Il vero nella matematica/Discorso

Discorso

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Signore e Signori,


In quest’aula, che religiosamente custodisce le glorie secolari della università nostra, donde intorno a noi si libra lo spirito del Galilei, che fondò la filosofia della Natura sull’osservazione e sull’esperienza, cercando nelle discipline matematiche il principale strumento delle sue ricerche; in quest’aula, ove per costante tradizione di anno in anno uno dei colleghi è chiamato a rendere omaggio alla scienza, che d’ora in ora accresce la comune dottrina, eleva lo spirito e contribuisce allo svolgimento ordinato e al benessere dell’umanità; io cultore di una scienza, che ebbe qui insigni maestri, mi sento trepidante dinanzi alla maestà della storia di questa nobile scuola nel parlare a Voi intorno al vero nella matematica, alla certezza che è in esso e al suo valore nella scienza pura e nella scienza applicata. Se le mie argomentazioni non possono far vibrare in quest’ora solenne le corde del sentimento e del consenso delle [p. 4 modifica]anime vostre, tuttavia compiendo un dovere, oso sperare, signore e signori, nella vostra benevola cortesia.

Del vero nel pensiero e nella Natura si occupano da secoli filosofi e naturalisti; i filosofi che cercano di sapere ciò che appartiene all’attività dello spirito fuori dell’influenza diretta dei corpi esteriori, i naturalisti che cercano di separare quel che appartiene al mondo obbiettivo, del quale studiano le leggi. Ma le leggi del pensiero logico puro sono comuni ad entrambe, e la matematica non ne è che la conseguenza.

I concetti del numero, dell’estensione e del moto nelle loro forme primitive naturali sono proprî anche agli animali inferiori, che istintivamente conoscono la larghezza d’un burrone o le condizioni di stabilità di un nido, o costruiscono in forma esagonale le cellette di un alveare, o appena usciti dall’uovo si muovono con sorprendente agilità. Il bambino stesso sa distinguere ben presto l’idea dell’unità dalla pluralità, il prima dal poi, e muove incerto i primi passi in linea retta verso la mamma, che sorridente lo incoraggia e gli tende amorosamente le braccia. Ond’è che le nostre prime cognizioni matematiche trassero origine dai bisogni della vita comune di ordinare, numerare e misurare gli oggetti forniti dall’osservazione. E primi i Greci, guidati da Pitagora e da Platone, riconobbero la sovranità del numero e dell’estensione nella Natura, e diedero alla matematica un’esistenza propria e indipendente. Essa entrò nella storia del sapere umano come scienza esatta, e affinchè valesse meglio questo suo carattere andò sempre più idealizzandosi, [p. 5 modifica]mentre le scienze naturali, nelle quali fin dal principio si contendevano le ipotesi, scioltesi dalle discussioni infeconde della metafisica, divennero sempre più scienze di osservazione e di esperienza. La matematica pura diventò così logica applicata, ma se la logica insegna a non sbagliare nel ragionare, la matematica insegna pure a scoprire il vero.

Diverse sono le opinioni sul valore di essa: chi la esalta come Platone, chi la giudica un semplice meccanismo, come Schopenhauer; i più la rispettano da lontano e l’apprezzano per quanto può essere utile ai bisogni materiali della vita. Eppure, essa è non solo la più ideale bensì anche la più positiva delle scienze, perchè è la più alta e più precisa espressione del vero. E se appare ai più come arida esposizione di simboli o di figure geometriche, perchè il sentimento del vero non appare così spontaneo e generale come quello del bello e del buono, essa però concede le sue gioie a quei pochi sacerdoti che, schivi degli applausi della folla, in essa nobilitano il proprio spirito ed in essa trovano uno strumento maraviglioso e potente per interrogare la Natura e svelarne i segreti.

Ma il vero nella matematica è effettivamente tale, non è esso talvolta, come in altre scienze, esposto ad essere rigettato o modificato? Il credere a tutto o il dubitare di tutto, come dice il Poincaré, sono due soluzioni comode, perchè l’una e l’altra ci dispensano dal riflettere. Per molti secoli gli Elementi di Euclide servirono all’educazione matematica della gioventù, e nessuno aveva mai dubitato della solidità delle basi di questo monumento insigne della sapienza greca. Ma sovveniva la critica, potente mezzo dell’indagine scientifica [p. 6 modifica]moderna. Nelle matematiche essa penetrò dopo la maravigliosa scoperta del calcolo infinitesimale dovuta a Newton e a Leibnitz, e trovò largo campo negli errori inevitabili che derivarono in sul principîo dall’indeterminatezza dei concetti di infinito e infinitesimo.

Dalla critica e dalle discussioni tra i filosofi e tra i matematici intorno alle nuove ipotesi, nacque il dubbio che la matematica non sia scienza esatta, quasi a conforto di quei cultori di altre scienze, che per giustificarsi dai dubbî sollevati dalle loro teoriche, citano volentieri le discussioni intorno ai principî della matematica. Questo conforto però non è legittimo; la scienza matematica è per sè esatta, nè dipese da essa se non potè raggiungere ne’ suoi principî una forma definitiva. L’errore o dipende direttamente dal matematico o deriva dalla indeterminatezza di alcuni concetti fondamentali, come ad esempio quello dell’infinitesimo attuale del Leibnitz, da lui poi abbandonato, e che condusse a discussioni interminabili; può discendere anche dalla mancata dimostrazione della possibilità logica di alcune nuove ipotesi o dalla non appropriata loro interpretazione. Perchè il vero sia stabilmente raggiunto, è necessario che la critica determini bene i principî sui quali esso riposa, e a tal uopo questi principî devono essere riconosciuti universalmente necessari al nostro ragionamento, onde più semplici essi saranno e minore ne sarà il numero, e tanto meglio si conseguirà questo fine. La critica, mirando a ciò, da un lato ha posto la scienza su basi sicure, dall’altro aprì nuove vie alla ricerca. Essa recò anche un altro vantaggio: la diminuzione, se non la completa sparizione, di quella classe di mattoidi che vogliono [p. 7 modifica]dimostrare l’impossibile, come la quadratura del cerchio, e sono.... i genî incompresi.

Ma lento fu il cammino in codesta via, perchè le nuove idee urtarono contro credenze profondamente radicate e rafforzate dall’autorità di sommi matematici, o contro l’indifferenza degli uni, che per non darsi la pena di riflettere escludevano tali ricerche dal campo matematico, o l’opposizione degli altri, pei quali i nuovi pensatori erano i rivoluzionari della scienza. E ad oscurare la luce nascente delle nuove verità matematiche si aggiunsero quei filosofi, che, fermi nei principî matematici già da essi conosciuti, vedevano o credevano di vedere nelle nuove idee un attentato alle loro ipotesi sulla conoscenza e sull’interpretazione della Natura, mentre da un nuovo ordinamento dei principî suggeriti e rinvigoriti da fatti nuovi non solo può trarre profitto la matematica, ma la stessa filosofia1.

È però necessario, che il nuovo ordinamento dei principî matematici non appaia o artifizio di metodo senza vita, o giuoco, per quanto utile, di simboli, bensì corrisponda allo svolgimento logico e più semplice delle idee matematiche, e sia perciò filosofico.

Pel carattere e pel valore del vero, due grandi rami della scienza dobbiamo distinguere: la matematica pura, gli oggetti della quale non hanno per essa necessariamente una rappresentazione fuori del pensiero, ma sono costruiti coi principî della logica pura, con atti e operazioni mentali necessarie al nostro raziocinio e al progresso della scienza. Essa si divide a sua volta in due importanti branche: la scienza del numero e [p. 8 modifica]quella dell’estensione astratta, da non confondersi con quella spaziale. Un’altra grande categoria di scienze matematiche esatte è quella ove gli oggetti sono forniti o risvegliati in noi dall’esperienza: la scienza dello spazio geometria, la scienza del moto o meccanica2.

La matematica pura è per noi esatta. La verità nella scienza pura scaturisce dall’armonia dei diversi atti del pensiero, e la libertà dello spirito nelle sue creazioni è limitata soltanto dal principîo di contraddizione. Onde un’ipotesi è possibile quando non vi sia contraddizione colle premesse o colle sue conseguenze. Il matematico assomiglia spesso a un viandante che, percorrendo la sua strada, si trovi dinanzi a due ramificazioni di essa, sicché gli sia necessaria un’ipotesi, per seguire l’uno piuttosto che l’altro cammino.

Se il matematico comincia da principî, da operazioni e da leggi della mente e dell’esperienza, consentite universalmente, e con esse costruisce le sue prime forme indipendentemente dalle varie ipotesi filosofiche che si contendono il campo intorno alla teoria della genesi di quei principî, di quelle operazioni e di quelle leggi; egli deve peraltro rigettare quelle ipotesi e deduzioni filosofiche che contrastino con le sue premesse e colle loro conseguenze.

La matematica pura non rigetta che il falso, ma la dimostrazione della falsità di un’ipotesi, o di una deduzione, deve essere matematica, o, in altre parole, deve discendere dalle premesse e dal principio di contraddizione; ma non può essere fondata su questa o quella ipotesi filosofica intorno alla genesi delle premesse medesime. E se il matematico, come abbiam detto, ha da seguire un metodo filosofico nella costruzione delle sue forme [p. 9 modifica]fondamentali, perchè tale metodo è più naturale e più fecondo di altri, la filosofia dal canto suo ha il dovere di riconoscere le nuove idee matematiche costruite dalla critica non già sulle rovine, ma accanto o al di sopra del vecchio edifizio.

Peraltro da una nuova esposizione delle idee matematiche può aver lume anche la teorica della conoscenza. Certo le forme varie del numero e dell’estensione astratta, come le forme dell’infinito, non si ritrovano nelle nostre sensazioni. Sono però combinazioni del concetto di successione illimitata e dell’atto del pensiero col quale consideriamo questa successione come un tutto dato al pensiero stesso. Ma non si può dire che la legge del pensiero, per la quale ci formiamo il concetto dell’illimitato, e da esso quello dell’infinito e dell’infinitesimo, potenziali e attuali, nelle varie loro forme, sia tratta soltanto dall’osservazione, allo stesso modo che non lo è lo spazio fisico illimitato. Possiamo apprezzare col teloscopio grandissime distanze, e piccolissime col microscopio, oltre la quattromillesima parte del millimetro, ed un osservatore provetto può coi nostri strumenti più perfezionati apprezzare il tempo fino a un centesimo di secondo; ma pure siamo sempre condotti a misure finite. E così, aggiungendo ad un numero un’unità e a questa un’altra unità, s’arriva sempre ad un numero finito.

Possiamo evitare la questione della genesi deill'illimitato e dell’infinito con opportune definizioni o convenzioni, per stabilirne con sicurezza i concetti, per quanto occorre al matematico, benché così si nasconda, non si risolva, la questione della conoscenza. Eppure, la legge dell’illimitato è necessaria al progresso della [p. 10 modifica]scienza, nè si potrebbe costruire un’aritmetica senza di essa e le sue conseguenze necessarie. Così nel giudizio che due cose sono eguali fra loro non vediamo nettamente quale parte spetti all’esperienza e quale al pensiero. Una risposta esauriente non la conosco, né oserei darla io3.

In altro modo si presenta la genesi matematica dei principî della geometria e della meccanica, che sono scienze sperimentali in quanto i loro primi oggetti sono suggeriti dall’esperienza. La verità in queste scienze si fonda sull’armonia del pensiero cogli oggetti fuori di esso, e si è costretti a ritenere falso tutto ciò che contraddica alle leggi del pensiero e dell’oggetto stesso.

La geometria ha la sua origine nell’osservazione diretta degli oggetti del mondo esteriore, che è lo spazio fisico, e dall’intuizione di essi trae le sue prime verità indimostrabili e necessarie al suo svolgimento teoretico, che sono gli assiomi; come, ad es., la proposizione che per due punti passa una sola retta. Eppure, per essere esatta, la geometria deve rappresentare gli oggetti forniti dall’osservazione per mezzo di forme pure astratte e gli assiomi con ipotesi bene determinate, rese cioè indipendenti dall’intuizione, cosicché la geometria diventi parte della matematica pura, ossia dell’estensione astratta, dove il geometra proceda nelle sue costruzioni come nella matematica pura, senza più occuparsi se esse abbiano o no una rappresentazione esteriore finché non le applichi al mondo fisico.

L’esattezza della geometria sarà perciò tanto maggiore quanto più sicura sarà quella degli assiomi [p. 11 modifica]suggeriti dall’osservazione, e quindi quanto più essi saranno semplici, universalmente consentiti e nel minor numero. Né possiamo ammettere questi assiomi per tutto lo spazio fisico illimitato senza darne una prova, dappoiché nessuno ha mai osservato né potrà mai osservare tutto lo spazio illimitato.

La nostra intuizione spaziale non è una forma a priori trascendentale del nostro spirito, bensì è prodotta dall’osservazione combinata coll’astrazione. Noi ci assicuriamo della presenza degli oggetti esterni per mezzo dei sensi, e delle qualità di sensazioni che in noi producono tratteniamo coll’astrazione soltanto quella di estensione per avere le prime forme geometriche. La intuizione spaziale non è sviluppata allo stesso grado di perfezione in tutti gli uomini, come nei geometri puri e nei pittori; è noto infatti che persone cieche da giovani, riacquistando la vista, hanno un’intuizione imperfetta delle forme più semplici. Essa è, dunque, il prodotto di una lunga esperienza, e se l’adoperiamo senza riflettere, non significa che sia una forma a priori dello spirito; come non è tale il nostro linguaggio, per il fatto che da adulti comprendiamo subito il significato dei vocaboli, anche se non sappiamo indicare su quali esempi della nostra esperienza li abbiamo appresi fin da bambini. Ma per quanto perfetta sia la nostra intuizione, non intuiamo mai la retta illimitata, bensì la retta sotto forma di oggetto sensibile, sia pure idealizzato dall’astrazione.

Ecco perchè non possiamo accettare che sia posta alla base della geometria la definizione euclidea delle parallele, come quelle rette del piano che prolungate indefinitamente non si incontrano, né che vi sia fondato un [p. 12 modifica]assioma, non potendo essere mai osservate due tali rette. Onde bisogna dare delle parallele una definizione fondata sull’osservazione, ed anche allora si resta convinti, per altre ragioni, che il postulato di Euclide «da un punto si può condurre una sola parallela ad una retta data» manca di quella evidenza, che pur hanno altri assiomi tratti dall’osservazione4.

Acciocchè le discussioni intorno alle nuove ipotesi della geometria possano essere proficue, è necessario distinguere lo spazio fisico dallo spazio intuitivo, e questo dallo spazio geometrico; forme codeste dello spazio non bene distinte nemmeno da grandi matematici, come dall’Helmholtz, e ancora oggidì dal Poincaré e da altri5. Lo spazio geometrico è appunto quella parte dell’estensione pura nella quale ̀è rappresentato lo spazio fisico e intuitivo, ma che a sua volta non ha per tutte le sue forme una rappresentazione nel mondo reale. E mentre lo spazio fisico e quello intuitivo non possono essere definiti, può essere invece definito lo spazio geometrico6. Cosicchè non solo l’eguaglianza delle figure geometriche non è necessariamente determinata dal movimento dei corpi rigidi, come riteneva l’Helmholtz, ma è anzi l’eguaglianza delle figure geometriche che è necessaria per definire il movimento dei corpi rigidi; da ciò viene pure un’altra conseguenza: che la geometria teoretica non è una parte della meccanica, come riteneva il Newton. Questo movimento dei corpi rigidi, così come le tre dimensioni dello spazio fisico, è bensì necessario per le pratiche applicazioni della geometria, ma non per lo svolgimento teoretico di essa7. Così l’affermazione dello Stuart-Mill, che la retta del matematico non esiste nella Natura, e la osservazione contraria del [p. 13 modifica]Cayley, che questo non potremmo affermare se non avessimo il concetto della retta, trovano la loro piena giustificazione nella distinzione che si deve fare dello spazio fisico e intuitivo da quello geometrico, e in questa distinzione esse conciliano la loro apparente contraddizione.

Non si può ricondurre tutta la geometria al puro empirismo, riguardando cioè quali oggetti di essa i corpi dello spazio fisico con le loro imperfezioni, se deve essere una scienza deduttiva, e se in essa la legge di astrazione e quella dell’illimitato, che sono necessità, della nostra mente, non hanno il loro pieno svolgimento8.

Oltre agli assiomi tratti direttamente dall’osservazione, altri ve ne sono, anche per le applicazioni stesse della geometria nello spazio fisico, e sono detti più opportunamente postulati od ipotesi. L’esattezza di queste ipotesi, che non è accertata dall’osservazione, è sottoposta alle stesse condizioni alle quali sono assoggettate le ipotesi della matematica pura. Tali sono le ipotesi delle parallele e della divisibilità in parti di ogni tratto rettilineo, alla quale appunto ci conduce la legge dell’illimitato, sebbene praticamente questa operazione ci conduca sempre ad una parte indivisibile; l’ipotesi del continuo, di questo enigma degli antichi filosofi, che il matematico è riuscito, per quanto gli basta, a definire; le ipotesi dell’infinito e dell’infinitesimo attuali, che terminarono antiche discussioni e servirono a costruire la geometria non-archimedea9; e per ultimo quella degli spazi a più di tre dimensioni.

Essendo però la geometria una scienza d’origine sperimentale, è pur necessario che il geometra giudichi quali delle sue ipotesi ideali possano avere una [p. 14 modifica]rappresentazione nel mondo esteriore. Fra queste sono quelle delle parallele. Sul principio del secolo scorso Gauss, Lobatschewsky e G. Bolyai hanno fondata una geometria sull’ipotesi che da un punto si possano condurre due rette parallele ad una retta, anzichè una sola, e perciò anche tutte le altre comprese fra le due prime; ed il Riemann costruì un’altra geometria sull’ipotesi che da un punto non si possa condurre alcuna parallela ad una retta. Una dimostrazione della possibilità logica dell’ipotesi del Lobatschewsky e del Bolyai fu data dal Beltrami; egli trovò nello stesso spazio euclideo una superficie, la pseudosfera, che rappresenta con tutte le sue proprietà il piano della nuova geometria; allo stesso modo che il piano del Riemann, quando due rette s’incontrano in due punti opposti, può essere rappresentato dalla superficie sferica dello spazio euclideo, oppure da una superficie analoga, se due rette s’incontrano in un solo punto10. E mentre la retta nello spazio di Euclide e del Lobatschewsky è aperta, e quindi infinita, invece è chiusa nello spazio del Riemann, e perciò finita, come lo è una circonferenza, anche di raggio grandissimo.

Il Gauss, convinto dell’origine sperimentale della geometria, in un tempo nel quale il kantismo e il puro idealismo trionfavano, nulla pubblicò sulla geometria non euclidea perchè, come scriveva, temette le strida dei beoti. Ma la possibilità geometrica dell’ipotesi non significa ancora la possibilità fisica. Le tre geometrie in un campo piccolissimo dànno con grande approssimazione gli stessi risultati; onde l’essere la geometria di Euclide verificata con molta approssimazione nel campo delle nostre osservazioni esteriori, piccolissimo in [p. 15 modifica]confronto di tutto lo spazio, prova che essa è la più comoda, ma non prova che fisicamente sia la vera. Può darsi che, estendendo il campo delle nostre osservazioni esteriori, con nuovi mezzi più precisi di misura delle grandezze eguali, si trovi che lo spazio fisico corrisponda ad una delle geometrie non euclidee.

Se per la geometria potremmo ammettere per un momento il puro idealismo, nel quale la vita è come un sogno, mentre per altri motivi dovremmo combatterlo; dobbiamo però rigettare l’ipotesi Kantiana della forma a priori dell’intuizione spaziale, per la quale l’assioma di Euclide, il solo che Kant conoscesse, è una verità necessaria. E quei filosofi positivisti, che combattono le ipotesi non euclidee, non sono in questo meno metafisici dei kantiani11. Per molto tempo, infatti, gli uomini hanno ritenuto che la superficie terrestre fosse piana; e in vero anche oggidì, eseguendo le nostre misure in un campo ristretto di essa, troviamo verificata con grande approssimazione l’ipotesi di Euclide. L’osservazione dunque, qui come altrove, non è che approssimativa, e tanto più è tale quanto è meno semplice. Talvolta essa è anche apparente e fallace, come quando ci fa vedere che il sole gira intorno alla terra, mentre, per la conoscenza di altri fatti, sappiamo che è invece la terra che gira intorno al sole.

Se un osservatore coll’intuizione euclidea entrasse in uno spazio pseudosferico o sferico, avrebbe l’impressione, movendosi, che gli oggetti si spostano in determinati modi, e in determinate direzioni si dilatano e si restringono, nello stesso modo che noi, secondo che ci moviamo, vediamo cambiare la grandezza degli oggetti, e non avremmo modo di decidere se tale fatto è [p. 16 modifica]apparente o reale, se non conoscessimo per altre vie le leggi della prospettiva. Così il nostro osservatore nello spazio pseudosferico si accorgerebbe che i movimenti degli oggetti, che egli vede, non sono che apparenti, quando, tornando al posto di prima, tornassero al loro gli oggetti stessi; e l’intuizione sua si adatterebbe ai nuovi rapporti dello spazio, tanto più se l’osservatore venisse a conoscerli per altra via12.

Nè bisogna lasciarsi sviare nelle discussioni dei principî dalle idee predominanti del tempo. Il padre Saccheri, profossore dell’ateneo pavese, che già nel 1733 avea sottoposto ad un’elegante ed esatta critica il postulato delle parallele, stabilendo in modo semplice e rigoroso le principali conseguenze delle tre ipotesi possibili, vittima del preconcetto del proprio tempo, che l’ipotesi euclidea fosse la sola esatta, s’affaticò ad abbattere con una serie di errori l’edificio ch’egli stesso aveva innalzato alla scienza e fu poi riedificato dal Lobatschewsky. E così il cardinale Gerdil, della Sapienza di Roma, nel 1806 avrebbe potuto facilmente dedurre i numeri transfiniti di G. Cantor da alcune sue considerazioni, se non fosse stato preoccupato di combattere l’infinito attuale per dare una dimostrazione contro l’eternità dell’Universo, colla quale del resto i numeri transfiniti nulla hanno a che fare.

Ma oltre alle geometrie non euclidee delle parallele che potrebbero essere verificate, l’una o l’altra, nel mondo [p. 17 modifica]fisico, altre ne abbiamo che non possiamo verificare in questo, sebbene esse siano logicamente possibili.

A queste appartiene la geometria non-archimedea, che, dapprima attaccata o non curata, ora si va ammettendo dai matematici, ma non è ancora discussa da filosofi, i quali pur tanto si occuparono dell’infinito e dell’infinitesimo attuali. Le nostre misure pratiche infatti non ci condurranno mai fuori del campo finito.

Così è della geometria degli spazi a più di tre dimensioni, compresi tutti in uno spazio generale di un numero infinito di dimensioni perchè per mezzo dei nostri sensi constatiamo che lo spazio fisico, o intuitivo, ha tre sole dimensioni, volgarmente chiamate larghezza, lunghezza, altezza o profondità.

L’ipotesi che fuori dello spazio geometrico a tre dimensioni, detto ordinario, esista un punto, fu molto discussa e diede luogo così a giudizi errati come a fantasie pericolose alla scienza. Urta infatti contro la nostra intuizione l’ammettere che il punto sia un oggetto reale fuori dello spazio fisico, perchè tutti gli oggetti che noi osserviamo sono in questo spazio, come ogni numero, che noi costruiamo coll’aggiungere successivamente un’unità ad un’altra unità, è sempre finito e compreso nella serie dei numeri interi finiti, detti numeri naturali.

Ma, come possiamo concepire questa serie quale un tutto già costruito e dato al pensiero, e possiamo aggiungere a questo tutto un’altra unità, non compresa nella serie stessa, formando i numeri transfiniti di G. Cantor, così si può concepire astrattamente come dato lo spazio geometrico a tre dimensioni e fuori di esso un punto. Se si [p. 18 modifica]pensa, ad esempio, in un dato momento lo spazio ordinario, e in un altro momento un punto, e se il tempo è contrassegno delle idee pensate, il punto pensato dopo non appartiene allo spazio pensato prima. Lo spazio geometrico è però una forma dell’estensione astratta indipendente dall’intuizione del tempo13. Come nella scienza del numero costruiamo dei sistemi di oggetti rappresentati da un numero finito di variabili indipendenti, e nei quali il Descartes trovò per primo una rappresentazione analitica dello spazio ordinario, che dà modo di far corrispondere un sistema di tre numeri (coordinate) ad un punto dello spazio medesimo, così nella scienza dell’estensione astratta possiamo costruire degli spazi a più di tre dimensioni, anzi lo spazio a infinite dimensioni, che tutti li comprende, procedendo alla loro costruzione e alla dimostrazione delle loro proprietà come per lo spazio ordinario stesso.

E questi spazî non sono concezioni vane; chè vi possiamo lavorare colla nostra intuizione, immaginando il punto, la retta e il piano, come nello spazio ordinario. Ma non avendo, nè potendo noi avere, l’intuizione dello spazio a quattro dimensioni, in questo combiniamo l’intuizione coll’astrazione; e tale è l’abitudine che facciamo coll’uso continuato di questa operazione, che ci par di vedere nello spazio suddetto due piani che s’incontrino in un solo punto invece che in una retta, come se nella retta che due piani segantisi hanno intuitivamente in comune, vi fosse un punto di colore diverso da tutti gli altri e dai quali facessimo astrazione.

Non dirò come è nata nella matematica quest’idea di uno spazio a quattro dimensioni, nè delle critiche, [p. 19 modifica]talora anche giuste, quando i matematici da un contenuto puramente astratto, sintetico come quello del Grassmann, o analitico come quello del Riemann, dell’Helmholtz, del Betti, del Beltrami e di altri, passavano facilmente al contenuto geometrico, che ancora non vi era14.

Gli esempî esplicativi dell’ipotesi, ai quali ricorsero i geometri, possono avere generato il dubbio che la loro ipotesi matematica fosse un’ipotesi fisica. Io stesso ho ricorso a un essere immaginario vivente nel piano, ad esempio alla nostra ombra sopra un piano, dotato di un’intelligenza come la nostra e che per mezzo dei suoi sensi percepisca i soli oggetti del suo piano. Questo essere immaginario, posta l’ipotesi del punto fuori del piano, potrebbe costruire teoricamente la geometria solida come facciamo noi. Questo esempio non conduce però ad ammettere l’ipotesi fisica di uno spazio reale a quattro dimensioni, nel quale, come vorrebbe lo Zöllner, i corpi sarebbero come le ombre di esseri esistenti in uno spazio a quattro dimensioni. È vero che noi percepiamo gli oggetti del mondo reale secondo le qualità delle nostre sensazioni di colore, di suono, di calore, di odore e di gusto; ma queste sensazioni appartengono al nostro sistema nervoso e non già agli oggetti stessi, come crede l’opinione del volgo, mentre i cambiamenti delle relazioni fra le sensazioni sono dovuti invece ad azioni esterne. Dalle nostre sensazioni non possiamo perciò giudicare dell’essenza delle cose reali in sè, che la Natura ci terrà sempre nascosta. L’ammettere l’ipotesi che il mondo delle cose in sè abbia quattro dimensioni, equivarrebbe all’ammettere che noi, come l’essere [p. 20 modifica]immaginario del piano che vive alla sua superficie e percepisce le sole due dimensioni di essa, viviamo alla superficie di un corpo a quattro dimensioni, del quale non potremmo percepirne che tre. Ma con questa ipotesi verremmo ad attribuire alle cose in sè una forma analoga a quella che noi in esse verifichiamo mediante le nostre sensazioni, le quali non appartengono ad esse. Possibile sarebbe pensare l’esistenza o di un altro mondo diverso dal nostro o di altri esseri viventi dotati di sensi, che percepissero quattro anzichè tre dimensioni; ma di questi esseri non abbiamo alcuna notizia. Con quest’ultima ipotesi c’è chi vorrebbe spiegare alcuni sperimenti spiritistici, come ad es. la sovrapposizione di due figure simmetriche, oppure la apparizione o sparizione di oggetti materiali da una camera perfettamente chiusa, senza forarne le pareti. Una tale ipotesi fisica sarebbe puramente fantastica.

Pur ammettendo fenomeni speciali del sistema nervoso, come quelli dell’ipnotismo, che possono fare alterare le nostre sensazioni e la conoscenza delle cose, non possiamo ammettere che un uomo, si chiami pure medium, abbia la facoltà, come credeva lo Zöllner, di agire attraverso uno spazio a quattro dimensioni per far passare un anello attraverso l’asta di un tavolino a tre piedi, che egli stesso mi fece vedere a Lipsia, senza concludere che il medium era un imbroglione spiritoso e lo scienziato, stimato per altri studi, si lasciava suggestionare dalla credula fantasia.

Nè possiamo ammettere le ipotesi dello spiritismo, colle quali si ricorre al soprannaturale per farlo intervenire a dare prova di poco spirito, dando luogo a fenomeni veri o falsi che avverrebbero soltanto in certe [p. 21 modifica]circostanze, specialmente di oscurità, di cui pare gli spiriti siano molto amanti. Ammettiamo pure che certi fenomeni non li possiamo ancora spiegare, e così fu sempre nella storia delle scienze naturali; ma dobbiamo cercare la loro spiegazione nelle leggi della Natura, perchè queste sole ci possono condurre nella scienza alla scoperta del vero. La paura dell’ignoto e il bisogno del nostro spirito di voler tutto conoscere, ci spiegano queste aberrazioni di tutti i tempi, così diffuse ancora ai nostri giorni, fra le persone colte. Nella ricerca del vero occorrono bensì fede, fantasia, entusiasmo, che sono i più potenti fattori del progresso umano; e qualche cosa dell’occhio dell’artista, di quell’occhio che condusse Leonardo da Vinci alle sue grandi opere, deve avere anche lo scienziato. Ma non è occhio d’artista lo svenimento romantico o la sfrenata fantasia che vuole forzare ad ogni costo le barriere insuperabili, che ci frapporrà la Natura ora e sempre.

Qual’è il valore del vero matematico nella ricerca delle leggi della Natura esteriore? Non possiamo chiederci quale utilità possano avere le costruzioni matematiche pure: basta che sieno feconde per scoprire nuove verità o altre relazioni fra quelle già stabilite. Del resto, ogni legge matematica, essendo una legge del pensiero, è anche legge della Natura. E per l’armonia meravigliosa che esiste fra le leggi del pensiero e quelle del mondo fuori di esso, non si può asserire a priori che in questo non possano avere un’applicazione utile le più alte e più astratte concezioni matematiche, anche se non furono suggerite dall’esperienza. I Greci che [p. 22 modifica]studiarono quelle linee che si chiamano coniche, e costituivano per essi l’alta geometria, non potevano certo prevedere che parecchi secoli dopo sarebbero ritrovate fra le orbite degli astri, di cui Keplero determinò le leggi, che a loro volta servirono alla scoperta di Newton della legge dell’attrazione universale. Chi poteva prevedere le svariate applicazioni della meccanica e dell’analisi infinitesimale alla determinazione quasi rigorosa dei fenomeni celesti, alla scoperta delle loro leggi, ai fenomeni fisici nell’ottica, nel calore, nell’elettricità, meglio determinando il valore delle ipotesi della fisica e scartando quelle non più corrispondenti ai fatti? Galileo disse che la Natura è un libro scritto in lingua matematica. Dove è ordine e misura la matematica può infatti entrare da matrona, e anche quando non è tale, dirige la costruzione degli istrumenti di precisione, che servono sempre alle scienze sperimentali, o delle macchine che servono all’industria; così che Napoleone I affermava, che dal progresso delle matematiche dipende la prosperità della nazione.

Nessun dissidio può esistere fra la teorica e la pratica: l’una aiuta l’altra, talora l’una precorre l’altra; una distinzione netta fra esse, non può essere che dannosa ad entrambe. Come da tempo nella statistica il calcolo delle probabilità ha reso e rende utili servigi nella interpretazione dei fenomeni della vita sociale, così i metodi della matematica hanno varcato la soglia delle scienze chimiche e delle scienze economiche e sociali, e già tentano di entrare, sebbene ancora timidamente, anche nelle scienze biologiche e fisiologiche15. Ed è pur noto che la matematica si presta volentieri a spiegare certi giuochi [p. 23 modifica]ricreativi, ed è una buona medicina contro la passione del giuoco del lotto.

Se però la matematica si applichi alla realtà esteriore, la scienza diventa metodo, istrumento possente di ricerca, il rigore del suo vero non può essere allora che relativo al fine che l’applicazione si propone o consente. Il ragionamento va posato su tutti i dati dell’esperienza, che sono essenziali alla risoluzione dei problemi pratici, perchè, mancando anche uno solo di questi, il calcolo o il ragionamento matematico può condurre a risultati in piena contraddizione colla realtà.

Le ipotesi sulle cause che producono i fenomeni naturali mutano per essere sostituite da altre più approssimate o più generali, che possono servire a spiegare un maggior numero di fatti o a meglio collegarli fra loro con un principio più generale; ma spesso accade, come nella fisica, che le equazioni matematiche mantengono il loro valore. Ed è spirito superficiale o intollerante quegli che, per siffatto alternarsi e modificarsi delle ipotesi, grida al fallimento della scienza, come se anche le vecchie ipotesi abbandonate non abbiano servito a fabbricare sulle loro rovine un edificio più grandioso e più solido. A noi non occorre conoscere le cause intime dei fenomeni, che la Natura ci tiene nascoste, ma le loro relazioni. E quando saranno noti, dopo lunga preparazione, tutti i dati per determinare queste relazioni, allora la matematica potrà scoprire anche fatti non prima osservati. Basta citare la scoperta del pianeta Nettuno fatta dal Le Verrier, che ancora giovane ebbe fede incrollabile nella legge newtoniana dell’attrazione, che regge i movimenti dell’Universo, sia pure con poco piacere del [p. 24 modifica]mondo, ma con molta sicurezza di esso. Così la deduzione del Maxwell che le vibrazioni elettriche sono rette dalle stesse equazioni che rendono ragione dei fenomeni luminosi, di guisa che le perturbazioni elettromagnetiche si propagano nell’aria colla velocità della luce, rimase per un trentennio una concezione puramente astratta. Ma l’Hertz, mostrando le onde che ne serbano il nome glorioso, dalle quali derivò l’applicazione del Marconi gloriosa anch’essa, dimostrò con esperimenti, che queste onde si comportano del tutto come la costruzione matematica del Maxwell aveva già profetato. E dalla matematica molto ancora si può attendere nello studio dei fenomeni naturali.

I Greci, così grandi nell’arte della bellezza e dell’esposizione del vero matematico, sono stati molto inferiori a sè stessi nella filosofia della Natura. Al Rinascimento italiano spetta la gloria di aver iniziato la filosofia sperimentale, alla quale le matematiche hanno reso così grandi servigi16. Che cosa possono dire i sogni dei metafisici contro la realtà dell’Universo, contro le epoche nelle quali si formarono il sole e la terra e si svolse la vita nella storia geologica in forme sempre più complete? E dove ha il razionalismo scoperto la gravità, l’attrazione universale, il magnetismo e l’elettricità, l’etere cosmico come mezzo magnetico ed elettrico, il principio della conservazione dell’energia, ed altri ancora, che sono i principali agenti attraverso lo spazio infinito? [p. 25 modifica]

Nel Rinascimento l’Italia fu anche maestra nelle matematiche. Nella pratica della prospettiva, quasi perfetta, di alcuni dei nostri grandi artisti di quell’età, scorgiamo i primi saggi della geometria proiettiva e descrittiva moderna, quali manifestazioni di quel felice connubio che presso alle genti latine spesso si incontra tra scienza ed arte. Ma mentre in Francia, in Inghilterra e in Germania, sotto il primo e vigoroso impulso degli Italiani, auspici Leonardo da Vinci e il Galilei, la scienza si arricchì nel secolo scorso di grandi scoperte ed applicazioni, vi erano bensì tra noi uomini di grande valore, come il Volta, ma le condizioni politiche impedivano la vita vera della scienza. Data all’Italia l’unità, sebbene lo Stato ancora nel disciplinare la scuola non ne abbia fatta base al nostro rinnovamento, si ravvivarono gli studi e la potenza intellettuale della Nazione, ed oramai una pleiade di uomini valorosi cresce prestigio ed onore alla scienza italiana.

Stringiamoci tutti intorno a questa alma mater: la quale a noi, piccolissimi corpuscoli sulla terra che come atomo si muove nell’Universo, insegna a penetrare col nostro pensiero nei grandi misteri di esso.

E voi, o giovani, che entrate ricchi di energie nella lotta e siete già baldi nella speranza della vittoria, diffidate dei caratteri deboli e di chi solo è intento al guadagno. Nella vita italiana, se pare tramonti l’ideale di un glorioso passato, spunta, io spero, l’ideale di un avvenire non meno glorioso. Nella scienza non respingete che le ipotesi vane; accettate o tollerate le altre, che possono portare luce nella scoperta del vero: e così, pieni di entusiasmo e di abnegazione, colla religione [p. 26 modifica]del dovere nel cuore, leverete in alto la fiaccola del sapere e della virtù, salirete su per l’erto e faticoso sentiero che guida alla verità, e, fatti cittadini benefici, accrescendo lustro e grandezza alla Patria, avrete in premio l’onore ed il trionfo.


Note

  1. [p. 31 modifica](1) Anche questo dimostra quali conseguenze abbia nel pensiero di coloro, che non proseguono gli studî matematici oltre la scuola classica, un insegnamento di matematica razionale elementare che pretende di avere per fine di insegnare a ragionare esattamente, e contiene invece, senza alcuna avvertenza, gravi errori ed incertezze logiche nei concetti e nelle dimostrazioni fondamentali.
  2. [p. 31 modifica](2) E ciò indipendentemente, così pel numero come per lo spazio o pel moto, da ogni ipotesi filosofica intorno alla genesi di queste idee, anche se per la formazione della prima idea di numero è necessaria l’esperienza, o se per quella dello spazio l’esperienza non fosse necessaria — V. A. Fondamenti di Geometria, Padova 1891 — Trad. tedesca di A. Schepp, ed. Teubner, Lipsia 1894.
  3. [p. 31 modifica](3) Se pure si ammette che l’idea di successione, anche di oggetti astratti successivamente pensati, ottenuti per es. colla ripetizione dello stesso atto del pensiero, provenga dalle sensazioni, che, secondo l’Ardigò, ne danno il ritmo, il passaggio però dalla successione limitata fornita dalle sensazioni a quella illimitata (nei miei Fond. ho distinto fin dal principio diverse specie di successioni illimitate - pag. 12 e 16) dipende, se vuolsi, da una legge mentale di generalizzazione, colla quale dai casi particolari, ad es. dall’aggiunta di un’unità ad un dato numero, passiamo al caso generico, cioè ad ogni numero; ma questa legge di generalizzazione, se è suggerita dall’esperienza, appare però un prodotto proprio del pensiero. E il concetto dell’illimitato è fondamentale, perchè esso ci fornisce dapprima l’infinito in potenza, e insieme col principio che ogni cosa generata [p. 32 modifica]dal pensiero possiamo supporla come già un tutto dato al pensiero stesso, ci dà, da un lato i numeri transfiniti di G. Cantor, dall’altro, gli infiniti e infinitesimi attuali. Il Poincaré sostiene che la regola aritmetica del ragionamento per ricorrenza, o, comunemente detto, dell’induzione completa, non è dimostrabile, e che, non potendo questa regola essere data dall’esperienza, essa è un giudizio sintetico a priori. Ma nei miei Fondamenti (pag. 18 - anzichè «dall’elemento di δ fuori di δ») nell’ultima riga del ragionamento bisogna dire «dalla prima forma di δ fuori di δ'») parmi di avere dimostrata la regola suddetta, facendo uso del concetto di successione illimitata di 1a specie; quindi anche questa regola, che, secondo il Poincaré, sarebbe un giudizio sintetico a priori, si riduce al concetto di successione illimitata di 1a specie. Così la questione filosofica è resa più semplice, bastando dimostrare l’origine sperimentale del concetto di illimitato. Tuttavia, se la matematica pura non può rimanere indifferente dinanzi al puro empirismo, che confinerebbe necessariamente il pensiero matematico nella sola successione limitata, può però non occuparsi delle altre ipotesi filosofiche, che ad essa concedono quanto è sufficiente al suo svolgimento. Non è così invece della geometria e della meccanica, che hanno necessariamente un’origine sperimentale, sebbene se ne rendano indipendenti nelle loro costruzioni, e tanto meno delle applicazioni della matematica nello studio dei fenomeni naturali (Vedi nota 12).
  4. [p. 32 modifica](4) Ho dato il postulato delle parallele indipendentemente dal piano per dimostrare di questo le proprietà fondamentali, evitando così la lacuna notata dal Gauss e uniformandone la trattazione a quella degli spazi a tre e a più dimensioni (A. l. c. ed Elementi di Geometria, Drucker, IIIa ed., 1905). La mia definizione delle parallele soddisfa alla condizione di esser verificata con grande approssimazione nel campo delle nostre osservazioni, ma il postulato si fonda praticamente sulla verifica dei segmenti eguali mediante il trasporto della riga o del compasso. Ora, una tale verifica non è che approssimativa; può darsi che qualora la si potesse eseguire in un campo più esteso, essa conducesse ad un altro postulato, anche supponendo sempre vero il principio del movimento dei corpi perfettamente rigidi: principio che è pure praticamente approssimativo.
  5. [p. 33 modifica](5) V. Helmholtz: Die Thatsachen in der Wahrnemhung, Berlin 1879, pag. 55 e seg. — Poincaré: a) La science et l’hypothèse, pag. 68 e seg. b) La valeur de la science, ad es. pag. 127 e seg., Paris, 1905.
  6. [p. 33 modifica](6) Con questa definizione dello spazio geometrico cade pure l’affermazione dell’Helmholtz, che le forme geometriche a più dimensioni possono esser svolte sicuramente soltanto coll’analisi.
  7. [p. 33 modifica](7) Il concetto di eguaglianza delle figure, come quello di due cose qualsiasi, deriva dal concetto logico di eguaglianza, e postulata nella geometria l’esistenza di segmenti eguali, si può dare una definizione generale dell’eguaglianza delle figure, che comprende pure le figure simmetriche nello spazio.
    Era invero strano che non fossero riconosciuti eguali due triedri opposti al vertice, che, in sè considerati, corrispondono perfettamente al criterio logico dell’eguaglianza, solo per il fatto che non si possono sovrapporre movendosi nello spazio, mentre possono geometricamente essere sovrapposti con un movimento attraverso lo spazio a quattro dimensioni, come due triangoli simmetrici del piano (che pur si riconoscevano eguali) non possono sovrapporsi che con un movimento attraverso lo spazio ordinario. Avevo poi anche notato, che, addottando il principio del movimento senza deformazione o dei corpi rigidi, per definire l’eguaglianza si cade in una petizione di principio, perchè non si può definire quel movimento senza il concetto di eguaglianza oltre che di altri concetti geometrici complicati.
    Anche il Poincaré (l. c., a) pag. 60) nota come la definizione dell’eguaglianza delle figure colla sovrapposizione contiene un circolo vizioso, e che la possibilità del movimento di una figura invariabile non è una verità evidente per sè stessa, o almeno non lo è che allo stesso modo del postulato di Euclide. Anzi, come ho osservato nella nota 3, la verifica empirica di questo postulato si può far dipendere dal movimento di una figura invariabile.
    Ma per la distinzione che noi facciamo di spazio geometrico da spazio fisico e quindi tra la geometria pura, per la quale il suddetto principio non è necessario, e le sue pratiche applicazioni, non siamo d’accordo coll’eminente matematico francese, quando egli sostiene [p. 34 modifica]che «en étudiant les definitions de la géométrie, on voit qu’on est obligé d’admettre, sans les demontrer, non seulement la possibilitè de ce mouvement, mais encore quelques unes des ses propriétés».
  8. [p. 34 modifica](8) Vedi Pasch: Ueber neuere Geometrie — A. Fondamenti di Geometria, Appendice.
  9. [p. 34 modifica](9) Due tratti a e b si dicono finiti fra loro quando: se a > b vi è sempre un numero intero n tale che b n > a.
    Nella geometria non-archimedea esistono anche segmenti a e b tali che non vi è alcun numero n intero finito, per quanto grande esso sia, che il multiplo di b secondo il numero n sia maggiore di a. Allora il segmento a dicesi infinito rispetto a b e b infinitesimo rispetto ad a — V. A. Fondamenti di Geometria, introduz. ecc.
  10. [p. 34 modifica](10) La superficie sferica verifica la possibilità logica della geometria del Riemann, quando due rette che si incontrano in un punto abbiano un altro punto comune. Se chiamiamo rette i circoli massimi, mantenendoci sulla superficie della sfera, noi vediamo che questa superficie soddisfa appunto alle proposizioni fondamentali del piano euclideo tranne a quella delle parallele, perchè non esistono sulla sfera due circoli massimi paralleli, chè a due a due questi circoli si incontrano sempre in due punti.
    La stella di rette, sostituendo la retta al punto, il piano della stella alla retta del piano (come il piano all’infinito improprio dello spazio euclideo), ci dà invece una rappresentazione del piano del Riemann, nel quale due rette si incontrano in un punto solo.
    Altre prove della geometria del Lobatschewsky e del Riemann furono date anche per lo spazio ricorrendo alla geometria a più di tre dimensioni. Vedi, ad es., A. Fond. di Geometria. Appendice.
  11. [p. 34 modifica](11) Il signor Pasch che tentò di fondare la geometria, nella sua opera citata, sul puro empirismo, è pure condotto nel suo bel libro alle tre ipotesi delle parallele.
  12. [p. 34 modifica](12) Il Poincaré (l. c. a) sostiene che nessuna nuova esperienza possa contraddire nè l’ipotesi euclidea nè le altre due. Ricorrendo [p. 35 modifica]all’astronomia, il Poincaré osserva che, verificandosi una delle due altre ipotesi, sarebbe più comodo ammettere che la luce non si propaghi in linea retta. A noi sembra che sarebbe questione di comodità ma non di verità; ad ogni modo, basterebbe provare con mezzi più perfezionati, senza ricorrere all’astronomia, che le distanze eguali misurate per stabilire il postulato delle parallele nella forma da me data o in altre analoghe non sono effettivamente eguali, come ho sopra osservato (nota 2).
    Pur accordandomi coll’Helmholtz sulla critica alle forme trascendenti a priori del Kant, essa però non è esente dall’obiezione che, non avendo egli ben distinto lo spazio geometrico dallo spazio intuitivo, appoggia sul principio del movimento dei corpi rigidi (nota 3) la definizione di eguaglianza delle grandezze fisiche, ritenendo tale principio necessario per la geometria.
    Ci siamo associati nei Fondamenti (pref., p. 14) all’osservazione del Wundt contraria all’opinione dell’Helmholtz, il quale, combattendo la teoria Kantiana, osserva che lo spazio potrebbe considerarsi quale forma a priori dell’intuizione senza che lo fossero anche i postulati. Vedi anche C. Cantoni: L’apriorité de l’espace dans la doctrine critique de Kant. Revue de Métaphisique et de Morale, Paris. Ma meno ancora possiamo concedere che, riconoscendo l’origine empirica della geometria, e che quindi nel mondo fisico il postulato di Euclide è meno sicuro degli altri, si attribuisca poi a questo postulato una necessità intuitiva subiettiva, perchè la intuizione in tal caso dipende necessariamente dall’elemento empirico e può variare con esso. (Vedi Enriquez: Sulla spiegazione psicologica dei postulati della geometria. Rivista fil. di C. Cantoni, 1901).
    Abbiamo certo la facoltà di intuire lo spazio, ma questa facoltà non è ancora l’intuizione. Si può ammettere anche un’intuizione logica distinta da quella proveniente dai sensi, e per quanto abbiamo detto nel testo sulla legge dell’illimitato, che è una necessità mentale, non possiamo ancora dire se la prima intuizione derivi necessariamente dalla seconda; certo è che nè l’una nè l’altra, o ambidue combinate insieme, ci conducono a una necessità intuitiva del postulato di Euclide. Il geometra non ha alcuna ragione di preferire questa o quella ipotesi filosofica sulla genesi delle sue idee, ma deve essere contrario a ipotesi come questa della necessità subiettiva del postulato di Euclide. Riconosciamo bensì la validità approssimativa di [p. 36 modifica]questo postulato nello spazio fisico, lo traduciamo poi in un postulato di un campo limitato dello spazio geometrico (nel quale può essere però sostituito anche dai non euclidei), ma pur lavorando in questo spazio coll’intuizione combinata coll’astrazione, se vogliamo estendere il postulato a tutto lo spazio illimitato geometricamente non possiamo affidarci ad una necessità intuitiva, non concessa da tutti, come è invece concessa la necessità dei principi della logica; dobbiamo bensì provare in qualche modo che tale estensione è possibile logicamente.
    Si possono ammettere bensì, come assiomi, le proposizioni fondamentali semplici che derivano dall’osservazione diretta pel campo esteriore; ma per l’estensione di queste proposizioni allo spazio illimitato di altre, più propriamente dette postulati o ipotesi, che non possiamo verificare direttamente, dobbiamo dimostrarne la possibilità logica.
    Come ho sopra osservato (nota 2), la matematica pura non ha che da rigettare il puro empirismo, perchè esso sarebbe un impedimento al suo sviluppo; invece la geometria e la meccanica non possono accettare quelle ipotesi filosofiche che contrastano con l’origine sperimentale di esse e con le loro conseguenze, pur creando anche delle forme che non trovano riscontro nel mondo fisico, mentre nelle applicazioni allo studio dei fenomeni fisici il matematico deve attenersi scrupolosamente all’interpretazione sperimentale della Natura. Sono quindi tre modi diversi che il matematico segue di fronte alle ipotesi filosofiche sulla conoscenza, secondo che si tratta della matematica pura, della geometria e della meccanica teorica, e delle applicazioni di esse allo studio del mondo fisico.
    Il pensiero, la psiche e il senso sono così intimamente connessi fra loro, che la separazione di ciò che è un prodotto di ciascuno è quasi sempre un problema arduo, se non di impossibile soluzione; di guisa che spesso la filosofia vi gira intorno da secoli, senza potervi penetrare completamente e raggiungere una soluzione definitiva. Soltanto con la specificazione e semplificazione delle ricerche e con un indirizzo sperimentale e scientifico, come accade ad es. nei principî della matematica, si potrà sperare di arrivare, in alcuni problemi almeno, ad una sintesi filosofica chiara e sicura, onde gli scienziati specialisti potranno diventare così i veri filosofi, preparando gli [p. 37 modifica]elementi di una tale sintesi. Ma se essi, come specialisti, stabiliti i loro principî e le loro costruzioni in modo inappuntabile, possono procedere nelle questioni filosofiche per via di eliminazione delle varie ipotesi che si contendono il campo, non debbono però lasciarsi tentare a dare come definitive, sintesi filosofiche per le quali essi non abbiano ancora gli elementi necessari e sufficienti. Così il popolarizzare la scienza è certo un compito sociale nobilissimo e utilissimo, che lo scienziato serio, quando può, non deve trascurare e tanto meno sdegnare; ma se pure non possa seguire in questo ufficio un metodo strettamente scientifico, non deve mai oltrepassare i giusti limiti. Non mancano bellissimi esempi, e nella popolarizzazione delle scienze esatte va segnalato anche quello recente dato dal Poincaré nei libri sopra citati, per quanto si possa anche in alcuni punti dissentire da lui.
  13. [p. 37 modifica](13) Occorre però provare che possiamo assoggettare i punti dello spazio ordinario ed un punto fuori di esso agli stessi postulati che derivano dall’esperienza ed agli altri già necessari per la costruzione dello spazio ordinario. E ciò può farsi non solo coll’analisi, ma anche colla geometria, costruendo nello stesso spazio ordinario, coi metodi della geometria descrittiva a più di tre dimensioni, una varietà a quattro dimensioni, che soddisfa appunto a quegli assiomi.
    Un punto dello spazio ordinario in questa varietà rappresenta una semplice infinità di punti, che mediante certe convenzioni vengono distinti fra loro.
  14. [p. 37 modifica](14) Dal punto di vista della deduzione, l’uso dei metodi analitico o geometrico non è importante, se non in quanto esso può servire a risolvere difficili questioni; ma da quello dei principî della scienza, la costruzione puramente geometrica degli spazi a più dimensioni, che deriva dalla distinzione dell’idea di spazio geometrico da quella di spazio fisico e di spazio intuitivo, è invece di molta importanza, perchè ci dà effettivamente il contenuto geometrico della geometria a più di tre dimensioni, come l’analoga costruzione ci dà quella del piano e dello spazio ordinario, dalla quale deduciamo le loro proprietà.
     [p. 38 modifica]Inoltre tale costruzione ci permette di formarci con molta semplicità il concetto di spazio generale a infinite dimensioni, mentre colla sola analisi non si avevano dapprima che varietà ad un numero finito di dimensioni — V. A., l. c., pref.
  15. [p. 38 modifica](15) Vedi anche V. Volterra, Sui tentativi di applicazione delle matematiche alle scienze biologiche e sociali. Discorso inaugurale. Roma, 1901.
  16. [p. 38 modifica](16) Vedi A. Capelli: La matematica nella sintesi delle scienze. Disc. inaug. Napoli, 1889.