La Teseide/Libro undecimo
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LA TESEIDE
LIBRO UNDECIMO
ARGOMENTO
Nell’undecimo Emilia primamente
L’uficio imposto fa con Palemone:
Poi mostra il pianto della greca gente
D’intorno al corpo ornato per ragione:
Quinci tagliata una selva eminente,
Un ricco rogo fanno più persone,
Sopra ’l qual posto Arcita eccelsamente,
Vi mette Emilia l’acceso tizzone.
Le ceneri del rogo consumato
Raccoglie Egeo; e merita coloro
Che ’n varii giuochi onore hanno acquistato.
Quindi fa far con subito lavoro
Un tempio Palemone storïato,
Là dove Arcita loca in urna d’oro.
1
Finito Arcita colei nominando,
La qual nel mondo più che altro amava,
L’anima lieve se ne gì volando
Ver la concavità del cielo ottava:
Degli elementi i convessi lasciando,
Quivi le stelle erratiche ammirava,
L’ordine loro e la somma bellezza,
Suoni ascoltando pien d’ogni dolcezza.
2
Quindi si volse in giù a rimirare
Le cose abbandonate, e vide il poco
Globo terreno, a cui d’intorno il mare
Girava e l’aere, e di sopra il foco,
Ed ogni cosa da nulla stimare
A rispetto del ciel ; ma poi al loco
Là dove aveva il suo corpo lasciato
Gli occhi fermò alquanto rivoltato.
3
E seco rise de’ pianti dolenti
Della turba lernea; la vanitate
Forte dannando delle umane genti,
Li qua’ da tenebrosa cechitate,
Mattamente oscurata nelle menti,
Seguon del mondo la falsa biltate,
Lasciando il cielo; e quindi se ne gío
Nel loco a cui Mercurio la sortio.
4
Alla voce d’Arcita dolorosa
Quanti v’eran gli orecchi alto levaro,
Aspettando che più alcuna cosa
Dovesse dir; ma poi che rimiraro
L’alma partita, con voce angosciosa
Pianse ciascuno e con dolore amaro,
Ma sopra tutti Emilia e Palemone,
La qual così rispose a tal sermone:
5
O signor dolce, dove m’abbandoni,
Dove ne vai, perchè non vengo teco?
Dimmi qua’ sieno quelle regïoni
Che ora cerchi poi non se’ con meco;
I’ vi verrò, e con giuste cagioni
Dicendo: poi non volle in vita seco
Giove ch’io sia, e io ’l seguirò morto
Colui che è il mio bene e ’l mio conforto.
6
Ma poi che vide lui tacente e muto,
E l’alma sua aver mutato ospizio
Da lui non stato mai più conosciuto,
Con Palemon piangendo, il tristo ufizio
Feciono, e gli occhi travolti al transuto
Chiusero per supremo benefizio,
Ed il naso e la bocca: poi ciascuno
Si tirò indietro con aspetto bruno.
7
Non fer tal pianto di Priam le nuore,
La moglie e le figliuole, allor che morto
Fu lor recato il comperato Ettore,
Lor ben, lor duca e lor sommo diporto,
Qual Ippolita fe’ , per lo dolore
Ch’ella sentì, e certo non a torto,
Ed Emilia con lei, ed altre molte
Antiche donne lì con lor raccolte.
8
Piangeano i re offesi da pietate
E da dolore, e piangea Palemone,
Piangevan gli altri d’ogni qualitate,
E di età vecchio, o giovane o garzone:
E come prima in Atene occupate
Erano in feste, ora in desolazione
Tututte si vedeano lagrimose,
E d’alti guai oscure e tenebrose.
9
Niuno potea racconsolar Teseo,
Sì avie posto in lui perfetto amore;
Il simile avveniva di Peleo,
E del buon Peritoo e di Nestore,
E d’altri assai, ed ancora d’Egeo,
Il qual la bianca barba per dolore
Tutta bagnata aveva per Arcita
Allor passato della trista vita.
10
Ma come savio, ed uom che conoscea
I mondan casi e le cose avvenute,
Siccome quel che assai veduto avea,
Il dolor dentro strinse con virtute,
Per dare esempio a chiunque il vedea
Di confortarsi delle cose sute:
E poi s’assise a Palemone allato,
Il qual faceva pianto smisurato.
11
Ed ingegnossi con parole alquanto,
Con quel silenzio ch’e’ potette avere,
Di voler temperare il tristo pianto,
Ricordando le cose antiche e vere,
Le morti e’ mutamenti e ’l duolo e ’l canto,
L’un dopo l’altro spesso ognun vedere:
Ma mentre che parlava ognun piangea,
Poco intendendo ciò ch’egli dicea.
12
Anzi così l’udivan, come il mare
Tirren turbato ascolta i naviganti,
O come folgor che scenda dall’are
Per nuvoletti teneri ovvianti
Dall’impeto suo cura di ristare,
Ma gli apre e scinde, e lor lascia fumanti:
E quel dì e la notte in duolo amaro,
Senza punto restar, continuaro.
13
Quinci Teseo con sollecita cura
Con seco cerca per solenne onore
Fare ad Arcita nella sepoltura;
Nè da ciò ’l trasse angoscia nè dolore,
Ma pensò che nel bosco, ove rancura
Aver sovente soleva d’amore,
Faria comporre il rogo, dentro al quale
L’uficio si compiesse funerale.
14
E comandò ch’una selva, che stava
A quel bosco vicina vecchia molto,
Fosse tagliata, e ciò che bisognava
Per lo solenne rogo fosse accolto
Dentro al boschetto, nel qual comandava
Un’arca si facesse di tal colto:
Mossonsi allora gli ministri tosto
Per far ciò che Teseo loro avie imposto.
15
El fece poi un feretro venire
Reale a sè davanti, e tosto fello
D’un drappo ad or bellissimo fornire,
E similmente ancor fece di quello
Il morto Arcita tutto rivestire,
E poi il fece a giacer porre in ello
Incoronato di frondi d’alloro,
Con ricco nastro rilegate d’oro.
16
E poichè fu d’ogni parte lucente
Il nuovo giorno, egli ’l fece portare
Nella gran corte, ove tutta la gente
Come voleva il potea riguardare:
Nè credo alcun che sì fosse dolente
Di Tebe allora il popolo a mirare
Quando li sette e sette d’Anfione
Figli fur morti alla trista stagione,
17
Come d’Atene si vide quel giorno,
Nel quale altro che pianger non s’udiva:
Nessuno andava per la terra attorno,
O el della sua casa non usciva,
In quella stando siccome musorno,
O se n’uscisse alla corte sen giva
Per rimirar l’esequie dolorose
Nate dell’aspre battaglie amorose.
18
Alta fatica e grande s’apparecchia,
Cioè voler l’antico suol mostrare
All’alto Febo della selva vecchia,
La qual Teseo comandò a tagliare
Si andasse, acciò ch’una pira parecchia
Alla stata d’Ofelte possan fare:
E, se si puote, ancor la vuol maggiore,
In quanto fu più d’Arcita il valore.
19
Essa toccava colle cime il cielo,
E’ bracci sparti e le sue chiome liete
Aveva molto, e di quelle alto velo
Alla terra facea, nè più quiete
Ombre l’Acaia avea, nè giammai telo
L’aveva offesa, o altro ferro sete
N’aveva avuta, ma la lunga etade
D’essa, tenner per degna deitade.
20
La qual non si credea che solamente
Gli uomini avesse per età passati,
Ma si credea che le Ninfe sovente
E i Fauni e le lor greggi permutati
Fosson da lei, che continovamente
Di sterpi nuovamente procreati
Si ristorava, in eterno durando,
E degli antichi suoi pochi mancando.
21
Al miserabil loco soprastava
Tagliamento continovo, del quale
Ogni covil si vide che vi stava;
E fuggì quindi ciascun animale,
Ed ogni uccello i suoi nidi lasciava,
Temendo il mai più non sentito male:
Ed alla luce in quel giammai non stata
Io poca d’ora si die’ larga entrata.
22
Quivi tagliati cadder gli alti faggi
Ed i morbidi tigli, i qua’ ferrati
Sogliono ispaventare i fier coraggi
Nelle battaglie molto adoperati:
Nè sì difeser dagli nuovi oltraggi
Gli escoli ed i caoni, ma tagliati
Furono ancora, e ’l durante cipresso
Ad ogni bruma, ed il cerro con esso.
23
E gli orni pien di pece, nutrimenti
D’ogni gran fiamma, e gl’ilici soprani,
E ’l tasso, li cui sughi nocimenti
Soglion donare, e i frassini ch’e’ vani
Sangui ber soglion de’ combattimenti,
Col cedro che per anni mai lontani
Non sentì tarlo nè disgombrò sito
Per sua vecchiezza dove fosse unito.
24
Tagliato fuvvi ancor l’audace abete,
E ’l pin similemente, che odore
Dà dalle tagliature com sapete,
Ed il fragil corilo, e ’l bicolore
Mirto, e con questi l’auno senza sete,
Del mare amico, e d’ogni vincitore
Premio la palma fu tagliata ancora,
E l’olmo che di viti s’innamora.
25
Donde la Terra sconsolato pianto
Ne diede, e quindi ciascun altro iddio
De’ luoghi amati si partì intanto,
Dolente certo, e contra suo disio;
E l’arbitro dell’ombre Pan, che tanto
Quel luogo amava, e ciascun Semidio
E’ lor parenti: ancor piangea la selva,
Che forse lì mai più non si rinselva.
26
Adunque fu degli alberi tagliati
Un rogo fatto mirabilemente;
Poco più furo i monti accumulati
Sopra Tessaglia dalla folle gente
In verso ’l ciel mattamente levati,
Che fosse quivi quel rogo eminente,
Il qual dalli ministri fu tessuto
Velocemente e con ordin dovuto.
27
El fu di sotto di strame selvaggio
Agrestemente fatto, e di tronconi
D’alberi grossi, e fu il suo spazio maggio;
Poi fu di frondi di molte ragioni
Tessuto, e fatto con troppo più saggio
Avvedimento, e di più condizioni
Di ghirlande e di fiori pitturato:
E questo suolo assai fu elevato.
28
Sopra di questi l’arabe ricchezze,
E quelle d’orïente con odori
Mirabil fero delle lor bellezze
Il terzo suol composto sopra i fiori;
Quivi lo incenso, il qual giammai vecchiezze
Non conobbe, vi fu dato agli ardori,
E ’l cennamo il qual più ch’altro è durante,
Ed il legno aloè di sopra stante.
29
Poi fu la sommità di quella pira
D’un drappo in ostro tirïo con oro
Tinto coperta, a veder cosa mira,
Sì pel valore e sì per lo lavoro:
E questo fatto, indietro ognun si tira,
E con tacito aspetto fa dimoro,
Quegli attendendo che dovean venire
Col morto corpo a tal cosa finire.
30
Ogni parte era già piena di pianto;
E già l’aula regia mugghïava,
Tale che di lontan bene altrettanto
Nelle valli Eco trista risonava:
E Palemone di lugubre manto
Coperto nella corte si mostrava
Con rabbuffata barba e tristo crine,
E polveroso ed aspro senza fine.
31
E sopra ’l corpo misero d’Arcita
Non men dolente Emilïa piangea,
Tutta nel viso palida e smarrita,
E’ circostanti più pianger facea:
Nè dal corpo poteva esser partita,
Con tutto che Teseo gliele dicea;
Anzi parea che suo sommo diporto
Fosse mirare il suo Arcita morto.
32
Quando gli Achivi in abito doglioso
Entraron dentro all’aula piangente,
Allora il pianto assai più doloroso
Incominciò e d’una e d’altra gente,
Più forte che non fu quando il dubbioso
Mondo lasciò quell’anima dolente,
E rintegrossi più volte, e ristette
Dentro le menti da dolor costrette.
33
Nè dal tumulto tacque alcuna volta
La stupefatta casa che Egeo
A Palemone con parola molta
Non desse alcun conforto, s’el poteo,
A lui mostrando in quanto male involta
Fosse la vita d’esto mondo reo,
E le cose durissime occorrenti
Miseramente ogni giorno a’ viventi.
34
E benchè Palemon forse tacesse,
E’ non l’udia, se non come Atteone
Si crede che la sua turba intendesse:
Anzi piangeva in sè, nè orazïone
Esser poteva che da ciò il traesse;
Tanto nel core aveva compassione
Al trapassato suo più caro amico,
A cui ingiustamente fu nemico.
35
Quivi cavalli altissimi guardati
Per lui furon coverti nobilmente,
E su vi fur delle sue arme armati
Sovra ciascuno un nobile sergente:
Quivi l’esuvie de’ suoi primi nati
Furono apparecchiate similmente:
Quivi faretre ed archi con saette,
E più sue vesti nobili e dilette.
36
Ed acciocchè Teseo intero segno
Del nobil sangue desse di costui,
Tutti vi fe’ gli ornamenti del regno
Venir presente ad adornarne lui:
Lì le veste purpuree con ingegno
Fatte si videro addosso a colui,
Lo scettro, il pomo e l’eccelsa corona
Per lui al foco del suo rogo dona.
37
Li più nobili Achivi i vasi cari
Di mel, di sangue e di latte novello
Pieni portavan con lamenti amari
Sopra le braccia precedendo quello;
Nè si studiavan li lor passi guari,
Anzi soavi e coll’aspetto bello
Cambiato andavan l’uno all’altro appresso,
Come l’ordine dato avie concesso.
38
Sopra le spalle li Greci maggiori
Il feretro levarsi lagrimando,
E con esso d’Atene usciron fuori,
Con alto pianto la gente gridando,
Gl’iniqui iddii e li loro errori
Con alte boci spesso bestemmiando;
E infino al loco per la pira eletto
Porlaro i duci il miserabil letto.
39
La qual già fatta in quel loco trovata,
E d’ogni legno ricca, sopra d’essa
Ebbero la lettiera riposata,
La qual fu tosto dalla gente spessa,
Che gli seguiva, tutta intornïata,
Per ciò veder, con dissoluta pressa:
E poi gli duci indietro si tiraro,
E gli altri che venivano aspettaro.
40
Là venne Palemone, al quale Egeo
Dolente andava dal suo destro lato,
E dal sinistro gli venia Teseo,
Dagli altri regi poi tutto fasciato:
Emilia poi appresso si vedeo,
Cui più debole sesso sconsolato
Accompagnava, ed essa in mano il foco
Feral recava al doloroso loco.
41
Al qual poichè de’ furono venuti,
Emilia lassa cominciò piangendo;
O dolce Arcita, e’ non furon creduti
Da me tai casi, che a te venendo
Fosser gli visi da dolor premuti
Con piagnevoli voci, quali intendo:
Nè in questa guisa mi credetti entrare
Nella camera tua a dimorare.
42
Assai m’è, lassa, duro a sostenere
Ciò che io veggio, che le prime tede
Al rogo tuo mi convenga tenere.
O dispietati iddii senza mercede,
Or che è questo che v’è in piacere?
Dov’è l’amore antico, ove la fede
Che solevate portare a’ mondani?
Ella n’è gita con li venti vani.
43
O caro Arcita, più non posso avanti,
Prendi le fiamme da me concedute
Al rogo tuo, e’ dolorosi pianti,
Per la tua alma in loco di salute.
E mentre ch’essa ne’ dolenti canti
Stava così, da lei fur conosciute
Le voci funerali che in usanza
Erano allor per pelopea mostranza.
44
Perchè al rogo fatta più vicina,
Con debol braccio le fiamme vi mise,
E per dolore indietro risupina
Tra le sue donne cadde: in quelle guise
Che fan talor, po’ tagliata la spina,
Le bianche rose per lo sol succise:
E semiviva fece dubitare
Di morte a chi poteala rimirare.
45
Ma senza lungo indugio risentita
Si levò in piè, e le anella si tolse,
Le qua’ donate già la aveva Arcita,
E con suoi altri ornamenti gli accolse,
E ’n su la pira subita e smarrita
Le gittò presta, sì com’altri volse,
Dicendo: te’, non si conviene omai
Che io mi adorni, poi lasciata m’hai.
46
E quinci rotti li tristi lamenti
Muta ricadde, ed il chiaro colore
Fuggì del viso, e’ begli occhi lucenti
Perder la luce, sì ne giro al cuore
Subitamente tutti i sentimenti
Per lui soccorrer, che già dal dolore
Soverchio con fierezza era assalito,
Là onde ogni valor gli era fuggito.
47
Dall’altra parte Palemon s’avea
La barba e’ crin tutti quanti tagliati,
E posti sopra Arcita, e sì dicea
Con sommo pianto: o iddii spiatati,
Con altro patto certo mi credea
Che questi crin vi fossono litati:
Ma poi nell’are, iddii, non gli volete,
Nelle dolenti esequie gli prendete.
48
E poi ch’egli ebbe la barba e’ capelli
Così donati, a sè fece venire
Militari arme con altri gioielli,
E tutti su li vi fece salire,
Ed altre cose assai ancor con quelli
Caro gli fu piangendo di offerire,
E di far ricca la pira dolente,
Dove giaceva il suo caro parente.
49
Già istrepivan per lo messo foco
Le prime fronde, e la fiamma pigliava
Colle sue lingue parte in ogni loco,
Ed ognora più ricca diventava;
E certo in lungo tempo nè in poco
Più ricca pira non si ricordava
Che quella fu quivi fatta ad Arcita,
Per lo supremo onor della sua vita.
50
Le gemme crepitavano, e l’argento,
Che ne’ gran vasi e negli ornamenti era,
Si fondea tutto, ed ogni vestimento
Sudava d’oro nella fiamma fiera:
E ciascun legno dell’assirio unguento
Si facea grasso e con maggior lumiera:
E’ meli ardenti stridevano in esse,
Con altre cose allora in quelle messe.
51
E le cratere di vini spumanti,
E dell’oscuro sangue, e ’l grazïoso
Candido latte, tututti fumanti
Sentieno ancora il foco poderoso.
E’ maggior Greci intorno tutti quanti
Stavano a Palemon, per lo noioso
Rogo dagli occhi torgli, e ’l simigliante
Stavan le donne ad Emilia davante.
52
Allor Egeo fe’ far di cavalieri
Ischiere sette di dieci per una,
Armati tutti sopra gran destrieri,
E ciascheduno aveva indosso alcuna
Sua sopravvesta qual’era mestieri
Di vestirlasi a quella festa bruna;
Delle qua’ sette de’ Greci i maggiori
Furono allora li conducitori.
53
E a sinistra man cortando giro,
Tre volte il rogo tutto intorniaro:
E la polvere alzata il salir diro
Delle fiamme piegava, e risonaro
Le lance, ch’alle lance si feriro
Per lo sovente intornïarsi amaro,
Che quivi si faceva intorno intorno,
Sopra i piè presti senza alcun soggiorno.
54
Dieron quell’armi orribile fragore
Quattro fïate, ed altrettanto pianto
Le donne dier con misero dolore,
E colle palme ripercosse alquanto:
Poi dietro ciascheduno al suo rettore,
Come l’ordine usato dava intanto,
Sul destro braccio si voltaron tutti
Con nuovo giro, e con dolore e lutti.
55
E ciò che essi sopra l’armi avieno,
Forse portato lì per covertura,
Tututti quanti insieme si traieno,
Quello gittando nella calda arsura;
Ed i cavalli ancora discoprieno
Di lor coverte e di loro armadura:
E così ’l quarto giro fu fornito
Per quella gente, come avete udito.
56
Ed oltre a questo, chi vi gittò freno,
Chi lancia, chi iscudo e qual balteo,
Chi elmo e qual barbuta, e altri pieno
Di saette turcasso, e chi vi deo
Archi e chi spade come me’ potieno,
E qual toraca ancor metter vi feo,
Chi carri trionfali e chi cavalli;
Tanto lor piacque a tutti onor di falli.
57
Il giorno inverso della notte andava,
E Vulcan lasso in ceneri recate
Le cose avea che ciascun gli donava;
Perchè con acque, per ciò ordinate,
Da’ Greci il rogo già si saporava:
E fine era alle cose, che lasciate
Appena, l’ombre fur sopravvenute:
Tanto le fero d’ogni onor compiute.
58
Egeo vi ritornò il dì seguente,
E con pietosa man tutte raccolse
Le ceneri da capo prima spente
Con molto vino, e di terra le tolse,
Ed in un’urna d’oro umilemente
Le mise, e quella in cari drappi involse,
E nel tempio di Marte fe’ guardare
Fin ch’altro loco le potesse dare.
59
Ed acciò che l’onor fosse maggiore,
Molti giuochi vi furono ordinati,
Ne’ quali i re mostrar molto valore;
Ma in tra gli altri nel corso onorati
I primi furon e Ida e Castore,
Siccome molto in ciò esercitati:
Costoro adunque di virtute eguali
Di lor vittoria pari ebber segnali.
60
Perciocchè fu a ciaschedun donato
Per premio di valore un dono caro;
Ciò fu per uno un caval covertato
Di nobili coverte, u’ si mostraro,
Da uom d’ingegno altissimo dotato,
Di Pallade gli onor, quando pigliaro
Nome novello gli Cecropi, e ancora
V’era ’l padul dove pria fe’ dimora.
61
Vediensi ancor le fistule sonare,
Le quali ella trovò primieramente,
Poi con Aracne volle disputare,
E di Vulcan vi si vedie vincente;
E altre storie assai, le qua’ contare
Non è ben convenevole al presente:
Adunque l’Oebalio ed il Pisano
Fur onorati di don sì sovrano.
62
Ma poi nell’unta palestra Teseo
Per virtù propria meritò l’onore,
Perocchè al tempo suo me’ ch’altro il feo;
E ben lo seppe Elena: e per maggiore
Gloria gli fece lì recare Egeo
Un bello scudo e di molto valore,
Nel quale si vedea Marsia sonando,
Sè con Apollo nel sonar provando.
63
Vedeasi appresso superar Pitone,
E quindi sotto l’ombre grazïose
Sopra Parnaso presso all’Elicone
Fonte seder con le nove amorose
Muse, e cantar maestrevol canzone:
Ed oltre a queste, v’eran molte cose
Tutte in onor di Febo, con molto oro,
Belle a vedere e care per lavoro.
64
Poi al cesto giucando, assai più degno
Polluce si mostrò che avanzato
Aveva Ammeto, pien d’alto disdegno,
Da Febo male in ogni cosa atato:
Onde per la gran forza e per lo ingegno,
Il quale avea ne’ giuochi adoperato,
Li fe’ venire Egeo due nappi grandi
Per oro cari e per arte ammirandi.
65
In essi con non poca sottigliezza
Era scolpito Alcide nella cuna
Ancor giacente prender con fierezza
Le serpi a lui mandate, ed ad ognuna
La morte dare, e quindi la fortezza
Ch’egli usò nella selva nemea bruna
Contra ’l fiero leone, e quindi appresso
L’altre fatiche sue v’eran con esso.
66
Ebbevi ancora Evandro molto onore
Con Sarpedone al desco allor giucando,
A cui per merto del suo gran valore
Un elmo venne di Egeo al comando
E forte e bello: in forma di pastore
Su vi sedeva Pan iddio, sonando
In quella vera forma che gli danno
Gli Arcadi allor che figurar lo fanno.
67
Molti altri ancora con costor giucaro,
Li qua’ sarebbe lungo il raccontare,
Ne’ fatti giuochi assai ben si portaro,
Agli qua’ tutti Egeo fece donare
Solenni doni, onde e’ si contentaro,
Lieti non poco di tal operare;
Di lor virtù sovente contendendo,
L’un dell’altro i difetti riprendendo.
68
Nè ne’ giuochi olimpiaci giammai
D’ulivo fu ghirlanda conceduta,
Ovver ne’ pitii di lauro mai,
O d’oppio ne’ nemei già ricevuta,
O di pino negl’istmii, che d’assai
Fosse a’ ricevitor così dovuta,
Come in quel giuoco detto Cereale
Di quercia l’ebbe Agamennone aguale.
69
Poi fe’ subitamente Palemone,
Là dove il rogo d’Arcita era stato,
Edificar con mira operazione
Un tempio grande e bello ed elevato,
Il qual sacrò alla santa Giunone:
Ed in quel volle che ’l cener guardato
Fosse d’Arcita, in eterna memoria
Del suo valore e della sua vittoria.
70
Era quel tempio grande, com’è detto,
E per più cose molto da lodare,
Nel qual e’ fece per proprio diletto
Tutti i casi d’Arcita storïare,
E adornar di lavorio perfetto
Da tal che ottimamente il seppe fare;
Il quale i Greci rimirando spesso,
Con giusto cor pietate avevan d’esso.
71
E’ si vedeva lì nel primo canto
Teseo di Scitia tornar vincitore,
E delle donne achive il tristo pianto,
E le lor voci e lor grieve dolore
Quasi sentia chi le mirava alquanto,
Sì fu sovrano e buono operatore:
E ciascheduna v’era conosciuta
Da chi l’avesse altra volta veduta.
72
Vedeasi appresso il sanguinoso Ismeno
Ed il superbo Asopo, e ciascun lito
Di corpi morti quasi tutto pieno,
E similmente si vedeva il sito
Di Tebe, quale el fu nè più nè meno,
E’ monti ancor d’onde era circuito,
Ne’ quali ancora con superba fronte
Vi si vedea regnare il gran Creonte.
73
Nè molto poi li gran duci armati,
Teseo con Creonte e la lor gente
In gran battaglia insieme mescolati
Vi si vedeva, e qual era valente,
E qual codardo, assai bene avvisati
Eran da chi mirava fisamente:
E ’l campo v’era vinto da Teseo
Con quanto lì per lui poscia si feo,
74
E per li monti si vedien fuggire
Le dolorose madri co’ figliuoli:
Parevansi le voci ancor sentire
De’ lor dolenti e dispietati duoli;
E vediensi le donne achive gire
Nell’alte torri con diversi stuoli,
E arder ogni cosa, poscia ch’esse
Ebber le corpora in le fiamme messe.
75
E quella tutta nel fuoco avvampare:
Poi v’era il campo tutto ricercato
Da chi dovea cotal uficio fare,
Nel qual tra gli abbattuti era trovato
Arcita tutto sanguinoso stare
A Palemon ancor presso pigliato,
E a Teseo menati per prigioni,
Perchè parevan nobili baroni.
76
Poi ciascheduno tristo e doloroso
Al carro avante a Teseo trionfante
Vi si vedeva, ed in atto pensoso:
E rimirando un poco più avante,
I prigion si vedieno, e l’amoroso
Giardino ancora allato a loro stante,
Tutto vestito pel tempo novello
Di nuove frondi grazïoso e bello.
77
Nel qual la lieta e bella giovinetta
Gir si vedeva in su gli nuovi albori,
E lietamente cantando soletta,
Frondi cogliendo e bellissimi fiori,
Ed a sè far leggiadra ghirlandetta:
E quivi a finestrella gli amadori
Erano in guisa, che chi gli mirava,
Diceva che ciascun di loro amava.
78
Vediensi poi li lor grievi sospiri,
E’ rotti sonni e l’amorosa vita,
E chenti e quali fosson lor martíri:
E quivi appresso ancora come Arcita
Di Peritoo con sommi disiri
Disprigionato faceva partita,
Ed in Corinto si vedea arrivare,
Quindi in Micena, poi in Egina andare.
79
Poscia d’Egina ad Atene tornato
E dipartito dallo re Peleo,
Ed il gran tempio d’Apollo lasciato,
Vi si vedeva servire a Teseo:
E mentre stette in così fatto stato,
Ciò ch’el fe’ v’era, e siccome Penteo
Dir si faceva, e siccome soletto
Se n’andava talvolta nel boschetto.
80
Là dove il chiaro rivo il dilettava,
E ’l venticel che le frondi battea,
E ciascheduno uccel che lì cantava,
E lui dormente tutto si vedea:
Panfilo v’era ancor come ascoltava
In fra le frasche ciò ch’egli dicea,
E riportava ciò a Palemone,
Signor di lui, che ancor era prigione.
81
Di Panfil poscia v’era la malizia
Che egli usò quando fece Alimeto
Quivi venire, e simil la letizia
Di Palemon, quando si vide lieto
Fuor di prigion, dov’egli avea dovizia,
Vie più che d’allegrezza d’amor fleto:
E lui armato vedevasi andare
Nel tempo oscuro ad Arcita trovare.
82
Poscia vediesi nel boschetto sceso
Che attendeva Arcita ancor dormente;
Poi come desto, era fra lor conteso
Dell’amor della donna pianamente;
Poscia ciascuno di furore acceso
Neil’arme si vedeva parimente
Combatter fiero con aspra battaglia,
E come ognun di vincer si travaglia.
83
Là dove Emilia si vedea venuta,
Che per lo bosco con Teseo cacciando
Se n’andava, nè alcuno avea sentuta
Questa battaglia: e vedevasi quando
Quivi Teseo con parole partuta
L’aveva, e come con lor ragionando
Li riconobbe, ed il dato partito
Preso da loro, e poi bene ubbidito.
84
Vedevansi le feste de’ Dircei
Che e’ facevan costretti da amore:
E quivi ancora gli duci nemei
Venir ciascun con sommissimo onore
Vi si vedevano, acciocchè colei
Sola ristesse dell’uno amadore;
E poi le insegne a’ suoi da ciascun date,
E come armati in esse fur mostrate.
85
Eranvi i templi d’incenso fumanti,
Ed il pigliar di lor prima milizia;
Poi nel teatro insieme tutti quanti,
E di diversi stromenti letizia
Vi si vedeva, e tutti i lor sembianti;
E come la battaglia lor s’inizia,
E ciò che poi vi si fe’ quel giorno
Tututto v’era di lavoro adorno.
86
E la gran festa ancor vi si parea,
E’ sagrifizii, e ’l chiamato Imeneo
Che allor si fe’ quando Arcita prendea
Prima per sposa davanti a Teseo
Emilia bella, e poi vi si vedea
Il duol dolente ch’ogni Greco feo
Nella partita dalla trista vita
Che fece il valoroso e buono Arcita.
87
Ed il feretro suo di sopra a’ regi
Con alti pianti si vedea portato,
E similmente da tutti gli egregi
Baron che v’eran da ciaschedun lato,
E ’l lamento de’ popoli e collegi
Che infino in ciel parie fosse ascoltato:
Poi sopra il rogo si vedeva ardente
Il corpo ornato molto riccamente.
88
Solo la sua ceduta da cavallo
Gli uscì di mente, nè vi fu segnata:
Credo ch’e’ fati ’l voller senza fallo,
Acciocchè mai non fosse ricordata;
Ma non potè la gente ammenticallo,
Sì nel cor era di ciascuno entrata
Con grieve doglia, sì era in amore
Di ciascheduno il giovine amadore.
89
Era in tal guisa tututto dipinto
Il nobil tempio, dentro al quale e’ pose
Di sacerdoti un numero distinto,
Gli qua’ le trieteriche dolorose
Il dì che Arcita fu da’ fati estinto
Dovesson celebrar maravigliose;
E riccamente il tempio fe’ dotare,
E d’ornamenti nobili adornare.
90
E ’n mezzo d’esso fece prestamente
Una colonna di marmo pulita
Drizzar, sopra la qual d’oro lucente
Un’urna fu discretamente sita:
Dentro la qual la cenere tepente
Fece servare del suo amico Arcita;
Ed adornolla de’ seguenti versi
In guisa tal che ben legger potersi:
91
Io servo dentro a me le reverende
Del buon Arcita ceneri, per cui
Debito sagrificio qui si rende.
E chiunque ama, per esempio lui
Pigli, se amor di soverchio l’accende:
Perocchè dicer può: qual se’ io fui,
E per Emilia usando il mio valore
Morii: dunque ti guarda da Amore.