Il secolo galante/Madamigella Lespinasse
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MADAMIGELLA LESPINASSE
Giulio Claudia Ilaria d’Albon, ereditiera del marchesato di Saint - Forgeux c del principato d’Yvetot, divenuta contessa d’Albon per il matrimonio con un suo parente conte d’Albon, ebbe da questi due figli. Molti anni dopo (quasi venti), vivendo divisa dal marito, diede segretamente alla luce una bambina che, battezzata quale figlia del signor Lespinasse, borghese di Lione e della sua legittima consorte, venne subito accolta ed allevata dalla contessa d’Albon, la quale, non osando riconoscerla apertamente, velie almeno con tale mezzo proteggerla.
Bagnata spesso dalle lagrime di sua madre, conoscendo la dolcezza de’ suoi baci, circondata dalle cure più attente di una educazione nobile ed elevata, i primi anni di Gara Lespinasse non dovettero essere cattivi. Tutto ciò ch’ella disse di poi sulla sua cattiva giovinezza, si riferisce indubbiamente al periodo che seguì la morte di sua madre, avvenuta verso il 1747, quando ella aveva poco più di quindici anni. La gelosia dei figli legittimi d’Albon, fino a quel punto repressa e contenuta, si scatenò allora colla brutale avidità delle questioni di interesse dove ogni sentimento gentile fa naufragio, e non potendo toglierle la meschina pensione di cento scudi, iscritta sul testamento della contessa, si appropriarono una somma in denaro che ella stessa le avave regalato negli ultimi istanti e che la Lespinasse, troppo ingenuamente, fece palese. Un dubbio soprattutto turbava i d’Albon, ed era quello che fondandosi sul fatto di essere nata mentre il conte d’Albon viveva ancora, Clara non tentasse le vie dei tribunali per avere una parte della lauta successione di famiglia. È a questo scopo che, trincerandosi dietro un movimento di apparente pietà, sua sorella, maritata al marchese di Vichy Chamrond le aperse la propria casa.
Il castello di Chamrond sorgeva sulla riva destra della Loira, quasi sulla cresta delle colline che si stendono da Vigoin a Roanne. I Vichy avevano tre bambini. Fu in questo castello e fra questi bambini che la Lespinasse trascorse gli anni peggiori di quella che si suole chiamare la bella età. Trattata niente più di una semplice governante coll’incarico degli uffici più umili, oggetto continuo di diffidenza e di avversione per parte di coloro che ella sapeva suoi parenti e che la odiavano appunto per ciò, scrisse più tardi ad un amico: «Tutto quello che leggiamo nei romanzi è freddo e privo di interesse in confronto al racconto che voglio farvi della mia giovinezza.»
E l’anima che si affinava in codeste prove era alta, generosa, sensibile; era un’anima ardente, aperta all’entusiasmo di ogni cosa bella. Marmontel la definisce uno strano miscuglio di ragione, di saggezza, di compostezza unite alla testa più viva ed alla immaginazione più infiammabile che abbiano esistito da Saffo in poi.
Cinque anni rimase madamigella Lespinasse so i Vichy, quando la marchesa Du Deffant, sorella del conte Vichy, venuta a Chamrond a passarvi l’autunno, fu colpita non solo dalla grazia della fanciulla, ma più ancora dalla invincibile tristezza che emanava da tutto il suo contegno. Non certamente per bontà d’animo la Du Deffant si interessò dell’orfanella; ma vecchia, quasi cieca, sola, annoiata, giudicò che nulla dovesse essere più facile che assicurarsi quella compagnia per i suoi ultimi giorni, e le propose di seguirla a Parigi. Tra il sì e il no, essendo rinata la diffidenza dei Vichy, che temevano di non poter più sorvegliare una persona da essi ritenuta pericolosa per i loro interessi, le trattative si prolungarono per oltre un anno, trascorso dalla Lespinasse in un convento di Lione. Ella era decisa, se le trattative non fossero riuscite, a farsi monaca, piuttosto che rinunciare a Chamrond. Ma finalmente, dopo averle fatto promettere che anche a Parigi non avrebbe tentato nessun passo per acquistare un nome che essi le negavano assolutamente il diritto di portare, dopo che la marchesa stessa si incaricò di sorvegliarne la condotta, non lasciandola mai libera nè in casa nè fuori, pesata e misurata con minuzia scrupolosa la lunghezza della nuova catena che si stava per imporle, fu raccomandata a persona di fiducia, che la condusse a Parigi colla diligenza di Lione in un giorno d’aprile del 1754.
Quali sogni, quali speranze fecevano battere il suo cuore di fanciulla e di provinciale? sperava forse di trovare nella grande città quell’amore che il suo temperamento ardente poneva al disopra di qualunque fortuna? Certo il destino doveva tracciare in quel giorno la linea inesorabile del suo avvenire, poichè eccola sbalzata dall’oscuro cantuccio dove aveva vegetato per ventidue anni in quell’asilo di via S. Giuseppe, che la presenza di una donna già celebre alla Corte per la sua galanteria, sapeva ancora animare di un soffio mondano, pieno di spirito e di mordacità. Alla marchesa Du Deffant facevano corona il presidente Hénault, l’arcivescovo di Tolosa, l’arcivescovo d’Aix, i principi di Beauveau e di Luxembourg, Turgot, Boismont d’Alembert, d’Aydie, Pont-du-Veyle, Marmontel, e in questa duplice ghirlanda dell’ingegno e dell’aristocrazia, la damigella Lespinasse, lungi dal trovarsi imbarazzata, come sarebbe stato naturale il credere, si affermò fin dal primo momento con un tatto, con uno spirito, una distinzione che le conquistarono tutti i suffragi.
Orfana, senza fortuna e senza nascita, come si diceva allora, ella aveva però nel sangue la nobiltà della famiglia materna, e poteva giustificare la diceria corsa per un certo tempo che suo padre fosse il cardinale Tencin, esso pure di gran lignaggio. In realtà però non se ne seppe mai nulla; i biografi di madamigella Lespinasse smentirono recisamente questa supposta paternità, ma non ne trovarono un’altra da sostituirvi. Per i posteri, come per i contemporanei, ella resta la figlia della contessa d’Albon.
La marchesa Du Deffant si guardava bene dal presentarla con questo nome. Diceva a tutti che era una signorina di provincia, senza parenti, e se non poteva nasconderla a’ suoi numerosi amici, le faceva condurre in complesso una vita abbastanza dura, non lasciandole alcuna libertà, obbligata come era a dividere il di lei metodo irrazionale di stare alzata tutta la notte e di coricarsi al mattino, dopo di aver passate le prime ore dell’alba a leggere ad alta voce accanto al letto della vecchia cieca per conciliarle il sonno. Si capisce come la Lespinasse potesse nutrire altre aspirazioni, altro pascolo alla sua immaginazione ardente e come il successo ottenuto nella società della marchesa le acuisse il desiderio di piacere, violento in lei, reso quasi spasmodico dalla mancanza di affetti. Fu così che si venne preparando lentamente la grossa bufera che doveva strapparla anche da quel posto. La Lespinasse abitava in casa della marchesa una piccola e triste camera, abbastanza separata dall'appartamento principale, perchè la Lespinasse si arrischiasse dopo qualche anno a ricevervi in privato qualcuno dei frequentatori del salotto.
Ella si alzava alle cinque di sera, un’ora prima della marchesa, e prese a poco a poco l’abitudine di consacrare quell’ora a fare la padrona, come una bimba che giuoca alle visite. Convenivano da lei d’Alembert, Chastellux, Turgot, Marmontel. La giovine entusiasta si animava di tutte le sue grazie, di tutto il suo spirito per fare gli onori della povera cameretta — e la specie di ministero che circondava tali riunioni e la necessità di contenerle nello spazio di un’ora, dovevano conferir loro un sapore piccante di frutta proibito, che ne era forse la principale attrattiva.
Ma venne il giorno in cui la marchesa scoperse questi ricevimenti clandestini; e diffidente com’era e di carattere duro e geloso, montò su tutte le furie. Il diverbio fu brusco, implacabile. Bisogna dire, a giustificazione parziale della Du Deffant; che ella aveva fin dal principio avvertita la damigella di questo suo carattere diffidente, scongiurandola a non far nulla che potesse irritarlo e le aveva detto che teneva immensamente a’ suoi imici, sopratulto a d’Alembert... Non si poteva colpirla più direttamente. Tuttavia riconoscendo anche alla Lespinasse il diritto che ha ogni persona libera di crearsi i propri affetti, gli amici in massa diedero torto alla marchesa; la rottura si presentava inevitabile; si separarono. Dopo dieci anni di convivenza, nel 1764, la Lespinasse lasciò l’asilo di via S. Giuseppe.
Ancora sola, povera, senza tetto! I nuovi amici però non la abbandonarono. Essi scovarono per lei, non molto lungi dalla rivale, un piccolo appartamento sull’angolo delle via San Domenico e Belle-Chasse, nello stesso sobborgo di San Germano. La duchessa di Luxembourg le regalò il mobiglio; il duca di Choiseul le ottenne dal re una modesta pensione; poco tempo dopo, quel genio della beneficenza che fu la signora Geoffrin ve ne aggiunse un’altra; così, non ricca certamente, ma provveduta a sufficienza per le sue abitudini sobrie e modeste, ella si trovò finalmente libera di sè. Ròsa dall’invidia, la marchesa commise allora l’imprudenza di proibire a d’Alembert le visite in via San Domenico sotto minaccia di trovar chiusa la porta in via San Giuseppe. D’Alembert non esitò un solo istante fra le due vie e la vecchia marchesa non lo livide più. Si può credere senza difficoltà ohe tale perdita le fu oltremodo penosa, e ne abbiamo una prova nelle parole aspre che pronunciò, vecchissima e presso alla tomba, quando seppe la morte della Lespinasse: «Ah! poteva morire dieci anni prima, avrei conservato il mio d’Alembert».
E d’Alembert meritava veramente tanto rimpianto. Egli appare una delle figure più simpatiche di quel cenacolo intellettuale che circondava Diderot aiutandolo nell’immane lavoro della Enciclopedia.
Scienziato, dalla mente lucida e ferma, uomo incorrotto, ottimo amico, era in pari tempo un compagno gioviale, divertentissimo; ad una intelligenza delle più profonde sapeva congiungere le qualità più amabili, tanto che dopo di avere trascorso la mattina a risolvere problemi d’algebra e d’astronomia, correva a divertirsi nel bel mondo, accolto festosamente dovunque per la sua semplice schiettezza, per l’assenza completa di boria e di dissimulazione. Questo segretario perpetuo dell’Accademia di Francia, questo corrispondente di Federico li, aveva il miglior pugno di Parigi e per complemento di meriti si svariati sapeva parodiare con una comicità meravigliosa il lato ridicolo delle persone. Senza fiele del resto e senza invidia, grande con una semplicità di fanciullo, i suoi scherzi non fecero mai male a nessuno. Risulta dalla sua facile rinunzia che egli non era molto attaccato alla Du Deffant, se pure questa lo apprezzava, e che frequentandola per semplice diletto dello spirito la giudicava severamente, poichè in una lettera a Voltaire non si perita di chiamarla: vieille et infame catin. Decisamente mancava a quella donna il segreto di farsi amare!
La Lespinasse invece era, e per elevatezza dell’animo e per acuta sensibilità e per qualità intime di calore e di passione tutte sue, la vera creatura fatta per l’amore. D’Alembert nella citata lettera a Voltaire nega recisamente che vincolo d’amore vi fosse tra lui e la Lespinasse, e lo negano anche per ragioni delicate e maliziose molti dei contemporanei; ma sollevandolo al disopra della volgarità e qualunque sieno stati i loro rapporti, il sentimento che d’Alembert mostrò per la Lespinasse non solo fin che visse, ma oltre la tomba, appartiene alla più tenera, alla più verace essenza dell’amore.
Tutto contribuiva a legarlo a lei, incominciando dalla comune nascita misteriosa. Raccolto sui gradini di una chiesa dove lo aveva gettato la sua snaturata madre (la marchesa di Tencin), egli fu dal padre stesso, che era un oscuro impiegato, certo Destouches, messo a nutrice presso una buona donna, moglie di un vetraio, e in quell’umile dimora crebbe e {visse fin quando una grave malattia venne a colpirlo. A madamigella Lespinasse parve giunto allora il momento di rendere al suo amico l’alta prova di attaccamento che egli le aveva ’ data e andò a stabilirsi al suo capezzale; poi, giudicando la camera della vetraia insalubre troppo per compirvi la convalescenza, lo indusse a seguirla nella via San Domenico in un alloggio confinante col suo e nel quale rimase, lasciando che i maligni si sbizzarrissero a lor talento. Tenuto a battesimo col nome di Giovanni Le Rond in memoria della chiesa di San Giovanni Le Rond (ora distrutta), sui gradini della quale aveva emesso i primi vagiti, assunse più tardi quello di d’Alembert, che illustrò con parecchie opere scientifiche, Trattato di dinamica, Trattato dell’equilibrio, ecc. ed anche con opere filosofiche, estratti di Bacone e di Tacito, una storia dei Gesuiti, un saggio sui letterati. Il suo ingegno era vinto solamente dalla sua dottrina e la sua dottrina dal suo cuore.
Appoggiata a un affetto così sicuro, coll’amicizia di uomini eminenti o simpatici, quali il cavaliere d’Aydie, Suard, Galiani, il principe di Beauveau, il presidente Hénault (che affrontò per lei Tira della sua vecchia amica Du Deffant), Laharpe, Turgot, Marmontel, Chastellux, Condorcet (il futuro Girondino, del quale s’è detto che si uccise con meno parole di Socrate e con maggior dignità di Catone), gli arcivescovi d'Aix e di Tolosa, di grandi dame come la principessa di Luxembourg e la duchessa di Chàtillon, la Lespinasse vide crescersi intorno una società che doveva emulare non solo ma anche superare quella che alla aveva già conosciuta nel salotto della marchesa. Un testimonio dei più competenti lasciò scritto: «In nessun posto là conversazione era più viva, più brillante, nè meglio regolata. Era un raro fenomeno quel grado di calore temperato e sempre eguale in cui ella sapeva conservarla, moderandola o ravvivandola volta a volta. La continua attività del suo spirito si comunicava a noi e bisogna notare che le teste che ella girava a suo talento non erano nè deboli, nè leggere. Condillac e Turgot stavano nel numero, d’Alembert non eia presso a lei che un docile fanciullo. La sua specialità di mettere avanti un’idea, di darla a discutere a uomini di quella forza, di discuterla lei stessa con precisione, talvolta con eloquenza; la sua abilità di variare gli argomenti, sempre colla disinvoltura di una fata che muta con un colpo di bacchetta la scena degli incanti, questo talento, diciamolo, non è quello di una donna comune. Continuo oggetto della nostra attenizone, sia che parlasse o che ascoltasse, senza civetteria sapeva ispirarci l’innocente desiderio di piacerle e senza affettazione ci faceva intendere fin dove può giungere la libertà della parola».
Era bella la Lespinasse? Questa domanda, che il lettore fa sempre quando si tratta di una donna, si impone particolarmente nel caso attuale. No, non era bella. La grazia, la distinzione, una grande nobiltà nella figura, nel portamento e nel contegno risultano le soli doti esterne che aiutassero il fascino particolare del suo spirito. Si è detto che non esiste alcun ritratto di madamigella Lespinasse. Ne abbiamo tuttavia sott’occhio uno, apocrifo certamente, e vediamo in esso un volto irregolare, con uno di quei profili capricciosi che sembrano sfidare tutti i canoni dell’estetica. I capelli rialzati sulla fronte con molta semplicità sono raccolti dietro da un velo che scende sugli omeri. Un fichu bianco, aperto sul petto e fermato con un mazzolino di fiori, lascia emergere il collo recinto da una striscia di velluto, sulla quale sono ricamate o riportate delle viole e da cui pende una catenella che sorregge, a sua volta, una piccola colomba dalle ali spiegate. Guibert ci ha poi lasciato il seguente ritratto a penna che è certo il più somigliante: «Era molto meno che bella; il vaiuolo aveva leggermente alterato il suo volto; ma la sua bruttezza non aveva a primo colpo d’occhio nulla di repulsivo; al secondo vi si era già abituati e quando parlava non la si ricordava più. Era alta e ben fatta. Io non la conobbi che dell’età di trentotto anni e la sua figura era ancora nobile e piena di grazia. Ma ciò che ella possedeva, che la distingueva sopra tutti, era quel primo fra gli incanti senza il quale la bellezza non è che una fredda perfezione: la fisionomia. La sua non aveva un carattere particolare, li riuniva tutti; così non si poteva dire precisamente che fosse spiritosa o vivace, o dolce, o nobile, o fine, o graziosa; elogio questo che rimpicciolisce la persona che si vuol lodare, perchè quando un volto ha un’espressione invariabile, questa è piuttosto il risultato della sua conformazione che non ciò che si intende per vera fisionomia. La fisionomia viene dall’interno, nasce dal pensiero, è mobile e fuggitiva, sfugge all’occhio e inganna il pennello. Oh! chi non ebbe la fortuna di vivere nella sua intimità, in quella delle sue affezioni e della sua confidenza, non può sapere che cosa sia fisionomia!»
Da questo complesso appare che nella Lespinasse, come in tutte le donne veramente interessanti, la espressione dominava la linea e la luce interna assorbiva, distruggendolo, ciò che vi era di imperfetto nelle proporzioni. Del resto, se essere bella per una donna equivale a piacere, ella non dovette mai accorgersi di essere brutta, e questa medesima mancanza di un disegno che ne precisi le linee accresce la suggestione di una faccia che la passione doveva dominare per intero fino a trasformarla volta per volta secondo il desiderio dell’uomo che ella amava. Pensi dunque chi vuole di vedere madamigella Lespinasse nella donna dalla colomba sospesa al disopra del cuore; molti altri preferiranno di immaginarla, come io la immagino, ravvolta nel velo oscuro che sottrae agli sguardi indiscreti l’espressione suprema dell’amore.
Contrariamente alle altre riunioni dove dal più al meno i pranzi e le cene formavano una delle attrattive principali, non si pranzava e non si cenava affatto nel quartierino di via San Domenico. La modesta proprietaria si accontentava di ricevere gli amici dalle cinque alle nove; alle dieci al più, nelle sere in cui si faceva qualche lettura importante, Il viaggio all’Isola di Francia di Bernardino di Saint-Pierre o il Barnevelt di Laharpe. Di gusto finissimo, ella era una ascoltatrice delle più intelligenti. Accomodata nella sua poltrona, colla fida cagnolina ai piedi, l’occhio suo nobile e parlante doveva essere il migliore incoraggiamento. Con un semplice gesto dava il segnale dell’approvazione o della disapprovazione, e ci par di vederla sorpresa, indignata, quando Buffon, che ella aveva desiderato di conoscere, osò pronunciare in sua presenza questo volgare paragone: è un altro paio di maniche. — Un altro paio di maniche! — ripetè fra i denti madamigella Lespinasse — e si lasciò cadere scoraggiata nella sua poltrona e per tutta la sera non parlò più.
Ma se l’ingegno eletto e la somma distinzione dei modi la raccomandavano particolarmente in quella società del secolo XVIII dove collo spirito si vincevano tutte le battaglie, ella aveva pure una nota personale, affatto opposta alla corrente, che le assegna il primato della passione. — Temperamento vulcanico visse per amare e per essere amata, e la sincerità del suo modo di amare doveva per il contrasto appunto apparire straordinaria in un paese e in una società dove l'amore vestiva a preferenza dell’ardore i caratteri della grazia e della civetteria. Si ignorano le prime fiamme che pur dovettero riscaldarla all’aprirsi dei quindici anni, quando nel solitario castello di Chamrond curava i bambini di sua sorella, ma è impossibile che ella non abbia fin da allora confidato alle acque cangianti della Loira qualche segreto sogno d’amore; solamente il sogno è rimasto segreto e il primo innamorato della Lespinasse che il pubblico fu ammesso a conoscere fu un giovane irlandese da lei incontrato nel salotto della Du Deffant. Fuggitivo amore tuttavia che non lasciò nessuna traccia nella sua vita.
Era il sole ardente dei trenlacinque anni che doveva maturare la gran passione e la gran passione si chiamò Nicolò Pignatelli, conte di Fuentes, marchese di Mora, grande di Spagna di prima classe. Giovane, intelligente, focoso, di sangue principesco, eroico come un vero discendente del Cid, accreditato alla Corte di Francia, messo a ruba dalle belle signore, egli preferì a tutte madamigella Lespinasse, molto più vecchia di lui, ma che seppe ricambiarlo con un ardore che fece del loro legame un’estasi reciproca. «L’anima vostra — le diceva il marchese di Mora — sembra scaldata al sole di Lima e lè mie compatriote al vostro confronto sembrano nate nej ghiacci della Lapponia». Avendo dovuto rimanere per dieci giorni a Fontainebleau, colla Corte, le scriveva due volte al giorno. Gli ardori della Monaca portoghese e quelli della Nuova Eloisa non erano più nulla in confronto. Fu dunque un vero amore basato sopra invisibili affinità di temperamento e di maniera di sentire; amore bello e schietto, della cui perdita madamigella Lespinasse avrebbe dovuto non consolarsi mai più. Invece... invece ecco ciò che avvenne:
Da due anni circa durava la relazione quando la famiglia del marchese di Mora lo richiamò in Spagna; apparentemente per causa della sua salute che deperiva nella vita febbrile di Parigi, essendo già attaccato da mal sottile; altri vuole perchè appunto la sua relazione colla Lespinasse dava ombra al nobile e possente parentado. Comunque, i due amanti dovettero separarsi, forse sperando nell’avvenire, forse sapendo di non doversi rivedere mai più; ma il loro carteggio durò ininterrotto fino alla morte del marchese, avvenuta a Bordeaux, il 27 maggio 1774, mentre ritornava, non ancora guarito, in Francia.
La Lespinasse, che a tale annuncio diede i segni del più gran dolore, doveva unirvi i primi germi di quel rimorso, di quel rimpianto, di quella disperazione senza nome che fu il martirio de’ suoi ultimi anni e quasi la croce sanguinante che la aspettava in cima alla sua vita di passione, poiché ella era stata infedele a così tenero amante, e la morte improvvisa di lui appena toccò il suolo francese, doveva impressionarla come una oscura minaccia, come il principio di un lungo castigo.
Qualunque sieno le circostanze attenuanti che si possono invocare per iscusarla, circostanze di temperamento, di ambiente, di occasione, l’impazienza della Lespinasse dimostra troppo che i suoi ardori si portavano più sul soggetto che sull’oggetto, più sull’amore che sull’amante.
Se Mora era assente, il colonnello Guibert era presente ed era esso pure giovane, bello spiritoso, galante, cinto della doppia aureola di gloria militare e di gloria letteraria, reso celebre nei salotti parigini per un libro che aveva fatto furore (Essai sur la tactique). Si era egli almeno innamorato sinceramente e spontaneamente come il povero Mora? È lecito dubitarne. Freddo, vano, innebriato della rapida gloria, cedette a un movimento di gagalanteria, forse a un capriccio o ad una curiosità davanti a quella donna di trentotto anni che non era mai stata bella ma che aveva intorno a sè come una atmosfera di passione; e in un giorno state, durante una gita sulle rive della Senna, nella casa di un amico comune (il pittore Watelet), madamigella Lespinasse dimenticò il povero giovane che si trovava tanto lontano, tanto lontano... nè la morte di Mora, sopravvenuta poco tempo dopo, doveva essere il solo castigo di tale infedeltà. Guibert stesso si incaricò di vendicare il tradito, senza saperlo, certo senza volerlo.
Se la Lespinasse lusingavasi di continuare con Guibert l’estasi del suo amore con Mora, dovette beipresto disingannarsi. Un ricambio così perfetto non capita due volte nella vita, è anzi ben raro che capiti anche una volta sola, e il felice mortale che è riuscito a stringere, sia pure una volta, questo pomo d’oro del giardino ideale, deve accontentarsene per sempre. «Il signor Guibert (scrive madama di Stael) è violento e impetuoso, ma le emozioni alle quali si lascia trascinare non sono durevoli e le sue azioni come le sue decisioni non dipendono mai da quelle». Era dunque per temperamento e per modo di sentire il contrario perfetto della Lespinasse, l’uomo che meno di tutti poteva surrogare, se fosse stato possibile, il bollente ed entusiastico Mora. Da tutta la corrispondenza che madamigella tenne con lui si ha l’impressione chiarissima della sua indifferenza, appena palliata dalle abitudini di un uomo di mondo, e da una specie di bontà compassionevole che, rintuzzando la passione della disgraziata donna, recava sempre nuova messe di tributi alla sua vanità; vanità antipatica che trapela perfino nell'elogio pronunciato sulla sua tomba, vanità che gli fece conservare le lettere di lei, — anzi affidare alla giovane moglie, la quale le pubblicò dopo la morte della Lespinasse. Non si trovarono quelle scritte a Mora!...
Le lettere della Lespinasse a Quibert ispirano una profonda pietà. Fa pena vedere come una donna di tanto merito si lasci trascinare dalla passione a un punto di esaltamento che rasenta a volte l’ingiustizia, a volte la follia, a volte il ridicolo. Il ritornello obbligato è «Vi amo! Soffro!» e lagnanze continue sulla di lui freddezza, sulla poca puntualità a rispondere, sulle sue distrazioni mondane. È con una indignazione che sarebbe comica se non sgorgasse fra le lagrime che ella lo rimprovera di non saper amare come il marchese di Mora. «Quale anima! Nessuno lo eguaglierà mai più! Nessuno può immaginarsi quanto mi abbia adorata. Ah! perchè non sono morta insieme a lui!» — E poi, quasi naturale conseguenza: — «Vi amo! Soffro! Vi aspetto! Non vivo che per voi!» — E sempre così in tutte le centosettanta lettere del volume, alternando il vivo ed il morto, servendosi dell’uno per eccitare l’altro, straziata fra il rimpianto di Mora e il desiderio di Guibert, nella impotenza di riafferrare l’ora ardente della passione.
Singolare imbarazzo anche per il signor Guibert! Fin dalle prime lettere il tono è quello dell’amarezza, segno che l’illusione era stata breve. Madamigella lo ama pazzamente, ma non è contenta del ricambio e gli getta sempre davanti il fantasma del marchese; lo vanta, lo esalta, piange, si dispera, mescendo passato e presente, quello che ha, quello che ha avuto e quello che vorrebbe avere. L’effetto essendo mediocre, ella raccoglie le tenerezze degli altri amici per mortificare o spronare il tiepido amante. Gli dice come tutti si informino della sua salute, come se ne interessino, come non possano stare lontani da lei. Ma Guibert sordo. Gli domanda recisamente se è possibile che l'ami trascurandola a quel modo. E Guibert zitto. Egli viaggia in Germania, si diverte evidentemente e le scrive quando non ha di meglio a fare. Ritorna, ma la situazione non muta e le lagnanze imperversano. Il signor Guibert viene a trovarla? — si lagna che la visita è stata corta. Le scrive? — si lagna che la lettera è asciutta. Va in campagna? — si lagna. Legge? — si lagna. Non legge? — si lagna ancora. Le ultime lettere non sono più che rimproveri ed enumerazione di mali. «I miei intestini mi fanno dimenticare le sofferenze della mia anima. Ho tossito in modo da assordare le ventiquattro persone presenti.»
Sì, lo stato morboso di questa eterna assetata d’amore fa compassione, quantunque ella si ribelli all’idea di ispirare un simile sentimento, ma quando ella scrive a Guibert: «La mia sola colpa è di avervi amato,» egli avrebbe potuto rispondere con pari candore: «E la mia quella di non amarvi!» Oh! Dio, l’amore non è una cambiale a scadenza determinata per cui si possa intimale ad una persona: Io vi amo, amatemi! Si impone la stima, la considerazione, il rispetto, l’amicizia anche, ma l’amore sfugge a qualsiasi legge. Si ama quando si ama e non quando gli altri vogliono essere amati. Alla stessa Lespinasse si potrebbe chiedere: E voi perchè foste così crudele con d’Alembert? Egli vi amò pure per sedici anni costante, tenero, remissivo, pago di vivere nella vostra ombra, devoto al punto che andava in persona alla posta per ritirare le lettere che vi premevano di più onde calmare le vostre convulsioni. Perchè non lo avete amato? Vedete bene, madamigella, che l’amore non si comanda.
Durante queste crisi alternate di voluttà e di spasimo, era proprio d’Alembert che raccoglieva il contraccolpo delle sofferenze della sua amica, e sopportava tutto, malumori e durezze, perchè egli l’amò veramente come si ama una volta sola. Egli fu, presso a lei che correva all'impazzata suscitando vampate di fiamme, il fuoco tranquillo e sicuro, la piccola lampada che arde perenne. Egli doveva pronunciare le più nobili parole che sieno mai uscite da cuore amante quando, inconsolabile per la morte della Lespinasse, un amico lo andava persuadendo che non meritava poi tanto rimpianto, perchè era molto cambiata dai primi anni della loro amicizia: «Sì, è vero, era molto cambiala, ma io non Io ero», rispose d’Alembert.
L’ultimo calice amaro riserbato alla Lespinasse fu il matrimonio di Guibert. Ella si rassegnava alle briciole d’amore che il fortunato vagheggino le concedeva di tanto in tanto, avanzi de’ suoi banchetti galanti, pur di conservare qualche cosa; ma quando seppe che sposava una fresca e leggiadra giovinetta, la signorina di Courcelles, il suo strazio divenne insopportabile e ne aggravò per tal modo i mali da sollecitarne la fine. Non vi era più nessuna speranza per lei; la tomba di Mora, le nozze di Guibert e la sua giovinezza finita per sempre! Si comprende con quale strazio ella andasse ad assistere alle rappresentazioni dell’Orfeo e come dieci volte al giorno avrebbe voluto riudire il canto divino dove piange così ineffabilmente il genio di Gluck:
J’ai perdu mon Eurydice...
La lotta fra la fierezza e la gelosia, fra il decoro e l’amore diventa, nelle ultime lettere, tragica. Ella vorrebbe attaccarsi a quel crudele simulacro della passione a cui gli amanti reietti credono di dare vita chiamandolo amicizia, ma questo calino sentimento appare nelle sue espressioni a Guibert come un mantello tutto a strappi dal quale si scorgono le piaghe vive del suo povero corpo. Fosse arte raffinata od inconscia civetteria di uomo vano, la condotta di Guibert, che sopra un fondo di freddezza e di indifferenza lanciava batto tratto una ingannevole parola affettuosa, non permetteva alla disgraziata nè di guarire nè di dimenticare. Durante le frequenti assenze di Guibert la sua vita era attaccata all’arrivo del corriere; si faceva portare la sua corrispondenza in casa di madama Geoffrin, dove pranzava spesso, ma fin che non giungeva la desiderata lettera ella prendeva ben poco interesse alla conversazione, evi miei occhi e la mia anima (scrive lei stessa) sono fissi sull'uscio e sulle mani di tutti quelli che entrano.» Ma quasi sempre l’arrivo della lettera non era che un disinganno di più. Un terribile biglietto che le fu scritto dal castello di Courcelles, il giorno stesso delle nozze, la annientò.
Ma dopo di aver passati otto giorni fra le convulsioni e di avere invocata la morte, che le sembrava più dolce della rinuncia, dopo l’indignazione e l’orrore che le assalirono per l’uomo che aveva osato scrivere tante durezze a chi lo adorava, con docilità di colomba ferita ella piega di nuovo la testa e si occupa per far trionfare all’Accademia un nuovo libro di Guibert (Eloge de Catinat). Ella crede con ciò di soddisfare il suo orgoglio rendendo bene per male e riprende senza accorgersene il fatal giogo.
La sua salute era però scossa per sempre. Dal giugno 1775, data del matrimonio di Guibert, al 23 maggio 1776, in cui morì, la vita della Lespinasse non è più che una lenta agonia, e nel supremo disgusto della passione che l’aveva ridotta in quello stato, prossima al distacco di ogni illusione, un sentimento dolce, quasi un ritorno su se stessa, la rende pietosa verso d’Alembert. Chino sul suo origliere il fido amico potè ritrovarla come negli anni della prima intimità, tenera e buona. Il rimorso che sembrava attaccarsi a lei sotto tutte e forme le faceva ora rimpiangere di aver prodigato altrove tesori d’amore; si riconosceva indegna di tanto affetto, stolta per non averlo saputo apprezzare e cedendo finalmente ad un sentimento di giustizia gli confessò sospirando che lui solo, fra coloro che l’avevano amata, non l’aveva fatta soffrire. Nobile d’Alembert! Egli aveva ben avuto ragione quando, un anno prima, regalando alla Lespinasse il suo ritratto, vi scriveva sotto versi seguenti:
De ma tendre amitié ce portrait est le gage. |
Le pagine toccanti scritte dopo la morte dell’amica, quelle pagine dove la tenerezza amorosa si alterna alla rassegnazione di non essere stato amato, dipingono tutta quanta l’anima di d’Alembert. Il dolore che egli provò alla morte della Lespinasse non ebbe conforti. Abbandonando subito l’appartamento della via San Domenico, dove erano vissuti quasi insieme, andò ad occupare al Louvre l’alloggio che gli spettava quale segretario perpetuo dell’Accademia e vi languì sette anni prima di andare a raggiungerla. Marmontel ci ha lasciato un documento di quello che fosse la sua vita allora: «Egli non va a stancare col suo lutto una società insofferente di tutto ciò che rattrista, ma riunisce intorno a sè pochi amici degni di comanpiagerlo e non ha l’orgoglio di temere la loro pietà. Sempre nemico del fasto, non ha nemmeno quello del dolore, però non vediamo più in lui quella vivace allegria che gli era così naturale. È ora una dolcezza che sorride amaramente quantunque sorrida ancora».
Per poco tempo gli rimase il malinconico conforto di andare a parlare della perduta amica a quell’altra amica sua da trent’anni, la signora Geoffrin, che, buona e compassionevole come era, lo consolava certamente meglio che non facesse Federico II colle sue lettere lambiccate. Ma nello stesso anno perdeva anche lei e solo gli austeri conforti della scienza dovevano sostenerne la vecchiaia solitaria.
Guibert, nell’elogio di madamigella Lespinasse, aveva, rivolgendosi agli amici, espresso questo voto per la tomba che doveva accoglierla: «Cerchiamo in vicinanza di qualche strada frequentata una piccola collina che noi popoleremo di arbusti ed ai cui piedi scorrerà una limpida sorgente; che un sentiero sempre verde vi conduca, così che il viaggiatore stanco, trovandovi ombra ed acqua, benedica ancora la sua memoria; che nel corso della nostra vita vi si incontri sempre qualcuno di noi e si trovi il marmo bagnato delle nostre lagrime». Ignoro se il voto sia stato esaudito, se il sepolcro della Lespinasse sorga veramente nelle condizioni proposte dall’uomo che l’aveva meglio lodata che amata. Ahimè! è probabile che ella sia stata sepolta in un cimitero di Parigi e che Guibert stesso non sia mai andato a piangere sul suo sasso; tuttavia il nome della Lespinasse è rimasto nella storia del secolo scorso quale sinonimo di passione e di ardore, ed è giusto. Amare sinceramente, con tutta l’anima, è la qualità migliore della donna, starei per dire la sola in cui possa davvero estrinsecare ogni sua virtù. Mandiamo anche noi un pensiero di simpatia a questa donna nobile e sventurata; non sarà nostra colpa e non intendiamo certamente di farle torto se il nome di un’altra donna al pari di lei nobile e sventurata — e meno focosa, sia, ma più teneramente amante — ci viene sulle labbra circondato dal fascino degli affetti durevoli e profondi: madamigella Aïssé!