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il paradiso delle signore

tina faceva risaltare il nero profilo del loro vestito a lutto, e una luce obliqua dorava i loro capelli biondi.

— Entrate, entrate! — ripeteva il Baudu.

Con poche parole, mise al corrente la moglie e la figliuola. La prima era una donnina consunta dall’anemia, bianca tutta; bianchi i capelli, bianchi gli occhi, bianche le labbra. Genoveffa, anche più debole della madre, aveva la gracilità e la pallidezza d’una pianta cresciuta all’ombra. Ma i capelli neri magnifici, folti e lunghi, nati come per miracolo da quelle carni esangui, le davano, nella sua tristezza, una grazia tutt’altro che spiacevole.

— Entrate! — dissero alla volta loro le donne. — Benvenuti!

E fecero sedere Dionisia dietro un banco. Beppino salí subito sui ginocchi della sorella; Gianni, appoggiato a uno scaffale, le stava accanto.

Andavano un po’ rimettendosi dal primo sbalordimento; guardavano la bottega, e i loro occhi si avvezzavano al buio. Vedevano ora com’era fatta, col soffitto basso e affumicato, con gli scrittoi di quercia lucidi dal lungo uso, con gli scaffali e i casellari decrepiti e pieni di ferrature; mucchi di merci che salivano cupi ai travicelli. L’odore delle stoffe e delle tinture, un odore acuto di robe da chimici, pareva reso piú intenso dall’umidità dell’impiantito. In fondo, due commessi e una ragazza mettevano in ordine flanelle bianche.

— Questo signorino vuol pigliare qualcosa? — disse la signora Baudu sorridendo a Beppino.

— No, grazie — rispose Dionisia. — S’è be-


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