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il paradiso delle signore

giovinetta triste tra il biondino cosí grazioso e il ragazzo cosí florido, che i passeggieri si voltavano a guardarli sorridendo.

Da qualche minuto, un pezzo d’uomo coi capelli bianchi e col faccione giallo nella sua pienezza, dritto sulla soglia d’una bottega dall’altra parte della strada, li guardava. Stava là, con gli occhi rossi di sangue, la bocca contratta, furibondo per le vetrine del Paradiso delle signore, perché la vista della ragazza e dei suoi fratelli l’aveva stizzito anche piú. Che facevan quei tre grulli, là a bocca aperta dinanzi a quelle ciarlatanerie?

— E lo zio? — esclamò Dionisia, come svegliata all’improvviso.

— In Via della Michodière ci siamo — rispose Gianni. — Deve stare giú di qui.

Alzarono la testa, si voltarono. E proprio davanti a loro, sopra quell’omone, videro una insegna verde, con lettere gialle scolorite dalla pioggia: Il Vecchio Elbeuf, stoffe e flanelle, Baudu successore di Hauchecorne.

La casa, intonacata da un vecchio stucco ingiallito, bassa e volgare in mezzo ai grandi casamenti alla Luigi XIV lí accanto, non aveva che tre finestre di facciata: e a queste finestre, quadre, senza persiane, non c’era che una ringhierina di ferro, due sbarre in croce. Ma, in quella nudità, ciò che piú fece effetto su Dionisia, che aveva ancora negli occhi lo splendore delle vetrine del Paradiso delle signore, fu la bottega del pianterreno, bassa, con sopra un mezzanino bassissimo, e con certe finestrine da prigione, a mezzaluna. In una inquadratura di legno del color verdastro dell’insegna, cui il tempo aveva date sfumature di giallo e di bitume,


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