L'Astronomia nell'evoluzione del pensiero
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L’ASTRONOMIA
NELL’EVOLUZIONE DEL PENSIERO
Conferenza letta il 20 Gennaio 1895
AL CIRCOLO FILOLOGICO DI TORINO
da
FRANCESCO PORRO
- Signori,
Il mio esordio sarà assai inabile: vi citerò una frase pronunciata da Enrico Ferri nella conferenza che egli tenne il mese scorso all’Associazione Universitaria Torinese, e mi terrò pago se coloro tra voi che udirono la calda e potente parola di quell’oratore mi perdoneranno di averne qui evocato il ricordo. La vostra gentilezza mi assicura dai confronti che spontaneamente si presenterebbero alla memoria di questi, e dai rimpianti degli altri.
Parlava il Ferri dell’angosciosa crisi morale che travaglia e minaccia la società nostra; con diagnosi acuta ne investigava i sintomi paurosi nella sempre crescente diffusione del delitto, della pazzia, del suicidio; ne descriveva a colori vivaci e con eloquenza di verità le funeste conseguenze nella vita privata e nella pubblica; infine, ponendosi arditamente la questione, se convenga sperare in un prossimo, sensibile miglioramento delle condizioni morali dell’umanità, mostrava di riporre grande fiducia nell’azione della scienza. Ed aggiungeva: “Non nella sterile formula della scienza per la scienza, bensì in quella più umana della scienza per la vita!„
Mi è sembrato non inutile prendere le mosse da questo concetto, che il valente oratore avrebbe senza dubbio illustrato e chiarito con maggiore precisione, se i limiti del suo discorso glielo avessero consentito. Che la scienza debba proporsi come fine essenziale il bene dell’umanità, debba cioè essere coltivata non per sè stessa, ma per la vita, è massima volgare di buon senso, non meno che cardine e fondamento della filosofia positiva. Potrebbe adunque ritenersi affatto superfluo l’insistervi sopra, se il giudizio delle utilità che la scienza arreca alla vita non dipendesse da criteri soggettivi che spesso lo snaturano e lo corrompono. Una compagnia di speculatori si vale per fondare e per esercitare un’industria delle cognizioni e dell’ingegno di un chimico o di un elettricista. Per costoro la scienza non è che un mezzo di guidare e di perfezionare l’industria, di produrre meglio ed a miglior mercato; i denari spesi per fornire gli apparecchi ed i mezzi di ricerca e per compensare i dotti servizi ricevuti sono commisurati al valore commerciale attribuito ai servizi stessi. I capitalisti potranno calcolare con minore o con maggiore larghezza nei loro preventivi l’aiuto materiale che essi debbono fornire agli sperimentatori; ma nessuno mai pretenderà da loro che assecondino e sussidino sempre e senza restrizione le investigazioni puramente teoriche di un Lavoisier o di un Faraday.
In modo non molto diverso ragiona generalmente della scienza e de’ suoi benefizi la società presente, che, foggiandosi ogni giorno più sul tipo industriale, reputa spesso vano ed ozioso affaticarsi intorno ai problemi scientifici, quando la loro risoluzione non conduca a pratiche utilità immediate, valutabili commercialmente. Occorre un grado molto elevato di coltura individuale e sociale, perchè si riesca a comprendere come la scienza può giovare anche indirettamente alla vita, e quindi come nel coltivarla e nel favorirla non si debba muovere dallo stimolo esclusivo dei vantaggi diretti che se ne attendono. È doloroso, ma pur necessario, il confessare che a tale grado nessuna delle nazioni che si dicono civili è pervenuta sinora; nè la nostra è fra quelle che vi si avvicinino maggiormente, come ci è facile riconoscere, sol che confrontiamo il favore diverso dal quale sono circondate presso il popolo e presso il governo, in ragione di quanto promettono, le varie discipline. Le scienze biologiche, ad esempio, nella esuberante loro vitalità giovanile, seducono l’immaginazione e sollevano l’entusiasmo con continue scoperte, che mirano direttamente a lenire le sofferenze umane o ad accrescere la ricchezza; nulla di più naturale, adunque, che lo stato ed i privati si accendano della più fervida ammirazione ad ogni loro trovato e soccorrano ai loro bisogni con una larghezza, che nessun’altra applicazione dell’ingegno umano conosce, all’infuori di quelle all’arte della guerra, conservate per atavica miopia al posto d’onore.
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Se lo studio dei fenomeni vitali e delle leggi che li governano occupa oggi indiscutibilmente il sommo della gerarchia stabilita dal favore pubblico e privato fra i diversi rami della filosofia naturale, non è men certo che lo studio dei fenomeni celesti e delle loro leggi è collocato dagli Italiani all’estremo opposto della scala. Stanno a provare eloquentemente l’indifferenza del Governo, delle Università e dei cittadini per siffatto studio lo stato di deplorevole abbandono in cui sono lasciate quasi tutte le nostre Specole e la parte meschinissima fatta all’Astronomia nell’ordinamento di tutte le nostre scuole elementari, secondarie e superiori. La ragione di questa condizione di cose, ben diversa da quelle che si osservano presso le altre nazioni più progredite, mi sembra essere riposta nel giudizio che della scienza del cielo si dà generalmente fra noi. Le persone di mediocre coltura affermano senz’altro che l’Astronomia non serve a nulla, non è una “scienza per la vita„; usando il linguaggio darwiniano oggi tanto di moda, e tanto comodo alle volte per tenere il luogo di buone ragioni, si può dire che nella “lotta per la vita„ essa è necessariamente condannata a soccombere di fronte alle altre scienze più direttamente utili all’uomo. Fra il telescopio che ci rivela l’esistenza ed i fenomeni di mondi remotissimi, con cui presumibilmente il nostro non ha e non avrà alcun rapporto, e il microscopio, che con la conoscenza dei microbi ci suggerisce il modo di combattere le malattie infettive, la scelta non è dubbia: ceci tuera cela.
Ad una conclusione meno radicale, ma di portata pratica equivalente, arrivano molte fra le menti illuminate che in Italia stanno a dirigere il movimento intellettuale. Costoro hanno la bontà di riconoscere che l’Astronomia ha reso in passato grandi servizi all’umanità; si degnano di ammettere che essa costituisce un corpo di dottrina solidamente fondato, omogeneo, armonico, il solo anzi alla cui piena e perfetta elaborazione nulla ormai faccia difetto di essenziale; onorano della loro ammirazione l’eccellenza insuperata de’ suoi metodi, nei quali la sagace induzione, necessaria per ben esaminare i fenomeni, si accoppia felicemente alla rigorosa deduzione propria delle matematiche; giungono infine sino al punto di concedere che dall’Astronomia ripetono le origini e l’incremento loro le scienze geografiche, la Meteorologia, la Navigazione e quella parte della Fisica che insegna a misurare il tempo e le distanze. Ma appunto l’altissimo grado di perfezione cui è giunta l’Astronomia sembra a codesti suoi critici argomento efficace contro l’opportunità di proseguirne lo studio. È perfetta, essi dicono, e sta bene: ma perfecta è participio passato di perficere; dunque non c’è più nulla da fare, l’edifizio è ultimato, i tetti con le grondaie lo preservano dalle ingiurie del tempo e delle meteore, possiamo licenziare architetti e muratori e badare a faccende più urgenti. L’Astronomia di precisione ha detto la sua ultima parola con Bessel, con Guglielmo Struve, con Argelander e con Gould; la Meccanica Celeste è tutta nei sedici libri dell’opera di Laplace; a costruire le effemeridi che guidano i naviganti per le ampie distese degli oceani bastano i cataloghi stellari di Greenwich e le tavole solari, lunari, planetarie di Hansen e di Leverrier. Conosciamo abbastanza i movimenti dei due massimi luminari, perchè non si rinnovi il caso dei due astronomi cinesi Hi ed Ho, messi a morte nel ventesimo secondo secolo avanti l’era volgare per non aver saputo prevedere un’ecclisse di Sole, che colse all’improvviso gli abitanti del Celeste Impero; nè più ci spaventa l’apparire improvviso di una cometa, fenomeno in altri tempi gravido delle più terribili minaccie, quali riassume Manilio nei famosi versi:
Talia significant lucentes saepe cometae.
Funera cum facilius veniunt, terrisque minantur
Ardentes sine fine rogos, cum mundus, et ipsa
Aegrotet natura, novum sortita sepulchrum.
Quin et bella canunt, ignes, subitosque tumultus,
Et clandestinis surgentia fraudibus arma1.
Adesso di simili paure possiamo ridere, come già ne rideva il savio imperatore Vespasiano, cui si voleva far credere che una cometa apparsa a’ suoi tempi gli annunziasse prossima la morte. “Cotesta cometa„ disse “non minaccia me, ma il re dei Parti. Egli ha lunga chioma, io all’opposto son calvo„. Sappiamo che questi astri singolari sono formati di materia tenuissima, sottoposta, come la materia del Sole, dei pianeti e dei satelliti, alla gravitazione universale, dalla quale son trattenuti in orbite di forma determinata; possiamo calcolare, dai luoghi che hanno occupato, quelli che occuperanno sulla vôlta celeste, e se la loro comparsa si ripeta a intervalli periodici, e in quale tempo e in quale punto del cielo si debba aspettare il loro ritorno; siamo persino arrivati (e ne ha merito e gloria il nostro Schiaparelli) a riconoscere la disgregazione delle comete come origine degli sciami di stelle cadenti. Dopo tutto questo, a quale scopo e Brooks e Denning e Barnard e Swift e tanti altri continuano a sciupare le loro notti, esplorando se dalle profondità inaccessibili dello spazio alcune di queste pellegrine del cielo giungano a rendersi visibili nei nostri potenti cannocchiali? A che giova che la più insignificante di tali scoperte sia annunziata per telegrafo a tutto il mondo, come si trattasse del parto felice di una delle tante principesse tedesche? Perchè cinquanta astronomi in Europa, in America, in Australia, seguono la più piccola delle comete telescopiche per tutto il tempo in cui essa rimane visibile, e con lunghe e pazienti misure ne fissano di sera in sera la posizione? Perchè altri astronomi, eroi della trigonometria e delle tavole logaritmiche, alcuni dei quali, come il von Asten, non hanno mai curato di guardare il cielo attraverso il tubo di un cannocchiale, raccolgono le osservazioni, le confrontano, le discutono, ne deducono con calcoli laboriosi il cammino apparente della cometa fra le stelle del firmamento e la traiettoria reale entro il sistema solare?
Piazzi, Olbers, Harding, Encke hanno colmato la lacuna che esisteva nel nostro sistema fra Marte e Giove, trovando che ivi si aggirano parecchi pianeti troppo piccoli per essere visibili ad occhio nudo: Gauss ha insegnato in un’opera immortale la teoria del loro movimento; altri osservatori hanno aumentato il numero di questi corpi da noi conosciuti. Ora sono 410, e continuamente se ne scoprono, sopratutto dopo l’applicazione della fotografia alla loro ricerca, iniziata dal professore Max Wolf di Heidelberga. È presumibile che i maggiori siano già noti; quelli che lasciano traccia sulle nostre negative sono pugni di materia, vero pulviscolo cosmico, i cui granelli si possono paragonare per le dimensioni loro agli isolotti del Mediterraneo. A quale pro’ adunque e Palisa e Charlois e Wolf e Millosevich si affaticano per rintracciarne di nuovi, fra le miriadi di stelle minutissime che popolano la zona zodiacale?
Argelander, Schönfeld, Gould, Palisa, Peters hanno segnato nei loro atlanti di carte celesti parecchie centinaia di migliaia di stelle; di gran parte la Società astronomica fissa con esattezza la posizione nel cielo. Perchè si è iniziato il lavoro immane di fotografare tutto il firmamento? A che serviranno i milioni e milioni di stelle rappresentati sopra trentatremila lastre? Era proprio necessario convocare per questo un congresso internazionale a Parigi? E distribuire l’opera fra 17 osservatorii sparsi su tutto il globo? E spendere trentacinque mila lire per ogni cannocchiale fotografico? Si pensi, trentacinque mila lire, che anche il nostro Governo ha speso, nelle presenti sue condizioni: una cosa addirittura enorme! Quasi il mantenimento per un anno di dodici soldati nell’Eritrea!
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Il volgo e i dotti sono concordi, adunque, in Italia almeno: gran bella cosa l’astronomia: da ammirare, da conservare, imbottigliata nello spirito, come i pezzi anatomici... Ora il pensiero umano ha altre cure, questioni più vive, più ardenti da risolvere, studi più proficui da coltivare, battaglie più decisive da combattere. I ribassi della rendita e le loro cause economiche dànno più a pensare degli abbassamenti che periodicamente si osservano nello splendore di alcune stelle del tipo di Algol; la difesa della società contro le malattie trasmissibili è tema certamente più interessante che la difesa delle osservazioni meridiane contro le perturbazioni prodotte dall’azione del calor solare sugli strumenti; sarà preferibile applicare lo spettroscopio alla ricerca degli elementi che compongono l’atmosfera solare o di quelli che sofisticano il vino che beviamo?
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Ebbene, no: il volgo e i dotti hanno torto: il disprezzare l’Astronomia è una stoltezza (lo ha detto anche Platone), il posporne lo studio a quello di altre scienze è un errore, il far credere a sè stessi e agli altri che essa abbia esaurito il campo delle ricerche è un miserabile sofisma. In tutti i suoi rami, anche in quelli che sembravano i più perfezionati, i problemi ardui, nuovi, affascinanti si affollano. Nelle mani potenti di Gylden e di Poincaré la Meccanica celeste sta trasformandosi: dimostrata l’impossibilità di risolvere rigorosamente le equazioni dei moti planetari con i metodi della Matematica moderna, essa è obbligata alla ricerca di nuovi metodi che sostituiranno quelli ideati da Lagrange e da Laplace, insufficienti per i secoli venturi. I progressi della tecnica strumentale esigono un sempre più accurato studio delle condizioni che possono variare il risultato delle osservazioni: di tutto si tien conto ormai, dello stato fisiologico dell’astronomo, parte integrante, e spesso non la migliore, della macchina, della differenza di temperatura fra il suolo e il soffitto, dello spessore dei fili di ragno tesi nel campo del cannocchiale, del senso in cui questi fili sono mossi da una vite micrometrica. E questo minuto, acutissimo indagare delle piccole cause d’errore conduce a valori sempre più esatti dei numeri che si vogliono conoscere; e questi numeri hanno in sè latente il segreto delle leggi che l’Astronomia dell’avvenire aggiungerà a quelle di Keplero e di Newton. Noi conosciamo ormai le rivoluzioni interne del nostro sistema; possiamo tracciare l’orbita di ciascun pianeta intorno al Sole; sappiamo anche, per via di approssimazione grossolana, che il benefico astro si trasporta con tutto il suo corteo di pianeti, di satelliti e di comete in una direzione che gli astronomi del secolo nostro hanno stabilita nella costellazione di Ercole. È una traslazione di tutto questo grande insieme di corpi, collegati fra loro dalla mutua attrazione, attratti alla lor volta da non sappiamo quali altri potentissimi centri di forza. Probabilmente il tratto rettilineo dal quale ci siamo spostati dal 1750, epoca delle prime osservazioni rigorose, ad oggi, non è che un arco infinitesimo di un’orbita che il Sole descrive in centinaia e centinaia di secoli; le deviazioni successive ci saranno indicate dai nuovi punti della vôlta celeste verso i quali tenderà il movimento nostro. E come tal movimento si riconosce? Come i filari di alberi che fiancheggiano un viale sembrano convergere dalla parte donde veniamo e divergere dalla parte ove siamo diretti, così le stelle paiono allontanarsi dal punto del cielo cui tende il moto di traslazione e avvicinarsi al punto diametralmente opposto. È presto detto; ma per riconoscere tale divergenza e tale convergenza occorrono osservazioni rigorose, continuate per secoli! E poi c’è da sceverare il movimento del sistema solare dai movimenti proprii delle stelle, che si trasportano in vario senso, gravitando verso mondi a noi non sempre noti!
È vecchia l’Astronomia di precisione, i suoi metodi non hanno più bisogno di nuove applicazioni e di nuovo sviluppo. Sarà benissimo; ma intanto come è che le determinazioni astronomiche nei vari punti del globo ci conducono a conoscere sempre meglio la figura di esso, a studiare le attrazioni che le catene di monti e i continenti esercitano sopra il filo a piombo? Non è con le osservazioni di Astronomia geodetica che noi pesiamo le montagne, e determiniamo il rapporto fra la loro densità negli strati inaccessibili e la densità media della terra?
Sempre nel medesimo campo, non sono ancora passati dieci anni dal giorno in cui le ricerche del Küstner sulla latitudine di Berlino rivelarono il fenomeno singolarissimo dello spostarsi periodico dell’asse terrestre nell’interno del globo. Il polo non è fisso: noi dagli osservatorii nostri, con gli strumenti e i metodi precisi dell’Astronomia riconosciamo i suoi piccoli movimenti, dell’amplitudine di pochi metri, e ne stabiliamo i periodi, che forniscono nuova luce all’antica questione dello stato interno della terra.
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Tutto questo, ed altro ancora, che ommetto, per non abusare della vostra pazienza, nel campo della vecchia astronomia, che si dice abbia fatto testamento con Bessel e con Struve, mezzo secolo fa. Ma c’è di più: dal 1860 in poi è sorta un’altra astronomia, che, valendosi di mezzi affatto diversi, affronta e risolve problemi affatto diversi. Con lo spettroscopio, il fotometro e la fotografia si è instaurato la Fisica del cielo; e questa nuova Astronomia è già tanto avanzata, da rispondere a domande che la antica, la classica Astronomia non avrebbe mai osato proporsi. Due cose, con precipitazione non troppo filosofica, vietava Augusto Comte alla curiosità degli astronomi, come trascendenti il limite delle loro facoltà di investigazione: il conoscere la natura chimica degli elementi che costituiscono gli astri e lo stabilire un’Astronomia dei corpi oscuri. Ora chi non sa che la principale applicazione dello spettroscopio è quella che si fa comunemente all’analisi chimica dei materiali che ardono nel Sole e nelle stelle? Quanto al secondo enigma comtiano, le due Astronomie, vecchia e nuova, si son date la mano per risolverlo in parecchi casi. Le ricerche di Auwers e di Lodovico Struve sui movimenti irregolari di Sirio e di Procione hanno rivelato l’esistenza di astri invisibili per noi, che si aggirano intorno a queste stelle e ne producono gli osservati spostamenti. Risalendo dall’effetto alla causa (come già aveva fatto Leverrier con la scoperta di Nettuno), si è potuto determinare il luogo e la massa di questi astri oscuri. Con metodo diverso, discutendo i risultati delle sue fotografie dello spettro di Algol, il signor Vogel a Potsdam ha potuto dimostrare nel 1889 che le periodiche diminuzioni della luce di questo astro, che tanta meraviglia avevano destato nel nostro Montanari, quando le scoperse nel 1670, non sono altro che ecclissi parziali, dovute all’interposizione di un satellite oscuro, che si avvolge intorno ad Algol; e il Vogel ha tracciato l’orbita di questo satellite, e ne ha stabilito le dimensioni rispetto all’astro principale.
Così ho risposto, mi pare, alla prima e meno seria delle obbiezioni, che le persone colte muovono all’astronomia. Essa ha fatto molto, ma molto ancor più le rimane da fare; e nessuno può dire che cosa le riserva il futuro. Anche noi, come faceva Lalande un secolo fa, possiamo ripetere le parole di Seneca: “Neppure a chi nascerà fra mille secoli sarà tolta occasione di aggiungerle alcun che„ — “(Nec ulli nato post mille saecula praecludetur ocasio aliquid adhuc adjiciendi)„.
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Veniamo al secondo punto. Quale vantaggio materiale immediato arreca all’umanità l’accumularsi di codeste nuove cognizioni?
Rispondo subito, candidamente: Non lo so e non mi curo di saperlo.
Forse che Regiomontano, compilando le sue tavole astronomiche nella prima metà del secolo decimoquinto, pensava che Cristoforo Colombo se ne sarebbe servito per traversare l’Oceano alla ricerca di un nuovo mondo? E chi avrebbe detto a Newton e a Laplace che i loro teoremi, ideati nella sterile curiosità di calcolare le attrazioni mutue dei corpi celesti, avrebbero servito di fondamento alla teoria delle forze newtoniane e quindi all’Elettricità e al Magnetismo? Proprio così: quella mirabile applicazione industriale della scienza, che noi chiamiamo Elettrotecnica, proviene direttamente dalle teoriche sul sistema dei mondo: Newton e Laplace generarono Coulomb e Maxwell, Coulomb e Maxwell generarono Edison e Galileo Ferraris. Ma, senza scendere ad altri particolari, non è stata la soluzione dei problemi astronomici la spinta più decisiva sino al nostro secolo per lo studio delle matematiche pure? E la Meccanica sopratutto, che oggi informa e governa razionalmente gli studi d’ingegneria, dianzi limitati al più sterile empirismo, la Meccanica non è stata creata per servire ai bisogni dell’Astronomia?
Si rassicurino, adunque, gli spiriti pratici, gli utilitari, per i quali le specole e i telescopi non rappresentano nulla più che capitali immobilizzati e gli astronomi oziosi parassiti, estranei alla vita agitata e progressiva del corpo sociale che li mantiene. L’Astronomia vi chiede denari, ma paga, e paga generosamente i suoi debiti; non è un’immobilizzazione che fate, è un contratto sicuro, fruttuoso. Uno storico inglese, se non erro il Macaulay, ha fatto notare che il primato marittimo ha sempre appartenuto alle nazioni che tennero in maggior conto gli studi astronomici: prima ai Fenici, che portarono sul Mediterraneo le cognizioni astronomiche dell’Assiria e della Caldea; in seguito ai Greci, quando seppero trasformare al lume delle verità geometriche da loro scoperte l’empirismo dell’Astronomia asiatica nell’eleganza armoniosa e nella scientifica razionalità dei sistemi di Eudosso e della scuola di Alessandria; durante le tenebre del Medio Evo, avanti le Crociate, agli Arabi, depositari e continuatori della tradizione ellenica; poi, gradatamente, ai popoli europei che con questi ebbero successivi contatti per guerre o per commerci, prima i Francesi e le repubbliche italiane, Genova, Venezia, Amalfi, appresso e più intimamente gli Spagnuoli e i Portoghesi. Rifioriscono nel decimoterzo secolo gli studi del cielo nella penisola iberica, grazie al re Alfonso di Castiglia, il quale forma l’anello di congiunzione fra gli astronomi arabi e quelli del Rinascimento; da quel secolo e dal successivo data lo sviluppo navale di quei paesi e la fatale decadenza delle repubbliche nostre. Nel quattrocento, gli umanisti rinnovano in Italia, e specialmente a Firenze, il gusto della letteratura greca, traggono dall’oblio dei vecchi codici polverosi molte opere classiche, fanno rifiorire e diffondono la filosofia platonica, incline per logica predilezione allo studio e alla contemplazione delle armonie celesti. È in questo centro genialissimo di vita intellettuale che l’Astronomia rinasce al soffio dei tempi nuovi, grazie a Paolo dal Pozzo Toscanelli. Di lui, della sua azione straordinaria sul movimento delle idee nel quattrocento, del suo merito di restauratore dell’Astronomia (ingiustamente attribuito sino ad oggi al Peurbach e al Regiomontano) ha scritto con profonda dottrina e con sincero entusiasmo il professore Gustavo Uzielli, in un grosso volume testè uscito. L’erudito ed amoroso biografo ha saputo rendere con particolare vivezza di colori l’ambiente in cui si trovava il Toscanelli: ivi, come in tutta l’Italia, al rinascimento delle arti e delle scienze si accompagnava un triste decadimento degli ordini politici, una funesta rilassatezza de’ costumi, una serie dolorosa di sintomi precursori del periodo di fiacchezza, di umiliazione e di servitù, che è durato dalla caduta di Firenze sino ai giorni nostri. La mente poderosa del maestro fiorentino dava forma precisa e concreta alle vecchie speculazioni sulla rotondità della Terra e sull’esistenza di continenti abitati agli antipodi, esistenza negata con tanta ostinazione e da Lucrezio e da Lattanzio e da Sant’Agostino e da Sant’Isidoro e dal venerabile Beda; ma intorno a lui mancavano le energie necessarie per muovere alla ricerca del nuovo mondo, da lui vaticinata e additata a Cristoforo Colombo. I tempi di Marco Polo e di Leonardo Pisano erano passati, e l’immortal Genovese doveva chiedere ad altri che agli Italiani l’aiuto necessario per l’alta impresa!
La prosperità marittima della Spagna, giunta al culmine per la scoperta dell’America, crolla nel 1588 per la distruzione della grande armada, spedita da Filippo II nel golfo di Biscaglia contro gli Inglesi, ai quali passa il dominio degli oceani; e lo storico loro non sa se debba attribuire la potenza navale britannica piuttosto a quella catastrofe, che all’impulso dato dai bisogni della navigazione alle ricerche astronomiche. Certo gli Inglesi, che sono pur dotati di senso pratico squisito, non hanno mai lesinato sussidi e favori all’Astronomia. Nel 1675 un’ordinanza di Carlo II fonda l’Osservatorio di Greenwich, con la missione di “rettificare le tavole dei movimenti celesti e le posizioni delle stelle fisse, affinchè si possa trovare la longitudine in mare, cosa sommamente desiderabile per il perfezionamento dell’arte nautica„. Un secolo dopo il Lalande può scrivere le seguenti parole: “Je fus temoin du zèle que le roi d’Angleterre avait pour l’Astronomie; il me dit que c’etait lui qui avait voulu que Herschel portât son telescope jusqu’à 40 pieds; et comme je lui faisais des remercimens pour les astronomes, il me fit cette réponse édifiante: Ne vaut-il pas mieux employer son argent à cela qu’à faire tuer des hommes?„
Ed oggi, in questo scorcio di secolo tanto agitato per la conquista dei beni materiali, mentre tutto sembra tendere alla soddisfazione immediata dei desiderii e delle cupidigie, quale popolo contrasta al forte, al pratico, al positivo popolo britannico il primato nel promuovere, aiutare, favorire splendidamente gli studi astronomici? Appunto quel popolo che la rettorica infestante le nostre scuole, i nostri libri, i nostri giornali ci ha fatto credere il più volgare, il più utilitario, il meno aperto alle manifestazioni del bello e del sublime, quel popolo che noi ci raffiguriamo volentieri a null’altro intento che a scavare minerali preziosi, a imballar cotone, a insaccar carne salata! Agli Stati Uniti è possibile che il direttore dell’Osservatorio di Harvard College pubblichi sulle gazzette quotidiane un avviso di questo genere: “Per alcune ricerche astronomiche importanti che si propone di iniziare, l’Osservatorio ha bisogno di un fondo straordinario di cinquanta mila dollari. Coloro che intendessero fornire tal somma, o parte di essa, si rivolgano al Direttore, professor Pickering„. Immaginate, signori miei, le risate che si farebbero da noi, se il più illustre degli astronomi viventi, che è Italiano, ardisse fare una simile comunicazione ai giornali?
Laggiù, in quel grande e libero paese, l’Astronomia è insegnata persino nelle scuole elementari, come ci ha detto recentemente un’accurata relazione del Ghisleri; e vi hanno tributo di plauso e destano la più nobile emulazione i generosi che, al pari di Lick e di Kennwood, spendono milioni di dollari per fondare nuovi osservatorii. In Italia chi sa che il dottore Cerulli ha collocato a sue spese un refrattore di 15 pollici a Collurania presso Teramo, e vi attende con grande passione alle ricerche e alle misure astronomiche?
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Grandi sono adunque i benefizi che l’umano consorzio riceve dall’astronomia, anche se la divisione del lavoro, applicata con tanta larghezza a’ giorni nostri, impedisce al volgo di accorgersene continuamente; maggiori ancora sono quelli che se ne possono attendere in avvenire, e in ogni modo tali da compensare largamente la munificenza dello Stato e dei privati. Ma quando anche tutto questo non fosse, quando “per la vita„ materiale dell’uomo non servisse proprio a nulla il guardare gli astri, la scienza del cielo sarebbe sempre, in grado eminente, una “scienza per la vita„. Perchè, o signori, al difuori e al disopra della vita materiale, de’ suoi bisogni, delle sue esigenze, delle sue necessità spesso umilianti per l’uomo e per la società, noi abbiamo una vita del sentimento e dell’intelligenza, una vita che ci differenzia dagli altri animali, “cui natura„, come dice Sallustio, “fece proni e obbedienti al ventre„2. La storia intera del pensiero umano, di tutte le sue lotte, di tutte le dispute fra le diverse scuole filosofiche, di tutte le aspirazioni a conoscere il vero, di tutte le illusioni create dalla fantasia dei poeti, di tutti i sistemi escogitati dalle menti più riflessive, di tutte le teologie, si può dire impregnata da capo a fondo di Astronomia. Seguiamo gradatamente l’evoluzione del pensiero, quale è tracciata da Augusto Comte nel suo Sistema di filosofia positiva, che il Littré e lo Stuart Mill hanno su questo punto validamente difeso dalle critiche superficiali e farraginose di Herbert Spencer. Che cosa determina presso le civiltà primitive il passaggio dalla forma di religione più ignobile ed irrazionale, il feticismo, a quella che noi troviamo anche presso popoli più progrediti, il politeismo? Null’altro che l’osservazione dei fenomeni celesti, la quale promuove in noi lo sviluppo del sentimento fondamentale dell’invariabilità delle leggi naturali. “La primitiva tendenza o istinto dell’umanità„, dice stupendamente lo Stuart Mill, “sta nell’assimilare tutte le azioni che essa scorge in natura alla sola della quale sia direttamente consapevole, la propria attività volontaria. Ogni oggetto che le sembri originare forza, cioè agire senza aver prima ricevuto una sollecitazione esterna, riceve da essa (o ne può ricevere) vita, coscienza, volontà„. Il feticismo adunque, cioè il culto di tutti gli oggetti dotati per antropomorfismo di attività somiglianti alle nostre, è il primo stadio del cammino che la mente dei popoli deve percorrere per giungere a un concetto positivo dei fenomeni naturali; ed è logico e degno di nota il fatto concordemente stabilito dagli etnologhi, che in ogni paese i feticci sono capricciosi, crudeli, violenti, lussuriosi, più temuti che amati. Quale prova più evidente che essi sono creati “ad immagine e somiglianza dell’uomo?„
I fenomeni celesti con la regolare e periodica loro successione scuotono la fede e il terrore in queste capricciose personificazioni degli agenti naturali. Non è quando da secoli si vede ogni giorno il Sole sorgere a levante, salire e coricarsi dalla parte opposta, che si può persistere nell’opinione che l’astro benefico si riposi ogni notte in un letto, o vada la sera, anelante per il caldo, a rinfrescarsi nell’acqua del mare. Il costante alternarsi a intervalli ben determinati delle fasi lunari modifica pure gradatamente i pregiudizi e le favole che i popoli, uscendo dallo stadio di barbarie, avevano ideato per rendersi ragione di questo fatto. Non è possibile, fuorchè a coloro cui sia sfuggita la regolare vicenda delle lunazioni, credere che la Luna diminuisca perchè rosicchiata dai topi, come pensavano certi Indiani dell’America settentrionale, o perchè divorata dagli spiriti dei defunti, opinione professata dai selvaggi della Polinesia, o perchè, giusta l’avviso degli Ottentotti, presa da un mal di capo, essa porti la mano alla fronte. Meno male quando, come i Messicani e gli antichi Slavi, si ritiene che la lunazione rappresenti le fasi di una lotta coniugale fra il Sole e la Luna; la periodicità dei fatti può sembrare più verosimile in questo caso!
Se tante stravaganze hanno potuto idearsi a proposito di un fenomeno soggetto a leggi così evidenti, ognun può comprendere la sopravvivenza di strane superstizioni ispirate al più grossolano feticismo, in epoche religiosamente progredite, a proposito di fenomeni più rari, dei quali l’ordine di successione appariva meno evidente. Le ecclissi, per citare un esempio, a quante pratiche di abbietta idolatria non hanno dato occasione ancora molti secoli dopo la sostituzione di un Dio unico alla miriade di “Dei falsi e bugiardi?»„ Oggi ancora nel linguaggio astronomico la rivoluzione della Luna rispetto ai punti nei quali può venire ecclissata si chiama draconitica, residuo (puramente nominale per fortuna) dell’opinione che attribuiva presso i Caldei le scomparse dell’astro a un dragone che lo divorava. E gli urli, gli schiamazzi e i rumori di ogni sorta, che si usavano fare, durante le ecclissi, dai Peruviani come dagli aborigeni delle Antille, dagli Indiani come dai Norvegesi, alle scopo di allontanare gli spiriti malefici che facevano ammalare la luna, o gli animali mostruosi che la ingoiavano, queste manifestazioni clamorose di stupido feticismo non sono durate, attraverso al classicismo greco e romano, sino all’epoca cristiana? Le biasimava acerbamente, nel quinto secolo dell’êra volgare, il fondatore della chiesa torinese, san Massimo: “Sembrerebbe„, egli dice in una omelia de defectu lunae, “che si volesse recar soccorso al Creatore, come se Dio, che ha fatto gli astri, non fosse in grado di difenderli e di sostenerli„. Parole d’oro, che il savio vescovo potrebbe ancor oggi quasi testualmente ripetere a’ suoi successori, quando (in tanta luce di scienza e di civiltà) fanno suonar le campane per respingere il fulmine e la gragnuola!
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Le rappresentazioni della divinità si vanno facendo sempre meno grossolane e materiali, quanto più la mente umana si va emancipando dalla paura di avvenimenti misteriosi, prodotti da forze cieche e stravaganti; ed è sempre l'Astronomia che guida il pensiero ad una più esatta nozione delle cose che stanno intorno all'uomo. I fenomeni celesti si possono prevedere: basta questa semplicissima nozione di fatto per sollevare l’anima umana dallo stadio di abbrutimento e di umiliazione in cui la teneva l’incubo del feticismo, e per darle la coscienza del suo valore. Il Sole ricompare ogni mattina all’orizzonte orientale: sono anni, sono secoli che la sua ricomparsa è notata, senza eccezioni, senza variazioni, senza capricci. È dunque naturale il credere che una volontà superiore a lui lo muova, e che noi non dobbiamo temere che a tale volontà egli possa, o pensi sottrarsi. La mente si avvezza a riconoscere le cause dei fenomeni in particolari manifestazioni di volontà esterne ai fenomeni stessi, volontà che possono essere molteplici, tante quanti sono i fenomeni o le classi di fenomeni, ma che hanno un carattere più astratto e più nobile delle volontà che il feticismo attribuiva agli oggetti. Il culto degli astri è l’anello di congiunzione fra il feticismo e il politeismo; dapprima gli astri si adorano in sè e per sè, poi quali espressioni sensibili di volontà soprannaturali. Il cielo incomincia ad apparire come la sede normale, eterna, incorruttibile degli dèi; se alcuni rimangono in terra, o sotto la terra, sono gli dèi malefici, gli dèi minacciosi, quelli che rappresentano ed informano le forze naturali ancora e per lunga serie di secoli inesplorate dall’uomo, il fuoco, i contagi, il tremuoto, la burrasca. L’antagonismo fatale fra i due principii opposti, fra il bene e il male, fra Ormuzd e Arimane, fra la vergine e il serpente, fra la luce e le tenebre, fra il paradiso e l’inferno, non è altro che la forma simbolica del contrasto che tutti i popoli primitivi hanno creduto di riconoscere fra l’augusta regolarità immutabile dei fenomeni celesti e la capricciosa e spesso terribile vicenda delle cose terrestri.
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Ma all’ordine del succedersi i movimenti degli astri uniscono un altro carattere di insuperabile vaghezza e di portata immensa nello sviluppo del pensiero umano, l’ordine di loro coesistenza. Spetta all’astronomia ellenica il vanto di aver notato, ammirato, sentito in tutto il suo fascino misterioso questo lato del sistema del mondo, collegandolo alle speculazioni sublimi delle scuole di Pitagora e di Platone sulle leggi dei numeri, delle figure e dei suoni. Il vero e il bello si fondono nel gruppo di discipline che il Rinascimento ereditò dalla Grecia e sotto il nome di quadrivio contrappose nelle sue scuole alle arti del trivio, che erano (com’è noto) la Grammatica, la Dialettica e la Rettorica. Solo quel popolo che creò la Venere di Milo, il Partenone, le odi di Pindaro e i dialoghi di Platone poteva intuire ed erigere a canone filosofico il nesso arcano fra l’Aritmetica, la Geometria, la Musica e l’Astronomia; e solo un popolo presso il quale il gusto estetico sia degenerato e guasto da un verismo grossolano, da un fiacco sensualismo, da un impressionismo nevrotico e superficiale, può bamboleggiare, con rettorica veramente e più che mai da trivio, di scienze aride, ovvero di musica algebrica. Il medesimo senso altissimo di estetica idealità anima il filosofo ateniese nel detto famoso: “Sempre Iddio geometrizza„, ed il cantore di Lohengrin quando scrive: “La musica ci si rivela per sua natura come la favella immediata del cuore„. Nè diversamente si esprime, a detta di Laerzio, Anassagora da Clazomene, fiorito nel quinto secolo avanti Cristo; il quale, richiesto perchè trascuri i privati e i publici negozi, risponde, additando il cielo, di “essere appunto nato a fine di speculare intorno al Sole, alla Luna e agli astri„ (imo se natum, ut specularetur solem, lunam, coelos).
Presso i Greci, l’Astronomia non si coltiva più che per sè stessa, per l’intima soddisfazione che essa dà alle menti, mostrando loro nelle armonie dell’universo la conferma delle armonie sentite entro di noi. L’avida curiosità di leggere negli astri il destino degli uomini, che era stata l’incentivo più potente allo studio del cielo presso i popoli asiatici, e che doveva poi informare la scienza del Medio Evo al tipo astrologico sino ai tempi di Keplero, ha un’importanza affatto secondaria nel movimento dell’Astronomia ellenica, rispetto alle nobili aspirazioni dei filosofi verso la conoscenza delle leggi misteriose che governano il mondo. A ragione, adunque, il Tannery attribuisce a questo disinteresse nella ricerca del vero gli enormi progressi fatti nel breve volgere di pochi secoli dall’Astronomia; progressi non certamente comparabili con il pigro svolgimento di questa scienza fra i popoli orientali e con le sue condizioni quasi stazionarie nel periodo successivo, che va dalla pubblicazione dell’Almagesto di Tolomeo alle osservazioni di Paolo Toscanelli e alla comparsa dell’opera di Copernico: “De revolutionibus orbium coelestium„.
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Ma l’ordine di coesistenza e di successione (ordine che si potrebbe dire di armonia e di melodia) nei movimenti celesti doveva, rivelandosi alla filosofia ellenica, preparare in essa una evoluzione ancor più profonda e più benefica di quella che già l’Astronomia aveva prodotto dal feticismo al politeismo. Non bastava sostituire agli idoli gli dèi, per rendere conto dell’accordo che regna in cielo. Pur separandosi ognor più, per l’aumentato senso della dignità umana, dai caratteri bestiali che l'uomo aveva loro attribuito nei primordi della civiltà, pure conformandosi con sempre maggior nobiltà al tipo più elevato di uomo che si andava svolgendo, gli dèi rimanevano sempre uomini, appassionati, violenti, discordi. Nell’Iliade come nell’Edda, sull’Olimpo come al Walhalla, le medesime ire, le medesime controversie, le medesime lotte, triste e lacrimevole immagine delle lotte fra uomini. Come conciliare il carattere di instabilità insito nel politeismo con quel concetto di unità che l'osservazione dei fenomeni celesti andava sempre più confermando nelle menti? Nello spazio come nel tempo le leggi degli astri appaiono coordinate fra loro e conducono il pensiero riluttante a riconoscere una volontà suprema che tutte le altre domina e reprime. 11 germe della forma monoteista è nato dovunque l’Astronomia abbia fatto progressi sufficienti per ricondurre a unità di disegno le cause, in apparenza svariate, dei fenomeni celesti. “Ogni nazione„, scrive Giacomo Leopardi, “ha avuto i suoi dèi particolari; ma il sole è stato il dio dell’universo„. Osiride in Egitto, Baal presso i Fenici, Sourya, Savitri o Visnù fra gli Indiani, nella Grecia a volte Bacco o Dionisio, più spesso Apollo, talora persino Giove, il benefico astro è il simbolo della forza, della vita, del calore, della luce, che egli spande a torrenti sulla terra. Gli stessi Ebrei, questo popolo privilegiato che da tempi remotissimi possedeva gli elementi della dottrina che deve rinnovare il mondo, non erano continuamente portati a confondere il Sole e gli altri astri con Iehova, del quale esprimevano la potenza?
È presso i Greci che l’Astronomia progredita riesce meglio a sostituire i vecchi dèi, subordinandoli gradatamente a un principio unico, che informa e regola tutte le cose, che è, secondo le parole attribuite a Pitagora, “il motore di tutti i secoli, l’autore immediato dei suoi prodigi e delle sue opere, il lume del cielo, il padre, la mente, l’anima del tutto„. Quanto siamo lontani dalle degradanti e paurose fantasie dell’idolatria primitiva! E come il consenso quasi universale dei poeti e dei pensatori, modificando progressivamente il concetto della divinità, prepara il trionfo della forma più elevata di monoteismo, il cristianesimo! Non senza lotta, però: tutte le teologie sono intolleranti e credono di trovare il loro punto d’appoggio nella violenza e nella persecuzione, quando loro manchi il libero consentimento delle opinioni; la condanna di Galileo per avere sostenuto la dottrina copernicana trova il suo riscontro in quella di Anassagora, reo di empietà contro Apollo, per avere affermato essere il Sole null’altro che una massa di fuoco, più grande del Peloponneso.
La filosofia greca è dunque la naturale e logica preparazione del fatto più memorabile e più benefico che la storia ricordi, il sorgere del mondo cristiano sulle rovine del paganesimo greco-latino. La parola sublime di carità e di amore del Nazareno trova le menti già disposte ad accoglierla nella sua forma dogmatica, perchè già in tutte le classi della società è penetrata l’opinione che il mondo, e gli dèi stessi, dipendano da una volontà superiore e perchè gli attributi di questa volontà sono gli stessi che la dottrina nuova assegna all’unico Dio. È tanto facile e naturale la transizione dall’una all’altra forma, che, siccome osserva profondamente lo Stuart Mill, gli stessi cristiani non hanno neppur bisogno di negare l’esistenza degli dèi dianzi adorati, bastando loro di relegarli all’inferno e di subordinarli all’onnipotenza del nuovo Dio, appunto come già i pagani li avevano sottoposti alla sovranità di Giove. Non figurano e Caronte e Minosse e Plutone fra i demoni dell’inferno dantesco? E la Venere impudica della mitologia non compare in pieno Medio Evo, nella leggenda di Tannhäuser?
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È ancora l’Astronomia che dissipa le tenebre dell'età di mezzo e instaura la filosofia positiva, libera dai ceppi del dogma e della scolastica, indagatrice spregiudicata del vero. Crederei fare torto ad un eletto uditorio quale è il mio, se mi diffondessi a parlare di questa, che è la più fulgida gloria della scienza astronomica. La redenzione del pensiero umano, tutto quell’immenso movimento di idee che ha condotto dall’aristotelismo autoritario cristallizzato e dalla rigida inflessibilità della Summa di San Tommaso al libero esame, alla riforma, alla dichiarazione dei diritti dell’uomo, tutta quella vita nuova che hanno acquistato, al soffio delle nuove dottrine, le scienze naturali, la Meccanica, la Fisica, la Medicina, la Biologia, la Sociologia, tutto viene da quel primo impulso irrefrenabile che l’astronomo di Thorn imprimeva nel 1543, pubblicando la sua opera immortale sulle rivoluzioni celesti. Voi la conoscete, nelle sue linee principali, questa storia gloriosa: non è a voi che io ho bisogno di ricordare i nomi di Niccolò Copernico, di Giovanni Keplero, di Galileo Galilei, di Isacco Newton. Voi sapete che a questi quattro sommi instauratori della nuova Astronomia si deve il crollo di quel meschino concetto geocentrico, per il quale l’infinito universo era creato per noi, esclusivamente per noi. Ad un gretto osservatore potrà sembrare poco importante che la Terra si muova, anzichè star ferma al centro dell’universo; un “purus mathematicus„ vi dirà anzi che per la teoria dei moti relativi tanto vale che il Sole giri intorno alla Terra, come che la Terra giri intorno al Sole. Ma chi consideri gli effetti filosofici della riforma copernicana, e veda da essa con l’idea geocentrica scossa e demolita anche l’idea antropocentrica, e rinnovate le leggi che assegnano il luogo dell’uomo nell’ordine universale, comprende e ammira la titanica lotta che si è combattuta per quasi tre secoli, onora di plauso e di gratitudine i vincitori, scusa e spiega l’accanimento delle forze conservatrici, radunate intorno alla Chiesa cattolica per difendere il principio di autorità fossilizzato nel dogma.
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Quale trasformazione nel concetto che l’uomo aveva di sè stesso e del mondo! Non più egli è il centro della creazione, il re degli animali: ben lo è sulla terra, ma chi può dirgli se in altri mondi più potenti energie si manifestino in esseri dotati di intelligenza superiore? Ricordo, o signori, il verso terribile di Pope, a proposito di tali esseri ipotetici:
And schew’d a Newton as we shew an ape3.
Più soavemente, con quella tersa e sconsolata poesia che rispecchia il dolore di un’anima grande, impaurita dal tremendo mistero della vita umana e de’ suoi destini, cantava il nostro Leopardi dalle falde del Vesuvio:
Sovente in queste piaggie,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vôto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch’a lor sembrano un punto,
E sono immense in guisa
Che un punto a petto lor son terra e mare
Veramente; a cui
L’uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto: e quando miro
Quegli ancor più senz’alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch’a noi pajon qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutto in uno
Del numero infinito e della mole,
Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così pajon come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell’uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell’universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co’ tuoi piacevolmente; e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
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È triste la conclusione alla quale sono arrivato: le lacrime del misero cantore di Nerina riassumono le lacrime dell’umanità, che da secoli e secoli si affatica per sollevare il misterioso velo di Iside. È triste, ma non è selvaggia come la conclusione che Tommaso Huxley, il più fedele discepolo di Darwin, è onestamente costretto a ricavare da quelle leggi dell’evoluzione organica, troppo leggermente proposte ai giorni nostri come regolatrici, per estensione analogica, dell’umano consorzio. No, l’etica non si fonda copiando nelle società umane il principio della “lotta per l’esistenza„ che informa l’evoluzione delle specie organiche; è più caro all’uomo che ama, che spera, che soffre, intravvederne le leggi attraverso le armonie celesti. Il filosofo tedesco che nello scorso secolo, precorrendo Laplace, ha fondato la teoria dell’evoluzione cosmica, Emanuele Kant, ha scelto ad epigrafe della prima parte della sua opera su questo soggetto i seguenti versi di Pope:
Look round our World; behold the chain of Love
Combining all below and all above4.
Ecco l’ultimo ammaestramento che a noi dà l’Astronomia. L’inesorabile successione degli avvenimenti celesti, la vicenda non più misteriosa dei giorni e delle notti, l’alternarsi delle stagioni, i moti lenti e solenni degli astri, tutto ci insegna essere “vano nelle Fata dar di cozzo„; i mondi corrono (e noi con essi) a destini impenetrabili, contro i quali è stolto adirarsi, perchè non li conosciamo. La legge universale dell’amore, che Cristo ha predicato agli uomini, è scritta nel segreto che Newton rapì al cielo. Al cielo, con aspirazione più volte millenaria, solleva la fronte irradiata dalla fede il credente; al cielo chiede conforto e speranza l’anima travagliata dal dubbio e dal dolore. E se il cielo non risponde, se nella sua tacita e serena imperturbabilità non ode le preghiere dei mortali, il pensiero umano, che nella sua lenta evoluzione attraverso i secoli ha veduto i suoi passi illuminati attraverso le tenebre dell’ignoranza dalla face dell’Astronomia, dall’Astronomia aspetta fidente, amoroso, nuova e più fulgida luce.
Note
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Questi segnano spesso orribil mali
Le lampanti comete, e stragi, e morti
Traggon seco tai fiamme, e minacciando
Pire mai sempre accese al mondo vanno,
Posciacchè l’universo, e la natura
Nuovo sepolcro riscontrando inferma.
Anzi le guerre ancor del Ciel le faci
Usan predire, e i subiti tumulti,
E le rubelli da secreti inganni
Armi snudate...
(Versione del Bandini).
- ↑
Pronaque cum spectent animalia coetera terram,
Os homini sublime dedit, coelumnque videre
Jussit, et erectos ad sidera tollere vultus.
Ovidio.
- ↑ E si mostravano un Newton, come noi ci mostriamo una scimmia.
- ↑
Regarde notre monde; en haut, en bas, partout
Une chaîne d’amour enlace ce grand tout.