrade sue era venuta:
     Onde parve a ciascun, poichè l’amena
     Festa era fatta, di tornare omai
     Ne’ suoi paesi, quivi stati assai.

82


Onde ciaschedun re prese commiato
     Dal vecchio Egeo e ancora da Teseo.
     E dalle donne ancor l’hanno pigliato,
     E poi da Palemone; il qual rendeo
     A tutti grazie, e sè disse obbligato
     A ciaschedun per sè e per Penteo
     In tutto ciò che operar potesse,
     Mentre che esso nel mondo vivesse.

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83


Partirsi adunque i re, e ciascun prese
     Quanto potette il cammin suo più corto
     Per tosto ritornare in suo paese:
     E Palemone in gioia ed in diporto
     Colla sua donna nobile e cortese
     Sì si rimase e con sommo conforto,
     Quel possedendo che più gli piacea,
     Ed a cui tutto il suo ben volea.

84


Poichè le Muse nude cominciaro
     Nel cospetto degli uomini ad andare,
     Già fur di quelli i qua’ l’esercitaro
     Con bello stile in onesto parlare,
     E altri in amoroso le operaro:
     Ma tu o libro, primo a lor cantare
     Di Marte fai gli affanni sostenuti,
     Nel volgar lazio non mai più veduti.

85


E perciò che tu primo col tuo legno
     Seghi quest’onde non solcate mai
     Davanti a te da nessun altro ingegno,
     Benchè infimo sii, pure starai
     Forse tra gli altri d’alcun onor degno:
     In tra gli qua’ se vieni, onorerai
     Come maggior ciaschedun tuo passato,
     Materia dando a cui dietro hai lasciato.

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86


E perocchè li porti disiati
     In sì lungo pileggio ne tegnamo,
     Da varii venti in essi trasportati,
     Le vaghe nostre vele qui caliamo,
     E le ghirlande e i doni meritati
     Con le ancore fermati qui aspettiamo,
     Lodando l’Orsa, che colla sua luce
     Qui n’ha condotti, a noi essendo duce.