Iride/Il Disertore
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Il Disertore
Vent’anni son trascorsi |
Che si fa in queste lunghe sere d’inverno, sotto il camino, intanto che fuori nevica o il bracco ringhioso legato alla catena abbaia sinistramente?
Il fattore ammucchia legna sul focolare e vi stende all’ingiro le sue ghette di pelle; la coperta del cavallo vi trova posto anch’essa — è il tappeto di Pascià, il gatto di casa — e la fiamma scoppietta alta e chiara lambendo su in alto la cappa affumicata.
I polli sono tutti rinchiusi? Le vacche dormono? Il nuovo garzone si ricorderà di andare a mungere alle quattro? Bene. Non bisogna poi dimenticare, alle cinque, di tener pronta la carrettella.
S’è visto il sensale? No. Cercheremo avena al curato.
Gli affari sono finiti. Si può ben fare quattro chiacchiere vicino al fuoco. È un freddo indiavolato e si sta bene qui.
Quante generazioni hanno preso posto sotto questa cappa grande come una camera!
Le memorie del passato devono correre intorno a questa fiamma giuliva a scaldarvisi come ad una seconda giovinezza.
Chi sa qualche storia del buon tempo antico? — storia di ladri, di streghe, di fantasmi o di principesse erranti?
La storia c’è, ma non è poi tanto antica, e di stregonerie punte.
Peccato.
È una storia di questi paesi e di questo focolare.
In una giornata dell’autunno mille e ottocento cinquantadue una carrozza usciva da Milano per la porta Romana, e infilando lo stradone dritto tra le due file d’alberi che l’autunno ingialliva, avviavasi per le campagne del Basso Milanese.
A vedere quella carrozza ampia, bassa, con due piccoli vetri agli sportelli, coperta da un mantice che pareva una montagna — e quei due cavalli dal pelo rosso e sudato, dalle zampe grosse, fasciati a un par di ginocchi, si capiva subito che era roba da affittaioli.
Il villano che conduceva la carrozza, preoccupato della sua tuba colla coccarda, poco pratico delle redini e fiducioso, pare, nel buon senso delle due bestie si lasciava andare alle dolcezze di un sonnellino all’aperto e stava a cassetto con tanta grazia quanta ne può avere un sacco di cenci sul carro del lavandaio.
Il paesaggio invitava alla calma.
La monotonia degli alberi allineati, i prati verdi fuggenti sotto un cielo grigio, uniforme, la lunga via sempre piana che l’orizzonte tagliava con una linea di pallida porpora — meschino tramonto di un sole freddoloso — i campi disabitati, le rare case, i pochi viandanti, tutto era silenzioso e tranquillo.
Nell’interno della carrozza un uomo ed una fanciulla discorrevano famigliarmente, ridendo, occupandosi poco della strada che conoscevano a perfezione.
Erano fratelli e si volevano un gran bene. Daniele, di molto maggiore, teneva a Clelia le veci di padre.
Non aveva preso moglie per dedicarsi tutto alla piccina. Appariva un omaccione robusto, alla buona, poco complimentoso e meno elegante; ridanciano, tutto cuore; forte e tenero, capace di atterrare un bue con un pugno, e capacissimo di trattenere il fiato per non sciupare le rose di sua sorella, come faceva allora per l’appunto.
Queste rose, ammirabili per la stagione, in numero di tre come le Grazie. riposavano sui ginocchi di Clelia e la fanciulla vi prodigava le più delicate attenzioni.
Lei poi era una bella ragazza, giusta miscela di campagnuolo e di cittadino; fresca ed elegante; robusta e gentile. Era stata in collegio dove si imparano tante belle cose, e uscitane, vi aveva aggiunto di suo la lettura dell’Jacopo Ortis — che era allora molto alla moda — e che l’impressionò assai.
I due fratelli tornavano placidi e sereni dopo aver passato una giornata in città alla placida vita dei campi. Quando furono vicini all’antica Abbazia di Chiaravalle Clelia voltò la testa.
— La tua simpatia — disse Daniele ridendo.
— Sì. Non vedo mai questa vecchia chiesa senza emozione. È poetica, è imponente così tutta nera in mezzo ai prati verdi. Solamente a pronunciare il nome: Abbazia di Chiaravalle! par di sentire un profumo medioevale, delle preci di frati, un tintinnìo di spade, e principesse infelici appoggiate al verone che suonano il liuto.
— Romanzi, romanzi! — esclamò il fratello, scuotendo la testa. — Benedetti romanzi!
A uno svolto repentino, dove la strada tagliata a picco da un lato fiancheggiava un fosso largo e profondo, i cavalli si arrestarono con molta sorpresa del signor Daniele che mise il capo fuori dello sportello, interrogando:
— Che c’è?
Ma prima che il servitore allibito potesse rispondere egli vide due brutti ceffi, i quali per l’appunto tenendo il freno dei cavalli impedivano che le due oneste bestie potessero fare il loro dovere.
Daniele non si sgomentò nè troppo nè poco. In quelli anni e in quei luoghi le aggressioni erano molto frequenti, ma non tutte terribili. Spesso se ne usciva con qualche moneta e con un po’ di spirito — alcune volte anche con una salva di pugni bene amministrati.
Il nostro affittaiolo stava giusto pensando a quale di questi tre partiti gli era meglio attenersi (parteggiando forse istintivamente per l’ultimo) quando da un nascondiglio praticato nelle pareti superiori del fosso saltò fuori un giovinotto alto e svelto, bruno, con uno sguardo audacissimo poco palliato dall’ampia tesa di un cappellaccio nero.
Aveva una sciarpa rossa attraverso la vita e fuori della sciarpa sbucava il calcio di una pistola.
— Imbecilli! — gridò il giovinotto rivolto ai due ceffi. — Non vedete che è il signor Daniele? Lasciatelo andare.
Qui occorre dire che l’aggettivo qualificativo applicato come sostantivo ai due manigoldi fu nel detto e fatto molto più energico di quello che appare in queste pagine — ma lasciamo andare.
Il signor Daniele, mentre da un lato gli si schiarì la faccia a tale comparsa (che ben conosceva il giovinotto e lo aveva più volte sovvenuto di consigli e di denaro), dall’altro non potè nascondere un senso di tristezza, di compassione quasi e minacciò col dito dicendo.
— Ah! birichino, birichino, mi avevano preso per un gendarme, eh? Basta, fate giudizio.
Queste ultime parole furono pronunciate a bassa voce all’orecchio del giovinotto che aveva aperto lo sportello e se ne stava un po’ confuso col piede appoggiato sul predellino.
— Buona sera e buona fortuna! — tornò a dire Daniele visto che colui non si moveva.
Guardandolo bene si accorse che il giovinotto era assorto nel contemplare Clelia. Allora si rizzò in piedi, toccò le spalle del cocchiere e, stando sempre in piedi, così che colla aitante persona nascondeva la sorella, ripetè ben cinque o sei volte come strette da una gran premura:
— Addio, state sano, state bene.
I cavalloni rossi si mossero e la carrozza ripartì.
— Ah! — gridò Clelia mettendo la testa fuori del finestrino — ho perduta una delle mie rose!
— Poco male, rose non ne mancano — borbottò Daniele afferrandola per un braccio e tirandola indietro.
Clelia ricadde sui cuscini della carrozza vicino al fratello e non disse più nulla. Ma aveva veduto il giovane bandito raccogliere la sua rosa.
Il lettuccio che Clelia occupava in casa del fratello era il medesimo che aveva protetto per ben dieci anni i suoi sonni innocenti al collegio delle Orsoline.
Piccolo lettuccio colla sponda di ferro e il materasso di crine, tu solo conosci i pensieri di Clelia — e sai se in quella notte una figura alta e snella, cogli occhi neri e la pistola al fianco, le apparve in una lunga visione di guerrieri, di dame, di frati oranti, di rose, di baci.
Certo è che al mattino, appena levata, spalancò la finestra e cercò collo sguardo la torre dell’Abbazia nereggiante in mezzo ai pioppi, ma nell’appoggiare la mano sul davanzale esterno gettò un piccolo grido di sorpresa e di sgomento — la sua rosa era là.
Quello che provò Clelia non si può dire.
Meraviglia, ebbrezza, paura; un senso vago di sgomento, uno di profonda gioia come quando si trova nella realtà la conferma di sogni lungamente accarezzati.
Il primo impulso riflessivo fu di correre in cerca del fratello, poi si fermò, vinta dalle seduzioni del mistero; felice di averne uno da custodire.
Che cosa avrebbe detto Daniele? Che quella non era la rosa perduta; che lei stessa ve l’avrà dimenticata la sera prima; che i bimbi dell’ortolano la gettarono lassù; che i banditi non si occupano di raccogliere fiori e molto meno di renderli — insomma una quantità di ragioni brutte, prosaiche, logiche che Clelia non voleva ascoltare, perchè Clelia era un po’ romanzesca e adorava le cose fantastiche.
Tenne dunque la scoperta per sè — la rosa anche — restando per lungo tempo alla finestra, coll’occhio fisso sulla vecchia Abbazia e col pensiero perduto in una miriade di sogni teneri e mesti.
Più tardi prese il lavoro, ma non lavorò; più tardi ancora sedette al desco, ma non pranzò. A sera fatta si godetto un’ora deliziosa davanti alla sua finestra prestando l’orecchio ai rumori del vento, guardando le stelle.
⁂
Se a taluno può parer singolare che una gentile fanciulla si preoccupasse di un volgare aggressore, diremo subito che ella conosceva un poco le gesta di quel personaggio — e quel di che Daniele di ritorno a casa disse ai suoi famigli che aveva incontrato il Disertore, Clelia si ricordò a puntino una storia udita le mille volte e commentata dalla simpatia e dalla pietà di tutti.
Il Disertore (così ognuno lo chiamava non conoscendogli altro nome) era il figlio illegittimo di una gran dama, messo al mondo e abbandonato come un trovatello qualunque sovvenuto tratto tratto di denaro, d’affetto mai, ed era cresciuto solitario, bersaglio agli scherzi di coloro che avrebbero dovuto essergli compagni, ombroso e selvaggio, finchè la coscrizione lo colse in mezzo alla vita errabonda.
Se in un paese libero, servire la patria e il re è uno dei più cari doveri, quando è lo straniero che comanda si può nella disubbidienza trovare motivo di plauso. Nè raro era il caso in quelli anni tristissimi di giovani lombardi renitenti alla leva, viventi alla macchia come belve, perseguitati dalla soldatesca e protetti dal popolo.
Il Disertore era conosciutissimo nei dintorni di Chiaravalle dove egli viveva nascosto e dove i gendarmi gli davano continuamente e inutilmente la caccia. Da due anni che era sfuggito alla leva egli scorreva i boschi che crescevano allora foltissimi intorno all’Abbazia e dove malagevole riusciva inseguirlo; molto più che ogni affittaiuolo o villano del paese si sarebbe lasciato tagliare una mano piuttosto che denunciarlo.
Male non ne faceva a nessuno fuorchè ai gendarmi quando si combinavano sulla sua strada. Le aggressioni ai borghesi erano molto rare e finivano quasi sempre all’amichevole; un po’ per compassione, fors’anche per un certo salutare timore, che, quantunque buon diavolo in fondo, non era tutto farina da ostie e a chi gli sbarrava il passo sapeva mostrare nonchè il calcio la duplice canna della sua pistola.
Si narravano di lui fatti incredibili, generosi, commoventi. Era il protettore di tutti i deboli, di tutti gli oppressi. Molte ingiustizie erano state accomodate da lui in modo brusco e sommario, col trionfo dell’innocenza. Aveva sovvenuto di pane una povera vecchia per più di un anno e aveva salvato un bambino di contro a un toro con pericolo grave della vita.
Quanto alle ragazze non si può dire che le lasciasse in pace: ma aveva un modo di far loro la guerra che evidentemente non dispiaceva perchè tra le ragazze appunto egli era oggetto di grande commiserazione.
Si pensava alla sua nascita signorile, ai suoi infortuni, ai suoi begli occhi e si concludeva: Povero giovane.
Clelia pensò per molto tempo al Disertore con una segreta speranza di rivederlo o di avere almeno sue notizie.
Alla sera, prima di mettersi a letto aveva sempre un po’ di paura. Guardava tutti i mobili, chiudeva gli usci e la finestra, investigava le pareti, e quando si era fatta persuasa che non c’era alcun pericolo, — o misteri del cuore! l’assaliva una fiera malinconia.
L’inverno volgeva crudo, misero assai per la povera gente.
Frotte di contadini nomadi invadevano le campagne con un sacco sulle spalle, coi piedi nudi; penetravano nelle case degli affittaiuoli implorando un pezzo di pane e morivano qualche volta sulla soglia di languore e di freddo.
Clelia, pietosa, esercitava largamente la carità pensando che Dio glie la renderebbe in tanta misericordia verso il proscritto che aveva per tetto i nudi alberi e per giaciglio l’umida terra dei boschi.
Si parlava in quei giorni di una persecuzione atroce.
I gendarmi austriaci battevano giorno e notte le campagne; due di essi erano stati uccisi in una lotta corpo a corpo col Disertore. La testa di costui aveva una taglia di quattrocento svanziche.
Nelle lunghe veglie intorno al focolare i famigli raccontavano scene strazianti. Clelia era avida di particolari; tutto ciò che riguardava il Disertore lo teneva attenta, col cuore sospeso. Lo aveva veduto una volta sola, ma quella figura bella e fiera le stava sempre davanti agli occhi. Non immaginava diversamente gli eroi dei suoi romanzi prediletti.
Una sera ad ora tarda, essendo già coricati tutti i domestici, Daniele puliva il suo fucile accanto al fuoco e Clelia lo guardava con quelle pupille immote che dinotano l’astrazione del pensiero.
Da una mezz’ora buona i due fratelli non aprivano bocca, occupati come erano l’uno del suo fucile e l’altra delle sue fantasticherie.
Fuori nevicava.
Lontano lontano l’ululato di un can da pagliaio rompeva il silenzio della notte.
A un tratto due colpi furono bussati alla porta di strada. Clelia si fece pallida. Daniele, calmo, caricò il fucile e mosse ad aprire con un lume in mano.
— Ritirati — aveva detto prima alla sorella.
La fanciulla, invece di ritirarsi, si nascose dietro l’uscio del salotto e di là potè vedere suo fratello che tornava indietro seguito dal Disertore.
All’improvvisa comparsa Clelia non si sentì più padrona di sè stessa. Cedendo all’impeto dei varî sentimenti che l’agitavano, incapace di rimanersene zitta e chiotta dietro l’uscio, pur non osando mostrarsi, ella si diede a correre all’impazzata sotto i portici della cascina, stringendosi il cuore che le voleva scoppiare.
⁂
Un deserto di neve l’arrestò in fine della sua corsa.
L’aia grandissima era tutta bianca; bianchi i gelsi che la circondavano, la siepe, il muricciuolo, il tetto basso della stalla; era un candore generale.
Clelia si fermò un istante. Non sentiva il freddo; non si accorgeva che i piedini le si intirizzivano sul terreno umido. Aveva la testa in fiamme, povera fanciulla!
La campagna nuda e deserta le si stendeva davanti agli occhi sconfinata. Il riflesso della neve la illuminava di una luce mesta che pareva quella di una lampada sopra un lenzuolo mortuario. Clelia fu colta da un senso di paura.
In quel momento lo scalpitare di un cavallo attrasse la sua attenzione e guardando sul sentiero che girava dietro all’orto vide due gendarmi che s’avanzavano dritti verso la casa.
Comprese tutto.
Rifece, più veloce di prima, il portico e la corte; saltò alcuni utensili da contadino che giacevano abbandonati per terra ingombrandole il passo, e comparve nel salotto dove Daniele e il Disertore discorrevano a voce bassa, concitata.
— I gendarmi! — gridò Clelia.
I due uomini si voltarono a quella voce. Clelia non guardò il fratello, guardò il Disertore che ritto in piedi, pallido, s’era levato il cappello davanti a lei.
— Dove sono? — chiese Daniele.
— Sul sentiero dietro all’orto; vengono qui. Odi? Ecco il passo dei cavalli.
Clelia tremava come una foglia guardando sempre il Disertore.
— Volete nascondermi? — disse costui rivolto all’affittaiuolo. — Ebbi fiducia in voi e venni qui sicuro.
— Non vi tradirò — rispose Daniele — seguitemi!
Alcuni colpi fortissimi risuonarono sul martello della porta.
— Non c’è tempo! — esclamò Clelia. — Sono qui.
— Nella camera della frutta — suggeri Daniele rapidamente.
— Non si può entrare, sai, hanno smarrita oggi la chiave.
— Maledizione!
Durante questo breve dialogo il Disertore, immobile, non distoglieva gli occhi dalla fanciulla. Vi fu un istante in cui parve volesse dire qualche cosa; non lo disse; ma allora come se il pensiero di lui portato da una corrente magnetica avesse toccato il cervello di Clelia, ella esclamò con vivacità:
— La finestra della mia camera mette sui campi — è bassa — il bosco è vicino...
Si interruppe; aveva incontrato lo sguardo del Disertore e una vampa di fuoco le coperse il volto.
Bussarono ancora.
— Andiamo! — disse Daniele prendendo il bandito per un braccio.
Egli stesso voleva condurlo nella camera della sorella; intanto i colpi spesseggiavano sulla porta. Una voce tonante gridò: «Aprite in nome della legge».
Non era il momento di discutere, nè di scegliere fra il bene e il meglio. Daniele mosse verso la porta, Clelia guidò il Disertore.
La fanciulla non potè mai ridire a se stessa come fosse riuscita in quell’occasione ad arrivare nella sua camera — nè se aveva parlato durante il tragitto — nè che cosa avesse fatto oltre che aprire la finestra e stringersi tremante contro il muro.
Ma vi fu un punto che non dimenticò nè allora, nè mai più. Fu quando il Disertore, appoggiando un ginocchio sul davanzale della finestra si voltò a guardarla.
Ottimi pedanti, prudentissimi legislatori del buon costume e delle convenienze sociali che prescrivete la misura di uno sguardo fra uomo e donna, che decretate contr rio all’educazione il fissare lungamente una persona fra ciglio e ciglio, ditemi, cos’è quel raggio irresistibile, improvviso, ardente, che lampeggia nelle pupille di due sconosciuti, che li avvince, che li unisce e li stringe più che non farebbe un bacio?
Non si conoscono; nulla sanno l’uno dell’altra, nè donde vengano, nè dove vadano; nessuna memoria li riunisce; non hanno mai pianto nè riso insieme; dovrebbero essere perfettamente indifferenti.
Ma no. Essi, i due predestinati, le due anime gemelle si incontrano, si riconoscono, si abbracciano con uno sguardo. Che importano i nomi? Che importano i destini? Essi si comprendono.
Non ne sarà nulla, verranno divisi, si dimenticheranno, forse, a vicenda — ma si sono amati. Per un minuto, per un istante le due anime vissero in una.
O amore, fra le tue delizie è delizia immensa uno di questi sguardi lunghi, natanti nel raggio di due pupille nere!
Così il Disertore guardò Clelia — e sembrava le dicesse: «Cara, invano apparisti sul mio sentiero; ti porto nel cuore, non posso portarti nelle mie braccia».
Ma quand’anche la pupilla del Disertore non esprimesse tutto questo e avesse appena fatto trasparire la parola: io t’amo, — che più? Clelia si senti venir meno per l’ebbrezza. Un velo sottile le coperse gli occhi; tese la mano a lui che dolcemente la strinse — dolcemente e fortemente insieme sì da lasciarle un’impressione d’infinita soavità — e poi non seppe più nulla.
Qualche tempo dopo venne in camera Daniele, agitato e trepidante per la cara sorella. Chiuse i vetri e volle che Clelia bevesse un sorso di vino per farsi passare lo spavento.
— I gendarmi sono andati — disse. — Brave persone! Mi hanno creduta sulla parola o forse avevano freddo e vedevano il letto distante un miglio. Via, è passata anche questa.
— E il Disertore? — domandò Clelia con un gruppo in gola che voleva sembrare quello che non era, cioè compassione semplice.
— Lui! Poveraccio, a quest’ora spero sarà lontano.
Clelia avrebbe domandato qualcos’altro in proposito, ma Daniele stringendosi nelle spalle troncò il discorso e le augurò la buona notte.
⁂
Accadde dell’augurio di Daniele come della maggior parte degli auguri — la notte di Clelia fu pessima.
Pessima in due modi e per due sensazioni opposte, l’una di piacere e l’altra di dolore, conducenti entrambe a una veglia tormentosa.
Ora ella chiudeva gli occhi pensando di addormentarsi sul ricordo delizioso di quello sguardo e di quella stretta di mano: e il ricordo invece la teneva svegliata, rinnovandole sotto l’epidermide una corrente elettrica che la scuoteva tutta.
Ora l’assaliva tremendo il dubbio che il Disertore fosse raggiunto dai gendarmi e se lo immaginava preso, legato, messo in prigione, ucciso.
Apriva gli occhi, e nel buio della notte luccicanti come stelle vedeva le pupille del Disertore tenere e meste, umili e ardenti.
Si voltava, si rivoltava; gettava via il piumino; aveva caldo, aveva freddo; non poteva trovar pace.
Il suo buon guanciale sprimacciato le sembrava uno strumento di tortura e lo rizzava sulla sponda del letto; poi, brancicando, lo prendeva chi sa per che cosa e tornava a tirarlo a sè, abbracciandolo con passione, sprofondandovi la bocca che fremeva.
Voleva dormire; ma quando il sonno scendeva lieve lieve a chiuderle le palpebre, ella reagiva. Non sapeva staccarsi dall’immagine del Disertore; le incresceva abbandonare i suoi dolci pensieri, le fluttuazioni vaghe della sua mente, e vegliava ancora e tornava a fantasticare e a smaniare per il letto.
Le riuscì di dormire un poco sull’alba.
Appena desta, pronta come una sentinella, l’immagine della sera prima le tornò davanti. Si vesti in fretta e corse ad aprire la finestra. Che cosa sperava? Nulla. Tutto. Lo sanno forse gli innamorati quel che sperano? L’ignoto è il loro Dio.
Appoggiò i gomiti sul davanzale, proprio dove lui’ aveva appoggiato il ginocchio, e guardò attorno l’ampia campagna che, muta e deserta, biancheggiava nel suo lenzuolo di neve.
Un pallido sole faceva scintillare i ghiacciuoli incastonati come brillanti sui rami degli alberi, il cielo era scuro; l’aria fredda. Un passero, movendo dall’Abbazia sulla cui torre aveva formato il nido, posò un istante sul cornicione disotto alla finestra — trillò e volò via.
Clelia lo seguì malinconicamente cogli occhi sospirando. Oh! se anche lei avesse avuto le ali.
Nella giornata qualcuno venne a dire che il Disertore era stato preso; poi la notizia fu smentita, poi riconfermata. Clelia moriva fra le ansie del dubbio; non aveva mai sofferto tanto.
La notte che segui fu peggiore ancora della prima per la povera fanciulla; ma alla mattina un biglietto sulla sua finestra le recò queste tre parole: Grazie, son salvo.
Tre sole parole che agli occhi di Clelia rifulsero come caratteri d’oro, che le parvero belle ed espressive come un lungo poema d’amore — parole che baciò, che ribaciò — fortunate parole, cui era destinato per dimora ignota e santa un seno di donna.
Forse, nei suoi sogni giovanili, ella s’era formato un concetto diverso della prima lettera d’amore. Forse aveva desiderato anche lei, come tante altre, un foglietto di carta lucida, rosea, tutto coperto di una scritturina nervosa e colla frase sacramentale: «Dal giorno che vi ho veduta...»
Ma pazienza. Il Disertore aveva ben altro a fare che distillar delle frasi. Del resto, i suoi occhi e la sua stretta di mano le avevano già detto tutto. Clelia sentiva di essere amata, ne aveva il convincimento in se stessa; questa sicurezza la rendeva felice.
L’inverno, quell’anno, pareva che non dovesse più finire.
I contadini avevano esaurite le loro provviste; non c’era più farina, nè fagiuoli, nè patate, nè riso. Chi aveva qualcosellina da parte potè tirare avanti fino ai primi d’aprile — gli altri, o si ammalavano o vivevano stentatamente di carità; i vecchi e i fanciulli morivano a frotte. Gli ospedali, assediati, rimandavano tutti i giorni un numero infinite di poveri che tornavano ad accrescere la miseria del paese.
Per gli affittaiuoli le cose non andavano meglio. Toccava a loro a provvedere in gran parte e gli anni erano cattivi per tutti.
Daniele si mostrava triste e preoccupato. Al suo fianco, nelle serate solitarie del focolare, Clelia provava quasi rimorso di accarezzare sogni d’amore. E quale amore mio Dio!
Da quattro mesi non sapeva più nulla; il nome del Disertore non veniva mai pronunciato, nè ella osava chiederne.
Fu allora che tentò di svellersi dal cuore una passione senza avvenire e senza speranza; ma o fosse debole il proposito o saldo l’affetto, non riuscì.
Le scene meste che la circondavano, la monotonia della sua vita, la mancanza di una madre, di una sorella, tutto contribuiva a sostenere quel fantastico amore. A poco a poco Clelia ne fece la sua unica gioia; gioia intima, ideale, poetizzata dal sacrificio.
Viveva con lui nei tiepidi mattini di primavera, quando il verde dei boschi rifulgeva al sole e sembrava stendere sulla pianura un manto di pace e di silenzio. Viveva con lui nelle notti placide, seduta alla finestra, col capo sul davanzale, ascoltando i rumori lontani, e nelle notti burrascose, rannicchiata nel suo lettuccio, colle mani giunte, pregando Iddio!
Molte volte si recava sui prati che circondavano l’Abbazia, presso il luogo dove lo aveva visto la prima volta, nella segreta speranza di rivederlo ancora, e interrogava gli alberi, i sassi, i fili d’erba; credeva di trovare una sua traccia. Non trovava nulla e tornava malinconica alla sua cameretta, alla sua finestra, al lettuccio confidente discreto d’ogni suo pensiero.
Intanto passavano i mesi, dopo passarono gli anni. Clelia rifiutò due o tre matrimoni, non perchè avesse fermamente deciso di rimanere zitella, ma perchè con quell’immagine fissa in mente le ripugnava qualunque altra figura d’uomo.
Una volta ancora (e precisamente nell’occasione che aveva respinto un ricco partito del paese) Clelia trovò sulla sua finestra un ramoscello d’edera. Questa cara pianticella non è forse il simbolo dell’affetto tenace? Non vuol forse dire: Costanza ad ogni prova?
Clelia la bagnò di lagrime e la unì al tesoro della breve lettera e della rosa appassita.
⁂
S’era al mille e ottocentocinquantasette. Gli affari di Daniele avevano preso una cattiva piega negli ultimi cinque anni; egli aveva voluto acquistare dei fondi per conto proprio, sperando di poterli pagare con utili straordinari, ma l’utile era mancato, e Daniele si trovava alla vigilia di un fallimento.
Cuore retto e carattere forte, sicuro di poter provare in qualsiasi occasione la propria onestà, Daniele non si crucciava molto per sè stesso, ma gli doleva immensamente la sorte della cara sorella. Per lei temeva la miseria, temeva sopratutto di doverla un giorno lasciare sola sulla terra.
La sventura riunì maggiormente i due fratelli.
Clelia che si era votata a un amore infelice non era meno agguerrita di Daniele contro i colpi del destino. Ella lo assicurava di continuo che non rimpiangeva l’agiatezza e pur di avere un posto vicino al fratello di null’altro ormai le importava nella vita.
Disponeva tranquillamente il loro avvenire tutto dedito al lavoro; faceva piani, combinava progetti; si sentiva forte e attiva. Ella sapeva che in qualunque posto, in qualunque condizione l’avrebbe seguita il suo dolce sogno; che valore aveva tutto il resto?
Provava anche una specie di voluttà nel sapersi povera, quasi proscritta come Lui; le pareva di essergli più vicina.
Così confortandosi a vicenda, coraggiosi, rassegnati, i due fratelli aspettavano la loro sorte.
Clelia aveva salutate le pareti della sua cameretta, la memore finestra, la torre dell’Abbazia, la cui vista le ricordava tanti pensieri soavi! Sul punto di staccarsi per sempre dal suo passato, l’assaliva una leggera tristezza che essa cercava di soffocare sotto un raddoppiamento d’energia e di forza.
Entrò una mattina nello studio di suo fratello, accesa in volto, tenendo fra le braccia un fascio di vecchie carte e appena entrata indietreggiò facendosi più bianca della neve. Il Disertore le stava davanti
— Ma se vi ringrazio! — diceva Daniele con voce agitata e commosso in volto come se due sentimenti contrari si facessero guerra dentro di lui. Mettete che abbia accettato.
— Però non accettate.
Queste parole le pronunciò il Disertore colle labbra strette, con accento amaro.
— Non abbiatevene a male giovinotto; via, datemi la mano. La mia intenzione non è di offendervi.
I due uomini erano così assorti nel loro dialogo che non si accorsero della presenza di Clelia. La povera giovane non osava fare un passo nè avanti nè indietro.
Vi fu un momento di silenzio. Il Disertore si asciugava il sudore sulla fronte; era pallidissimo.
Daniele picchiava con una penna sullo scrittoio e teneva gli occhi bassi. In mezzo a loro c’era un piccolo sacco che si capiva contenere del denaro.
Finalmente il Disertore con una calma disperata sotto la quale si travedeva lo sforzo, domandò a voce bassa:
— E se vi provassi che questi denari furono guadagnati lealmente?... Se...
Daniele si alzò in piedi. Colla mano tesa, in attitudine nobile e paterna, interruppe la confessione dello sconosciuto:
— Basta — disse — io non vi chiedo ciò. Mi piace credere che tutto in voi sia leale. Non accetto perchè non accetterei nemmeno dal mio migliore amico. Non posso. La mia disgrazia è irreparabile, quantunque (sorrise tristamente) non insopportabile.
Prese il sacchetto colle due mani e lo posò sulle braccia del Disertore che fremente e confuso si ritirò in silenzio.
Accanto all’uscio vide Clelia ritta contro il muro e bianca come una statua. I loro occhi si cercarono; in quelli del Disertore brillava una lagrima ardente.
Clelia volle parlare, ma tutta la sua anima era condensata nello sguardo; ella assorbiva quella lagrima e la faceva sua.
Il Disertore sentì tutta la dolcezza del conforto che gli offriva l’amore; i suoi occhi espressivi ne ringraziarono Clelia e per la seconda volta le dissero nel loro muto, eloquente linguaggio: «Ti amo.
⁂
Daniele era ricaduto sulla sedia.
— Mio povera sorella — esclamò — siamo dunque così miseri da destare perfino la compassione di un vagabondo!
— Daniele!... Oh, Daniele!
L’accento doloroso di Clelia lo colpi. Egli l’aveva ferita, senza saperlo, nel lato più sensibile ed esulcerato.
L’infelice amante si nascose la faccia tra le mani; il suo cuore traboccava.
Pianse a lungo, dapprima disperatamente, poi silenziosa a intervalli rotti da profondi sospiri.
Raccontò tutto, seduta su uno sgabello, colla fronte appoggiata ai ginocchi di Daniele come quando, piccina, calmava così i suoi primi dolori.
E Daniele ascoltò, grave, ma non accigliato, la confessione della sorella. Era una nuova disgrazia che piombava su di lui, ma più ancora sulla poveretta.
Non le mosse alcun rimprovero. Sapeva che amore non ragiona. Le disse appena con somma dolcezza, quasi volesse garantirla contro futuri disinganni:
— Tu non speri nulla, non è vero?
Clelia scosse il capo negativamente.
E Daniele soggiunse abbassando la voce:
— Sai che era venuto a far qui?
— Lo immagino — disse Clelia arrossendo. — Ti ha portato i denari per pagare i tuoi debiti.
Daniele si morse i baffi e stette qualche minuto prima di rispondere.
— Non potevo accettare. Capisci, Clelia, che non potevo accettare?
La fanciulla capiva pienamente. Il suo abbattimento era profondo.
Pochi giorni dopo lasciavano tutti e due la casa dove erano nati, dove erano vissuti ricchi e felici. Come il viaggiatore nel deserto essi riallacciavano i loro sandali dopo il riposo dell’oasi e riprendevano il cammino faticoso.
La loro nuova abitazione li portava un po’ lungi da Chiaravalle. Nel passare accanto all’antica Abbazia Daniele senti la mano di Clelia che tremava nella sua; avevano entrambi il medesimo pensiero, ma non se lo comunicarono.
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Le donne, maestre d’amore e custodi in ogni tempo del fuoco sacro, si trovano per una speciale condizione del loro cervello e più ancora per il genere della loro vita, assai meglio dell’uomo approfondite nei misteri della passione.
Un ricamo, un orlo, una calza impediscono forse alla donna di dedicarsi tutta ad un pensiero? L’uomo, anche se volesse, non può vivere una giornata intera e poi una intera notte, ed altri giorni ed altre notti ancora fantasticando. Il movimento, l’azione, il positivismo degli affari lo incalzano; la cura amorosa appare in lui come il lampo — brilla a intervalli.
Ma ditelo voi, cuori di donna, come l’amore vi allaccia, vi stringe, vi accompagna passo a passo; come vi destate con esso al mattino e come alla sera vi coricate senza allentare le braccia — cuori di madre che già presentite l’esistenza in due!
Clelia aveva portata con sè la sua dolce croce e nella povertà dei giorni che l’attendevano era quella la sua ricchezza.
Poco le mancava ai ventisette anni: non era più una bambina. Sentiva della vita tutta la mestizia e la sublimità. Il dolore le ingrandiva l’anima.
Lavorava adesso per guadagnare il duro pane; nè di ciò veramente le incresceva molto — era coraggiosa. Ma Daniele non trovava mai dove collocarsi. Lo avevano lusingato con promesse e proteste d’amicizia, intanto il tempo passava e un tetro sconforto si impadroniva di lui. La sua robusta salute ne fu scossa.
Un anno trascorse a quel modo, lento, uggioso, fra lotte meschine d’ogni giorno, colla preoccupazione continua dell’avvenire sospesa come una minaccia sulle preoccupazioni presenti.
Daniele parlava poco. Aveva l’apparenza calma, quasi serena; tentava molte volte di sorridere, ma l’occhio profondo della sorella ne scrutava la mentita rassegnazione e scendeva fino a ricercargli il cuore — quel cuore che sanguinava.
L’ozio forzato, i pensieri insistenti, terribili, il dubbio — verme che lacera i visceri — lo sgomento, la sfiducia di sè, di tutti e una stanchezza dolorosa lo minavano, lo struggevano nelle radici della vita.
Nei primi giorni del milleottocentocinquantanove, quando incominciava a fremere in Lombardia la rivolta contro lo straniero, e già nelle città e nelle campagne un’onda d’entusiasmo ardeva tutti i petti, Daniele, vinto da un male che i medici non conoscevano e che i farmachi non potevano guarire, si spense lentamente, raccomandando la sorella a Dio.
Clelia restò sola nel mondo.
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Una sera — era il mese di marzo — una bufera fortissima imperversava cacciando turbini di vento e di pioggia per le vie deserte.
Clelia, riparata nella modesta cameretta, cuciva alla fioca luce di una candela; nè i suoi pensieri erano più lieti del cielo che appariva nero attraverso gli spiragli della finestra.
Cuciva e sospirava e non volle credere che qualcuno bussasse alla porta, quantunque due colpi ben distinti avessero dominato lo scrosciare dell’acqua contro i battenti chiusi.
Si levò finalmente prendendo il candelliere nella mano e mosse ad aprire pensando fosse qualche vicina; ma non potè trattenere un grido poichè vide nel buio della soglia quella faccia pallida a lei nota.
— Madonna santa! — fece la povera giovane scostandosi di alcuni passi per lasciar entrare il Disertore.
Egli era molto cambiato. Più severo, più freddo, mostrava in ogni linea del volto le traccie degli anni passati. I suoi occhi, sempre belli e scintillanti, avevano un raggio più profondo; alcuni fili bianchi — pochi — si mescevano al nero d’ebano de’ suoi capelli.
— Mi permettete di riposare qui?
Ella osservò allora che egli (non ne conosceva ancora il nome) appariva molto stanco; i suoi abiti erano inzuppati e coperti di mota. Gli additò una sedia; parlare non poteva.
Prima di mettersi a sedere; il Disertore gettò il mantello a cavalcioni di un paravento e il cappello sul tavolo; poi, prendendo le due mani di Clelia e tirandosela vicina, per modo che stando egli seduto l’aveva ritta davanti:
— Mi amate? domandò con voce bassa, vibrata, che sembrava uscisse dai più lontani recessi del cuore.
Stette un minuto ad aspettare la risposta. Clelia non rispose, ma lo guardò — non era sempre stato quello il loro linguaggio? Le loro mani tremavano, strettamente avvinte.
— Il giorno è arrivato, Clelia, in cui posso parlarvi d’amore. Ma prima ditelo, ditelo, mi amate?
I sette anni trascorsi si affacciarono alla mente di Clelia con tutti i sogni, i sospiri, le ansie, i desiderî, le lagrime di quell’infelicissimo amore, e cercò una parola che potesse esprimere tutto ciò — e non trovò la parola — e chinatasi tremante pose un bacio sulla fronte del Disertore.
Sette anni di sacrifici trovarono in quel bacio il loro compenso. Esso parve un battesimo pel Disertore che rialzò la testa sfavillante; un raggio di pura gioia gli brillava negli occhi.
— Grazie! — disse; ma lui non osò baciarla.
⁂
Seduti vicino, espansivi, confidenti come se avessero passata tutta la vita insieme, incominciarono a svolgere i loro progetti per l’avvenire.
Egli partiva. Andava ad unirsi alla giovane armata che preparava in Piemonte la grande riscossa. Sui campi dell’onore avrebbe guadagnato quel nome che il destino gli aveva negato alla culla e sotto la gloriosa divisa di soldato italiano sarebbe tornato a lei felice e redento.
Clelia non credeva a tanta contentezza. S’era abituata alle lagrime; la felicità le faceva paura.
— Se fosse vero! — mormorava, stringendo con appassionato trasporto la mano abbronzata del Disertore.
— Sarà vero, lo giuro! — rispose il giovane con entusiasmo.
Clelia sollevò gli occhi al cielo. Sapeva che c’è qualcuno che spezza i giuramenti degli uomini. Il vento era cessato; la pioggia non cadeva più. Nell’aprire l’uscio Clelia vide il cielo quasi azzurro sparso di poche stelle.
— Vedete? — disse il Disertore stringendole dolcemente la vita, così che Clelia si trovò appoggiata contro il di lui cuore. — Vedete la costellazione della Lira? La prima di quelle tre stelle, la più lucente, quella è il mio astro. Nelle notti solitarie in mezzo ai boschi io la guardavo pensando a voi. Penserete voi a me guardandola?
Strinse il braccio — le loro bocche quasi si toccavano. Egli si gettò vivamente indietro.
— Addio! — esclamò.
Ed ella rispose: — Addio.
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Sotto l’ampia cappa del camino, nelle lunghe sere d’inverno, accanto alla fiamma che crepita sugli alari neri, una donna veglia e lavora. Ha i capelli bianchi, la fronte mesta ed una espressione negli occhi di dolcezza infinita e rassegnata.
È Clelia.
Da quella notte memorabile ella non ha più visto il Disertore. Voci raccolte dicevano che egli era caduto nel primo scontro cogli austriaci battendosi da valoroso. E Clelia che aveva avuto paura della gioia tornò alle lagrime — alle care lagrime versate in silenzio.
Nessuno seppe mai la sua storia; ella non disse ad alcuno i suoi dolori. Chi la conobbe la vide invecchiare calma e serena conservando sotto le rughe un raggio della sua bellezza passata. Si credeva generalmente ch’ella non avesse mai amato.
Ma quando sul cielo opaco della sera brillavano le prime stelle, Clelia colla fronte appoggiata ai vetri della sua finestra guardava a lungo la costellazione della Lira — la prima delle tre stelle, la più lucente, — forse l’anima di Lui era là.