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il paradiso delle signore

già di per sé allegra, si rallegrava ancora piú in quel chiacchierío, interrotto da risate.

— Ah! Paolo, Paolo! — ripeteva il Mouret.

S’era messo a sedere accanto al Vallagnose sopra un canapè. E soli, in fondo al salotto, che era graziosamente tappezzato di seta a bottoncini d’oro, lontani dalle orecchie delle signore, che essi non scorgevano se non per la porta spalancata, si misero a sogghignare, guardandosi l’un l’altro, e dandosi colpettini sulle ginocchia.

Tutta la loro giovinezza si risvegliava: il vecchio collegio di Plassans, con le sue due classi, le camerate umide e il refettorio dove di mese in mese si mangiava tanto merluzzo, e il camerone dove i guanciali volavano da un letto all’altro, appena il prefetto russava. Paolo, ch’era d’una famiglia la quale aveva dati piú membri al parlamento, d’una nobiltà di mezza tacca, impoverita e stizzosa, era bravissimo nel comporre, sempre il primo, citato continuamente ad esempio degli altri dal professore, che gli prediceva il piú splendido avvenire; mentre Ottavio, sempre degli ultimi, se ne stava tra le bestie, grasso e contento, dandosi fuori del collegio alla violenza dei piaceri. Per quanto cosí dissimili d’indole, eran divenuti inseparabili; fino all’esame di licenza, che avevano preso, l’uno con lode, l’altro a scapaccione, dopo esservisi provato due volte. Poi erano stati travolti dalla vita, e si ritrovavano, dopo dieci anni, vecchi e mutati.

— Di’ un po’, — chiese il Mouret. — E ora che fai di bello?

— Nulla!

Il Vallagnosc, contento d’aver trovato l’amico, pur manteneva la sua aria stanca e delusa:


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