Capitolo VI

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CAPITOLO VI.

Trascorso appena un mese, Vanna avrebbe desiderato accostarsi ancora al tribunale della penitenza, giacchè mai come in quell'inverno umidiccio e fosco la sua anima si era invischiata così fra dubbi e tristezze. Tutto era opaco; la piazzetta Gualterio somigliava a un piccolo stagno dalle acque cenerognole; da via Luca Signorelli la musica di don Vitale sembrava l'ululato furioso di lupi famelici nella notte e, sotto l'arcata, il calzolaio gobbo tirava lo spago con celerità automatica, allargava le braccia, chinava la testa, mentre Vanna lo contemplava attraverso il velo della pioggia, provando una sospensione al respiro se il gobbetto per poco allentasse il moto delle lunghe zampe. Pareva un brutto ragno, eppure doveva essere allegro, perchè zuffolava da mattina a sera e, battendo il martello, s'intratteneva con i chiodi e le suole fraternamente.

— No, chiodo mio, tu devi entrare; e tu, suola mia, tu non ti devi muovere! Ecco, chiodo, [p. 181 modifica]un colpo per te e abbiamo finito; ecco, suola, una girativa della lesina e siamo d'accordo.

Rideva allora il gobbo sonoramente, deponendo la scarpa sul deschetto, e Vanna si allontanava dalla finestra e si domandava a che cosa vale essere agiati, se quel gobbo miserabile possedeva la serenità a lei mancante.

— Vorrebbe ascoltarmi domani in confessione? - ella disse a monsignore, incontrandolo dopo vespro sulla gradinata del Duomo.

Egli si scusò con parole molto cortesi e addusse i suoi già gravissimi impegni, che gli vietavano di proseguire con la dovuta ponderazione nell'incarico delicato di guidarla spiritualmente. Le avrebbe suggerito egli stesso il nome di un sacerdote di maturo senno e provato zelo. Si tolse con ossequio il tricorno e si allontanò col suo passo elegante di gran signore.

Vanna, stordita, scese lentamente i bassi gradini di marmo e, sollevato in alto l'ombrello, vide sulla facciata le schiere dei santi personaggi come intristiti per la melanconia lacrimosa del cielo, come impiccioliti fra l'umidore dell'ombra gelida, privi di vita e di espressione, perocchè gli ori, spenti, non vivificavano i volti, non luccicavano sui manti. Erano dunque tristi anche i beati? E perchè monsignore la privava del suo appoggio? E se le togliesse la sua amicizia, se interrompesse le sue visite, che cosa accadrebbe di lei? A chi rivolgersi? A chi confidarsi? Rimase perplessa, domandandosi mille volte di che [p. 182 modifica]cosa fosse colpevole verso monsignore, sempre indulgente con tutti e così equo. Ma la domenica egli si recò da lei a desinare, come di consueto, e le parlò dell'avvenire di Ermanno con la solita affettuosità protettrice, e con l'acume solito intrattenne di affari Bindo Ranieri, sollecitandolo a realizzare un credito, di cui le garanzie non gli fornivano assoluta sicurezza. Sul punto di licenziarsi le disse:

— Mi sono occupato di lei, signora, e spero di averle trovato una buona guida spirituale; sopratutto zelante. Forse lei giudicherà quel sacerdote un poco severo, ma la severità non nuoce quando è indirizzata a fin di bene. Ne ascolti i consigli con sommessione, e se lo troverà aspro, pensi che anche i profeti erano aspri per la salvezza delle genti fuorviate. Vada lei stessa in Duomo. La maestà di una grande chiesa è più confacente di una cappella privata al sacramento della Confessione.

Vanna accettò con fede cieca e pavida la nuova guida e fu per lei grande sventura.

Il sacerdote, un canonico del Duomo, predicatore e teologo, si appoggiava a ogni parola sopra le citazioni dei Santi padri, e poichè monsignore gli aveva raccomandata in modo particolarissimo la nobile penitente, egli la inquisiva sui dogmi, le rivolgeva interrogazioni capziose, le citava con voce di minaccia le sentenze di sapienti filosofi cristiani, ed opponeva alle timide risposte di lei, balbettate con tremore, le risposte trionfanti dei terribili [p. 183 modifica]maestri della Chiesa, tantochè ella, con sua indicibile meraviglia e inebetimento, si accorgeva di trovarsi in contraddizione con San Giustino, San Grisostomo, Sant'Anselmo, Tertulliano, i quali, con le labbra del confessore, dicevano per lei, misera, motti oscuri, gravi di maledizioni, e ch'ella, nello smarrimento del suo spirito, immaginava accaniti a suo danno, superbamente gioiosi di coglierla in fallo.

— Io credo, io credo - ella ripeteva con fervore umile.

— Non basta. Bisogna credere come la Chiesa impone. Molti eretici avevano l'illusione di credere bene ed erano invece ludibrio nelle mani di Satana.

Non si trattava più di peccare o non peccare, di essere mite, osservante, umile, benefica, com'era stato sufficiente con monsignore, il quale, aperto di mente, di larga coltura, elevato di animo, socievole di costumi, portava nel sacerdozio la probità scrupolosa di un galantuomo a cui altri ha fatto assumere un rude impegno ch'egli vuol mantenere, la intransigenza verso di sè di un gentiluomo, che, spesa inconsapevolmente la propria parola, ad essa vuol tener fede; la tolleranza di un intelletto superiore, che, misurate le forze di ciascuno, a ciascuno domanda solo quel tanto che è ragionevole domandare.

Il predicatore teologo era ben altra cosa, e Vanna, dopo sedute interminabili al confessionale, tornava a casa con una ridda nella testa di nomi, [p. 184 modifica]di frasi latine, di casi di coscienza proposti e non risolti. Non osava formulare il più semplice pensiero nello sgomento che i Santi Padri le si collocassero irosi di fronte e l'annientassero sotto il flagello dei loro detti tenebrosi.

Il canonico insisteva in modo speciale sulla virtù del sacrificio, e le spiegava prolissamente in che cosa il sacrificio consiste, di quante parti si compone, come può diventare dannoso e di quali cautele bisogna circondarlo acciocchè riesca proficuo.

Per buona sorte, dopo alcuni mesi, il teologo venne mandato dal vescovo a Spoleto, altrimenti Vanna sarebbe impazzita; ma, quantunque ella riacquistasse a poco a poco il suo equilibrio mentale, sotto la direzione di un vecchietto bonario e fervido, confessore di Domitilla Rosa, le germogliò nel cervello il pensiero ch'era necessario offrire in olocausto al Signore qualche cosa di vivo, di prezioso e raro, per ottenere in cambio la remissione dei peccati. Diventò questa la sua idea fissa, e ricordava, tremante, una vignetta da lei osservata, quando era piccola, nei fogli della sua Storia Sacra: il patriarca Abramo, con una lunga barba, stava in piedi accanto a una catasta di legna, preparata pel sacrificio, e Isacco, giovanetto, lo guardava con dolci occhi e pareva dirgli: «Manca l'animale per l'olocausto, o padre mio!» «Il Signore Iddio ce lo invierà», pareva rispondergli Abramo, fissando con occhio implacabile la faccia ignara dell'unico figliuolo della [p. 185 modifica]sua vecchiezza. E Vanna ricordava anche di aver veduto qualche cosa di simile nei larghi fogli del volume che Gentile leggeva spesso, dimostrando ineffabile godimento: un re scettrato in riva al mare; persone gesticolanti intorno a un rogo e una giovanetta bellissima, rovesciato il petto, mentre il braccio di un guerriero si alzava contro di lei, armato di corta daga. «È il re Agamennone - Gentile le spiegava. - Egli deve sacrificare la figliuola Ifigenia per placare l'ira degli dei.

Vanna, ripensando a ciò, si stringeva le tempie nelle palme. Dunque gli uomini avevano sempre commessi molti peccati, e lassù, in cielo, non albergava indulgenza verso di loro? Non osava ricorrere per consiglio a monsignore, il quale, allorchè ella gli sottoponeva taluni suoi scrupoli, si velava in volto di una tenera pietà, che ridestava in lei spiriti di alterezza. Era gentildonna, nasceva Montemarte, portava il nome dei Monaldeschi, non voleva pietà da nessuno, nemmeno da monsignore. Se ne aprì invece una domenica con Domitilla Rosa; ma Domitilla Rosa, attonita, non comprendeva.

Di che cosa fare olocausto all'Onnipotente?

E come mai la signora Vanna, tanto nobile e pia, poteva sragionare così? Di che cosa fare olocausto? Di ogni pensiero, di ogni affetto, di ogni minuto, di ogni impercettibile azione, di ogni ricordo, ogni speranza, ogni desiderio! Non c'era atto, il più insignificante, della vita di Domitilla [p. 186 modifica]Rosa ch'ella compisse senza sentirsi compenetrata dallo spirito di Dio; in ogni più lieve gesto era incluso un olocausto, in ogni più umile occupazione un ardore di perfettibilità religiosa! E in cambio non chiedeva nulla al suo Signore! Non la felicità in questa vita, non il paradiso nell'altra!

Vanna ammirava Domitilla Rosa, la riguardava già come una santa; ma esse non potevano intendersi. Domitilla Rosa adorava e onorava il Signore in lui, per lui; Vanna lo pregava e voleva placarlo per sè, per la sua beatitudine futura!

Se ella fosse stata sola, avrebbe con gioia sacrificate le sue ricchezze e i restanti anni della sua vita fuggitiva per assicurarsi l'eterno tripudio; avrebbe donate ai poveri le sue cartelle di rendita, avrebbe fatto un ospizio per vecchi infermi della sua villetta e sarebbe scomparsa dal mondo, celandosi tra le mura di un chiostro e coprendosi di saio le membra delicate. Invano il demonio, sotto le spoglie di uno straniero ardente, avrebbe allora picchiato alla porta della sua cella. Vanna, in perpetue orazioni, invocherebbe il soccorso della Vergine e un angiolo scenderebbe a fasciarle il cuore di gelida indifferenza.

Ma c'era Ermanno, il piccolo cherubino, che essa doveva proteggere, di cui essa doveva allietare l'infanzia e tutelare gl'interessi.

— Oh, Ermanno, caro figliuolo mio - gli [p. 187 modifica]diceva, abbracciandolo, nelle ore di maggiore turbamento - sei tu l'unico mio conforto, e io, amandoti come ti amo, non posso offendere il Signore - e gli baciava le anella dei lucidi capelli.

Da alcuni giorni peraltro essa lo guardava con sorrisi di stupore e, seduta, gli appoggiava le mani sopra le spalle per contemplarlo in volto da vicino. Lo aveva fatto rasare, le sembrava un altro ragazzetto, più serio, più ardito nella espressione degli occhi, più deciso nella fisonomia e più disinvolto nell'andatura. Vanna si stupiva, intenerita, ch'egli le arrivasse adesso fin quasi all'omero. Santo Iddio, come Ermanno era cresciuto, com'era alto per i suo undici anni! Alto, slanciato, robusto, il vero frutto di due floride giovinezze esultanti nell'amore! Egli, docilmente, si lasciava contemplare a lungo dalla mamma e le passava pensoso la punta delle dita sui fini sopraccigli. Il bimbo era ancora di tale innocenza che gli sciocchi potevano ridere di lui, credendolo sciocco; ma invece rifletteva su tutto, tormentato dal desiderio di conoscere il fondo e la ragione di ciascuna cosa. Molte delle parole che ascoltava gli tornavano poi sul labbro, in forma di domanda, lavorate, bucherellate, simili alla cera di un alveare. Una volta don Vitale, durante le vicende irrequiete di una lezione burrascosa, lo chiamò gambero.

— Sei un gambero, un vero gambero perfetto! Non ti riesce mai di andare avanti; vai sempre indietro, gambero. [p. 188 modifica]

Ermanno tacque, avendo stabilito fra sè, per principio, di opporre un ostinato silenzio alle frasi sconvenienti del maestro, che lo nauseava con le sue violenze; ma, finito il supplizio della lezione, si recò appositamente al negozietto di Bindo Ranieri a domandargli perchè don Vitale lo aveva chiamato gambero.

La faccia rotonda di Bindo Ranieri era un libro aperto, dove tutti potevano leggere, ed Ermanno vi lesse con facilità una commiserazione profonda per il maestro di latino. Il bimbo rise e ripetè la domanda:

— Perchè don Vitale mi ha chiamato gambero?

— Perchè i gamberi sono animali che abitano il mare e camminano a rovescio.

— Cosa significa camminare a rovescio?

— Significa andare all'indietro. Prova - e gli fece percorrere la botteguccia da una parte all'altra, sospingendolo adagio per il petto.

— Hai capito adesso?

Ermanno non rispose e impiegò il resto della giornata, solo nella sua stanza, andando dalla porta alla finestra, ora con passo in avanti, ora con passo all'indietro.

Allorchè don Vitale tornò, lo scolaretto gli disse ironico:

— I gamberi camminano a rovescio, questo è vero; ma possono andare avanti lo stesso.

Il pedagogo aguzzò gli occhi miopi e disse irritato: [p. 189 modifica]

— Come fanno per andare avanti lo stesso? Spiegamelo, giacchè sei diventato più sapiente di Salomone.

Ermanno dilucidò il suo concetto con molta pacatezza:

— Se io fossi un gambero e la nostra piazza fosse acqua, io volendo andare avanti fino al Duomo, ci andrei ugualmente o comminando per diritto o camminando per rovescio; e quando si arriva dove si vuole arrivare, poco importa come si cammina.

Don Vitale si soffiò il naso e cominciò a battere sul pavimento la punta della grossa scarpa, gonfiando le gote.

Avrebbe voluto rispondere, inveire contro lo scolaro impertinente, e non sapeva quali ragioni opporre alle sconclusionate fantasticherie di quella testa balzana.

— Allora va benone; allora va benissimo - il maestro ripeteva, somigliando davvero a un gambero cotto, tanto la collera gli arrossava la faccia.

Serena, lì presente, volle subito correre all'indietro e non mancò di urtare in una seggiola, ruzzolando.

— Ecco, ecco - esclamò don Vitale trionfante - eccoli i risultati del tuo bel metodo. Inciamperai, ruzzolerai, ti romperai la dura testa.

Ma Ermanno che evidentemente aveva studiata a fondo la questione sotto i diversi punti di vista, disse pronto, convinto: [p. 190 modifica]

— Serena è ruzzolata, perchè non è un gambero, è una scimietta, e poi questa è una camera, non è il mare. Ogni animale deve camminare come è creato e i gamberi fanno bene.

Vanna, curva sulla batista del ricamo, simulava di tossire per non soffocare dalle risa, poichè essa, nella sua candida malizia, si spassava incomparabilmente quando il cherubino metteva al muro le tonde spalle del maestro, il quale, nel suo furore concentrato, dette a Ermanno della talpa, invitandolo con parole amare a dimostrargli che le talpe a buon diritto dovrebbero menar vanto della loro stupidità e della loro ignoranza.

— Questo disgraziato ragazzo finirà male - egli sentenziò, e alzò in segno di minacciosa profezia il regolo di ferro, che avrebbe volentieri lasciato cadere sulla cervice del nobile e infingardo signorino.

L'unica a non lasciarsi imbarazzare affatto dalle complicate riflessioni di Ermanno, era «madamigella grano di pepe». Al cospetto della sua logica adamantina le obiezioni del bimbo si arrestavano come i sassolini rimbalzanti si arrestano al cospetto di una grossa pietra.

— Perchè quando arriva l'ombra il sole va via? - Ermanno diceva, passeggiando con Serena in compagnia di Titta e mirando i raggi ritrarsi dalle colline e le ombre salire dalla pianura.

— Non vedi? È sera - madamigella rispondeva, senza la minima esitazione. [p. 191 modifica]

Ermanno si spazientiva.

— È sera? Mi racconti una bella novità. Ma perchè è sera?

— Perchè il giorno è finito.

— E perchè il giorno finisce?

— Perchè zia Domitilla Rosa vuole andare a cena, poi vuole far le preghiere e andar a letto.

Ermanno la chiamava stupida, eppure le risposte di Serena, così limpide, gli sospendevano il lavorio della mente, facendogli supporre che non in tutte le cose ci fosse un perchè, e non riuscendo bene a decidere se aveva ragione lui o, avesse ragione la stupidella, come quando il vecchio Titta, portò, una sera nel salottino da pranzo, in trionfo sopra una spalla, Marcantonio, il gattone grigio, che si leccava ancora i lunghi baffi e inarcava il dorso ancora fremente.

— Lo ha preso, lo ha preso e lo ha divorato - esclamava il servo con esultanza.

Tutti fecero allegre feste a Marcantonio.

— Oh! il bravo micio, il bravo guardiano della casa! - Esso fiutava i topi e li snidava, capacissimo di trascorrere anche un giorno in agguato, col ventre a terra, pur di non lasciarsi sfuggire la buona preda!

Ermanno domandò:

— Perchè il topo non riflette prima di uscire dal suo buco? - Perchè è una bestia sciocca. - Serena rispose, in estasi davanti a Marcantonio.

— Il topo dovrebbe almeno cercare di difendersi - Ermanno disse. [p. 192 modifica]

— Il topo è piccolo, ha paura - e Serena esprimeva nella voce incomparabile disprezzo verso la povera bestiolina inetta, che aveva la colpa di lasciarsi divorare.

— Già, il topo è piccolo, il gatto è grosso; per questo Marcantonio non avrebbe dovuto mangiarlo - Ermanno osservò gravemente.

Serena si mise a ridere, e cominciò a ballare, manifestando con grida il suo entusiasmo per l'astuzia e la forza di Marcantonio, lo scherno suo per la stupida inferiorità del topolino.

Ermanno la guardava iroso, pensando ch'ella era di cattivo cuore a insultare così i più piccoli ed i più deboli, ma pur provando in sè la smania di cimentarsi in difesa dei miseri, nutriva orgoglio nel sentirsi forte, e molto gli sarebbe doluto di sentirsi debole. Chi dunque aveva ragione? Serena di celebrare con le sue danze la vittoria di Marcantonio o egli stesso di biasimarne la crudeltà?

Frattanto l'inverno una volta ancora era passato e le chiome degli alberi per una volta ancora si ornavano di ciocche aulenti, la facciata del Duomo riviveva, i volti degli apostoli si riaccendevano di fervore, i volti dei profeti ardevano di sdegno, i volti dei patriarchi si adornavano di austerità meditativa, e i Santi, le Sante, la Vergine Beata ascoltavano con dolcezza il gridìo delle rondini loquaci e si lasciavano accarezzare con mansuetudine le vesti aurate dal frullìo turbinoso delle brune ali. [p. 193 modifica]

Fritz Langen continuava a scrivere a quando a quando, ma sempre più scarsamente, sebbene egli si rivelasse tenacissimo nel ricordo; Vanna gli rispondeva brevi lettere cortesi, evitando qualsiasi allusione al loro passato, che oramai dileguava, assumeva le forme indeterminate di eventi vissuti in sogno, e si sarebbe forse già spento in lei anche nel ricordo se il rimorso e la paura del castigo divino non glielo avessero a ogni istante rievocato.

Appunto verso quel tempo l'avvenire di Ermanno fu deciso in circostanze bizzarre.

In una soffocante notte di giugno, Vanna non riusciva a prender sonno. Di mattina s'era svolta in piazza del Duomo la festa graziosa della bianca palombella che scioglie il volo, e Vanna aveva trascorso buona parte del pomeriggio dentro la Cattedrale, assistendo alle funzioni. Forse, inginocchiata nella cappella di Maria, aveva posati gli occhi distrattamente su l'affresco di Giovanni da Fiesole rappresentante Cristo giudice; certo la figura del Cristo, pacata in viso tra il volume dei capelli diffusi, composta in maestà tranquilla, con la sinistra mano sopra la sfera del Mondo e la palma destra levata in alto, non è tale da incutere spavento, giacchè il pennello lieve del Beato Angelico dispensa grazia e soavità in ogni suo tocco; eppure, quando Vanna fu nel suo letto, e le palpebre cominciarono ad appesantirsele, ella vide sorgere sulla parete, in grandezza smisurata, una figura simile nell'atteggiamento a [p. 194 modifica]quella dipinta dal Beato Angelico; ma con fulgori di collera nello sguardo e tutta fuoco la sfera del Mondo. Sognava? Era desta? Subiva lo scherno di un fenomeno ottico, provocato dall'eccessiva tensione dei nervi e dall'esaltazione del suo spirito? Non sapeva, ma soffriva atrocemente sudava freddo per la paura, chiamò Ermanno, il quale dormiva nella stanza attigua.

— Perchè gridi così? - Ermanno le chiese, diritto in piedi presso la sponda del letto, e accarezzandole con le dita la fronte. Nel vederselo accanto ridente, avvolto nelle pieghe del lungo camice, Vanna immaginò di scorgere in Ermanno il suo buon angelo e gli cinse intorno al collo le braccia.

— Oh! Ermanno, figliuolo mio, credevo di morire!

Ermanno rideva, e quel riso di bimbo, nella penombra della stanza, dove il lumicino notturno tremava dentro una lampada di cristallo, scese al cuore di Vanna benefico, refrigerante come il suono fresco di un ruscello che cada.

— Oh! il brutto sogno! Ero sveglia e mi pare di aver sognato! - ella mormorò, abbandonandosi sopra i guanciali, ma tenendosi stretta a sè, tenacemente, una mano del bimbo.

— Io invece facevo un sogno bellissimo, quando tu mi hai svegliato con i tuoi gridi. Stavo con papà nel giardino della nostra villa; papà raccoglieva tanti gigli e mi diceva: sono tutti per la mamma. [p. 195 modifica]

Vanna col petto si rizzò sui guanciali e si rivolse a Ermanno esterrefatta:

— Questo sognavi, quando ti ho svegliato?

— Sì, mi pareva che fosse vero, e i gigli erano tanti.

Vanna non si saziava di contemplare il figliuolo, e una luce sempre più viva le si faceva nel pensiero. Oh! certo, certo! La visione di lei terribile, il sogno buono di Ermanno erano fra loro collegati per volontà divina! Era un avviso del Signore, il quale si compiace di rivelare, per grazia in sogno, i suoi decreti. Per la intercessione dello sposo e la castità sacerdotale del figlio, ella avrebbe potuto salvarsi e deludere le insidie del nemico.

— Ho sonno, voglio dormire - Ermanno disse con uno sbadiglio.

Vanna implorò, stringendogli più forte la mano:

— Un momentino ancora. Aspetta e rispondimi, poi tornerai a dormire. Dimmi, ti piacerebbe di servire Iddio?

Ermanno rispose di sì, che servire Iddio gli piacerebbe.

— Servirlo per tutta la vita? Rinunciare per lui al mondo e alle gioie fallaci?

Ermanno conosceva poco il mondo e anche meno la fallacia delle sue gioie, onde rispose di nuovo con gravità semplice:

— Sì, mi piacerebbe servire Iddio e rinunciare al mondo. Vanna lo abbracciò con effusione. [p. 196 modifica]

— Allora dovrai entrare in seminario e vestirti da prete. Ti piacerebbe?

Ermanno approvò l'idea di entrare in seminario e di vestirsi da prete; ma disse che preferiva vestirsi da prete rosso e andar a fare il missionario.

Vanna se lo strinse al cuore, in preda a vivo sgomento.

— No, no - esclamò ella - di questo non c'è bisogno! Il Signore non vuole così! Basta servire Iddio qui, in Orvieto, cantando messa in Duomo, e diventando vescovo. Forse diventerai anche cardinale, e allora ti vestirai di rosso. Missionario no, no, non voglio.

Ermanno non aveva mai visto nessun cardinale, ma aveva più volte veduto il vescovo in processione, e la mitra d'oro, il piviale a ricami gli parevano cose belle, che avrebbero suscitato nell'instabile cuore di Serena profondo rispetto e ammirazione. In conseguenza di che la madre e il figlio si trovarono d'intesa. Vanna, supponendo tutto appianato, stupì d'incontrare ostacoli d'ogni sorta e contrarietà alla realizzazione del suo progetto.

Il primo ad esserne edotto fu Sem fratello di Cam, a cui Ermanno confidò in segretezza che egli si sarebbe presto vestito di rosso, diventando cardinale.

Si trovavano con Serena vicino al pozzo di S. Patrizio, e il vecchio Titta, a simile nuova, avrebbe voluto inabissarsi nelle profondità dei duecento quarantotto [p. 197 modifica]gradini. Egli si fermò, appoggiò le due mani tremanti al grosso pomo di avorio del bastone e la faccia gli s'increspò in ogni ruga per il cordoglio delle sue altere speranze debellate. Oh! ma allora l'avvenire di Titta diventava scialbo, mentre egli, credendosi forse destinato a vivere gl'innumerevoli anni di Noè, aveva esultato al pensiero di vedersi entrare in casa la sposa di Ermanno, bella, nobile, ricca, ed aveva vagheggiato di portarsi nelle braccia ed accompagnare ai giardini la prole copiosa di una terza generazione.

Espose questo ad Ermanno con parole dove il pianto tremava ed Ermanno lo confortò, promettendogli di tenerselo accanto in processione, quando fosse diventato vescovo.

— Anch'io, anch'io! - Serena gridò fieramente - anch'io voglio starti accanto in processione - e poichè Ermanno le fece osservare con disdegno che le donne devono contentarsi di restare affacciate alle finestre per vedere il vescovo quando passa, madamigella, ferita sul vivo, proclamò orgogliosamente che se Ermanno si poneva in testa la mitria, ella avrebbe domandato un nastro d'oro a zia Domitilla Rosa e se lo sarebbe appuntato in cima al cuffiotto.

Ma questi erano discorsi vani; i discorsi gravi cominciarono da Bindo Ranieri, che Vanna interrogò per avere una idea precisa circa le rette da pagare in seminario e le spese da sostenere nei [p. 198 modifica]preparativi del corredo. Ella non conosceva esattamente l'entità della propria situazione economica, rimettendosi a Bindo Ranieri, il quale, gonfio di orgoglio, la incitava spesso a vivere lautamente, a ordinarsi ricchi vestiti, a procurarsi le più svariate comodità della vita, perocchè egli era quel tale ometto capace d'impiegarle il danaro al tasso del cinque e procacciarle così una rendita netta assai ragguardevole, che, nella onesta città di Orvieto, costituisce l'Eldorado per una signora senza capricci e un piccolo cherubino. Questi e consimili discorsi magniloquenti le indirizzava Bindo Ranieri a ogni trimestre, consegnandole biglietti di banca in una larga busta e supplicandola, con allegro fervore, di chiedergli altro, se di altro avesse bisogno.

— Il patrimonio accenna a impinguarsi - Bindo Ranieri diceva con voce di gioiosa compunzione, ed allargando le braccia, per esagerare la propria rotondità, concludeva allegro che la pinguedine in genere dispiace alle signore.

Fu dunque con faccia rabbuiata per le sue disconosciute virtù amministrative, ch'egli rispose alle interrogazioni di Vanna:

— Lei fa celia, signora mia! Se noi possiamo sostenere per il nobile Ermanno Monaldeschi le spese di una retta? Ecco, questa sua domanda è per me una umiliazione inaspettata. Sappia che il patrimonio Monaldeschi sta più saldo della torre del Moro e che noi siamo in grado di sostenere la spesa di venti rette! Abbiamo accumulato [p. 199 modifica]in questi ultimi cinque anni; comprenda bene, signora, abbiamo accumulato!

Vanna, soddisfatta, gli espose allora i suoi piani, e Bindo Ranieri, preso da ira, fu sul punto quasi di mancarle di rispetto. Come? Il nobile Ermanno farsi prete? Destinarsi al celibato? E la signora Vanna, una simile gentildonna, non rifletteva alle discendenze della casata, decideva a cuor leggero di lasciar estinguere l'ultimo ramo di una famiglia illustre nella storia? La Chiesa, sissignora, Bindo Ranieri avrebbe sfidato il martirio per il decoro della Chiesa e particolarmente per l'onore del Duomo di Orvieto! Ma la nobiltà è la spada dell'altare e l'altare ha bisogno di buone lame per difendersi dai mille assalti. Crescesse il nobile signorino Ermanno nel timore santo di Dio, nell'ossequio del Sacro Soglio, e in tali principii educasse alla sua volta i figliuoli, acciocchè il nome dei Monaldeschi prosperasse in Orvieto nei secoli futuri, come aveva empito Orvieto di sè nei tempi passati!

— Sentiremo cosa ne pensa monsignore - Vanna disse irritatissima, e la sua irritazione crebbe, insieme alla sua meraviglia, quando monsignore si schierò decisamente contro di lei.

No, non era giusto premere sulla volontà di un bambino dodicenne, non abbastanza maturo per misurare la portata di una grave determinazione. E monsignore, con equità, lodò molto i programmi delle scuole governative, disse che dal Ginnasio di Orvieto uscivano giovani provetti [p. 200 modifica]nello studio, osservò che il sacerdozio è uno stato di eccezione e che la vita laica è anch'essa ricca di virtù cristiane.

Inutilmente! Vanna si ostinava a ripetere che il figliuolo aveva scelta la via del sacerdozio di propria libera elezione, mentre Ermanno gli si aggrappava ai fianchi chiamandolo padre e implorandolo con occhi supplici di prenderlo in seminario.

Come opporre un deciso rifiuto?

Egli non poteva, molto più che don Vitale, presente al dibattito, gli lanciava occhiate torbide, piene di stupore e di riprovazione. Tutti sapevano che don Vitale entrava spesso furtivo al vescovado, intrattenendosi, egli, il bestione zotico, in misteriosi parlari col capo supremo della diocesi, e dopo tali colloquii monsignore veniva generalmente invitato a pranzo dal vescovo, e riceveva, fra parabole e circonlocuzioni, consigli di rigidezza maggiore e di zelo più intraprendente. Gli fu dunque forza chinare il capo, e d'altronde l'ammissione di Ermanno in seminario iniziava una carriera, non la rendeva irrevocabile, e il tempo è un correttore insigne di errati propositi.

Il nobile signorino Ermanno Monaldeschi compiva giusti dodici anni e cinque mesi allorchè, in una rigida mattinata di novembre, all'imperversare della tramontana e mentre il buon Maurizio batteva furiosamente undici colpi sopra la campana della torre, venne accompagnato in seminario da lungo e mesta corteo, a cui «madamigella [p. 201 modifica]grano» di pepe serviva di araldo, precedendo con passo deciso e proclamando con accenti fieri di volere entrare in compagnia di Ermanno in seminario; anzi, a tale proposito, madamigella offrì di sè pubblico e non confortevole spettacolo, giacchè presso la soglia del pio istituto si buttò lunga distesa nella polvere, grattando la terra con le unghie e urlando a gola spalancata che Ermanno andava in prigione e che lo facevano morire.

Ma solo il vecchio Titta ebbe pietà di lei e la trascinò via, tergendole il visetto bruttato di fango e suggerendole amichevolmente di non piangere, non disperarsi.

O Sem fratello di Cam, consigliere a Serena di rassegnazione, guardatevi in cortesia per un attimo dentro uno specchio e poi dite se non sono lacrime quelle che stillano adesso dai vostri occhi arrossati! Il vecchio e la signorina furono peraltro adeguatamente puniti della loro comune pervicacia, giacchè, quando tornarono sui loro passi con ciglio asciutto, trovarono chiuso il verde portone e si allontanarono sconfitti, in quella appunto che, dentro la cappella del seminario, si andava compiendo, al cospetto dei chierichetti e di pochi invitati, la bella cerimonia della vestizione.

Vanna, abbigliata di velluto nero, in ginocchio dietro la quadruplice fila dei giovinetti, provava un misto di gioia e di rammarico, un rimpianto acuto come di una parte viva in lei che morisse, una speranza trepida come di qualche cosa in lei [p. 202 modifica]morto che rivivesse. Risentì una gioia sacrilega all'idea che Ermanno poteva a ogni ora spezzare i vincoli nuovi e ridonarsi a lei unicamente, poi si disperò per la sua gioia e fece con più fervida tenacia olocausto al Signore di quella sua diletta creatura, e seguì con l'anima nello sguardo i gesti di monsignore, il quale, solenne fra i merletti della sua cotta, tenendo piegata in avanti la snella persona elegante, suggeriva ad Ermanno con tenerezza austera la professione della fede e ne benediceva la nuova veste con le parole del rito:

— Adiutorium nostrum in Nomine Domine!

Non erano le mani servili del vecchio Titta; ma le stesse bianche mani di monsignore che rivestivano il nuovo seminarista, mentre i presenti intonavano il salmo:

— Ecce quam bonum et quam jucundum habitare fratres in unum.

Vanna singhiozzava appassionatamente e Bindo Ranieri si soffiava ininterrottamente il naso con fragore; intanto Ermanno, pallido, grave, più alto, più slanciato nella sottana violacea a bottoni rossi, faceva il giro dei banchi e dava la pace ai seminaristi.

— Pax tecum - egli diceva a ciascuno, largendo l'amplesso della cristiana fratellanza, e ciascuno rispondeva:

— Et cum spiritu tuo.

L'ultimo seminarista, un giovanetto dai furbi occhi, gli mormorò invece all'orecchio con rapidità: [p. 203 modifica]

— Oggi a tavola avremo il dolce; l'ho saputo da don Eliseo.

Ermanno rise un poco, anch'egli contento che ci fosse il dolce, tanto più quando seppe in refettorio che il timballo di crema si offriva per solennizzare il suo ingresso in seminario, e che monsignore dispensava, per quel giorno, i seminaristi dall'obbligo della lettura e del silenzio durante il pasto.

Ermanno si trovò bene subito in quell'ambiente, dove tutto era quiete e regolarità, dove un quadretto appeso al muro precisava, in tanti minuscoli casellari, le diverse occupazioni della giornata e dove l'economo don Eliseo, di cui i seminaristi grandi, quelli del corso di teologia, schernivano l'avarizia, lo prendeva sovente per mano e lo conduceva in dispensa, dicendogli benignamente:

— Scegliete, Monaldeschi, scegliete quanto può farvi piacere e non ascoltate i vostri compagni se vi dicono che sono avaro.

Ermanno sceglieva con modestia un frutto o una ciambella e si domandava perchè adesso tutti gli davano del voi, chiamandolo Monaldeschi, compreso monsignore, che non lo trattava più con l'affettuosità confidenziale di un tempo e che pure Ermanno riconosceva anche più amoroso e vigile intorno a sè.

— Tenete alta la fronte, Monaldeschi - il rettore gli diceva, incontrandolo pensoso e quando lo vedeva appartato durante la ricreazione, presso [p. 204 modifica]un angolo del vasto cortile, gli si accostava in fretta e lo rimproverava teneramente:

— Perchè non giuocate, Monaldeschi? Andate a correre coi vostri compagni, esercitatevi al trapezio; siate forte per essere allegro; siate allegro per essere buono. Domenica vi condurrò con me a pranzo da vostra madre.

Le prime volte che Ermanno tornò in famiglia credè impazzire per la gioia e mischiò le sue alle lacrime di Vanna nel dipartirsi; poi, con impercettibile lentezza, cominciò a trovarsi come estraneo nella sua casa, e se Vanna lo stringeva amorosamente a sè, chiamandolo piccolo cherubino, egli volgeva il capo con senso di fastidio e rispondeva ch'era grande, non piccolo, e che i cherubini stanno in Paradiso.

Cure di ogni sorta lo assorbivano; le preghiere, la meditazione, lo studio, le ore di classe, la scelta del santo protettore, sotto cui collocarsi in dipendenza durante un intiero mese, gli atti speciali di riparazione e consacrazione al Sacro Cuore di Gesù, la nettezza della cappella a lui affidata dal prefetto generale in segno di particolarissima fiducia.

Il lavorìo del pensiero in lui era arrestato; egli non tormentava più le parole allo scopo di scrutarne il fondo, perchè il prefetto degli studi e il prefetto della disciplina gl'inculcavano instancabilmente che le parole dei superiori vanno accettate con umiltà passiva, non già discusse con folle orgoglio. E che bisogno c'era di scrutare, [p. 205 modifica]di riflettere, se i libri sacri avevano per ogni domanda pronta una risposta e se ciascun sacerdote professore seduto in cattedra possedeva un cervello bastevole alle teste di una intiera classe? Il pascolo della mente gli veniva offerto già apprestato, già condito, come le vivande in refettorio, onde riusciva superfluo, anzi pernicioso, discutere e meditare.

Non si muove foglia che Dio non voglia; e il professore di storia gli aveva spiegato che se Troia era stata distrutta dai Greci, se Enea si era salvato dalle fiamme, portando in ispalla il padre Anchise e aveva toccato le rive di Ausonia, se Roma aveva conquistate provincie e debellati popoli, tutta questa serie d'immensi fatti si era svolta per savia predisposizione della Divina Provvidenza, la quale aveva sospinto il volo dell'aquila romana, perchè la religione di Cristo potesse imperare e il verbo degli apostoli potesse con più rapido solco d'incendio illuminare gl'intelletti, divorare i cuori. Ogni sensazione esteriore suscitava adesso in Ermanno una idea che gli si classificava tranquillamente, già matura e completa, nella scatola cranica. Perchè dal seme nasce il fiore? Perchè Iddio disse alla terra: Tu, terra, ti coprirai di minute erbe e fruttificherai. Perchè si nasce? Per onorare e servire Iddio, amandolo più di sè stessi. Perchè si muore? Per essere puniti o premiati dal Signore Iddio giudice. Perchè il vecchio Titta non aveva più denti nè capelli? Perchè la carne è caduca, la vita terrena [p. 206 modifica]transitoria, l'anima sola è immortale. Perchè quando il giorno finisce viene la sera? Perchè Iddio ha disposto con ordine immutabile tutte le cose e ha detto alla terra di girare intorno a sè, intorno al sole.

Questo spiegava il professore una mattina, impartendo la sua lezione di geografia astronomica, ed Ermanno, desideroso di maggiormente istruirsi, domandò:

— Allora perchè prima di Galileo Galilei Iddio faceva girare il sole e stare ferma la terra?

Il maestro, supponendo maliziosa la ingenua osservazione, rispose con acerba severità:

— Perchè la nostra mente limitata erra di continuo nell'interpretare la mente imperscrutabile del Signore.

Ermanno, in piedi al suo posto, preso da un ritorno subitaneo di audacia intellettuale e vedendo dalla finestra il sole scherzare sugli alberi del cortile, di nuovo interrogò:

— Ma allora come ci regoleremo noi? Come sapremo quando il Signore ci rivela o ci nasconde i suoi decreti?

— In virtù della grazia - il maestro rispose, ergendosi col busto, sprizzando collera dai vetri degli occhiali.

Ermanno tolse di sopra il banco il volume della geografia e non apparve convinto.

— Dunque - egli disse - i padri della chiesa, vissuti prima di Galileo Galilei, e che credevano alla immobilità della terra, erano anche [p. 207 modifica]essi nell'errore. Ed errando in una cosa perchè non potevano errare in altre cose?

Il professore dette un balzo sulla cattedra.

— Disgraziato, disgraziato, umiliatevi, annichilitevi, supplicate il Signore di assistervi con la sua grazia. Voi state per avviarvi sulla strada dell'eresia.

Un soffio di terrore circolò nella stanza, e parve che il Cristo, appeso alla parete, si accasciasse con ambascia rinnovata sulla croce. Il professore si raccolse, congiunse le mani, assorbendosi in rapida preghiera mentale; i chierichetti, al colmo dell'orrore, ne seguirono l'esempio, ed Ermanno pentito, sconvolto per il suo peccato d'orgoglio intellettuale, che gli sembrava incommensurabile, si dette a piangere, implorando perdono dal maestro, il quale gl'inflisse il castigo di tre ore di meditazione in cappella e riferì l'episodio al rettore con parole di sgomento.

Monsignore consigliò di non dare troppo peso alle domande di un ragazzo assolutamente spoglio di malizia e, chiamato in direzione il Monaldeschi, lo sollecitò con mitezza a non disturbare in classe i professori con frequenti interrogazioni; si rivolgesse di preferenza a lui, al suo rettore, che lo aveva conosciuto in fasce e ch'era anche il suo padre spirituale.

Ermanno, a fronte china e con le mani intrecciate, non rispondeva, accigliato e cupo, giacchè in quel giorno appunto don Vitale gli aveva lasciato intendere, senza troppo spiegarsi, che bisogna [p. 208 modifica]diffidare dei superiori indulgenti e che gli amici delle nostre persone possono diventare i nemici delle nostre anime. Don Vitale non gli inspirava più nausea con le sue violenze; don Vitale era un sacerdote ardente di zelo come San Domenico, affezionato con passione al discepolo Monaldeschi, pronto a sospingerlo col filo della spada sulle vie della salute. E quale alacre cammino il giovanetto Monaldeschi avesse compiuto su tale via, si potè misurare in occasione del settimo Centenario della morte di San Pier Parenzo, assassinato sette secoli prima per la iniqua opera degli eretici paterini.

Il giorno precedente quello della processione in onore di San Pier Parenzo, Ermanno si trovava per qualche ora in famiglia a visitare la mamma, convalescente di lunga malattia. Pioveva a dirotto; stavano entrambi nel vano di una finestra, ella con la fronte pallida appoggiata ai vetri e la bella persona stanca ancor più esile tra le pieghe della vestaglia di flanella, abbandonata verso il davanzale; Ermanno, taciturno e immobile, con le mani immerse nelle tasche della sottana, lo sguardo indifferente e distratto.

— Piove - disse Vanna dolcemente. - Vedi, Ermanno, quanto piove?

Il chierichetto giudicò in sè che la constatazione era superflua, e rispose laconico:

— Già.

Quell'arido monosillabo cadde fredda pietra, sul cuore intenerito di Vanna. [p. 209 modifica]

— Perchè mi rispondi così? - ella gli disse con rimprovero di tenerezza nella voce, passandogli le dita in mezzo ai capelli.

Il ragazzo sottrasse vivamente il capo alla carezza materna:

— Come dovrei risponderti? Non so.

Vanna rise indulgente.

— Sì, è vero; come dovresti rispondermi? Riflettè un istante, poi soggiunse:

— Sono stata ammalatissima.

— Già; il signor rettore mi dava tue notizie tutt'i giorni.

— Ti sarebbe dispiaciuto se io fossi morta?

— Naturalmente.

— Oh! piccolo Ermanno, piccolo cherubino - ella esclamò in uno slancio amoroso di tutto il suo essere e fece l'atto di abbracciarlo con la scherzosità soave di altri tempi.

Egli non riuscì a dominare un senso d'irritazione e la respinse da sè con moto istintivo della mano aperta.

Vanna appoggiò di nuovo la fronte pallida alla finestra e tacque. Che tristezza! Il cherubino non aveva assolutamente più nulla da dirle!

All'improvviso di sotto l'arcata Serena sbucò, vestita di grigio, senza ombrello, con un cappellone di paglia tanto largo che la faceva somigliare a un sorcetto nascosto sotto un fungo. Accorreva, nonostante la pioggia, avendo saputo da Bindo Ranieri la presenza di Ermanno in famiglia, ma, quando ella stava per valicare l'arcata [p. 210 modifica]e attraversare la piazzetta, lo scroscio del temporale raddoppiò di furore e la piccolina dovette far sosta, acciecata, sferzata, con le ali del cappellone agitate dal vento, la corta gonnellina grondante e aderente.

Serena, irosa della sua impotenza, cominciò a menar pugni alla pioggia, dimenando con furia un braccio dopo l'altro e accanendosi nell'insana bisogna.

— Ma cosa fa? - Vanna chiese, ridendo.

— Non vedi? - rispose Ermanno con disprezzo. - Tira pugni all'acqua che cade. Si può essere più stupidi?

— È ancora piccola. Non ricordi quanto eri sciocchino tu a dieci anni?

No, il chierichetto non ricordava; egli ne aveva adesso quattordici fra un mese, era studente di terza ginnasiale, insegnava ai semimaristi di preparatoria la dottrinella, leggeva correntemente in refettorio il latino dei libri devoti, serviva messa con riverenze e genuflessioni, salmodiava secondo le regole del cantofermo, era il chierico non plus ultra, citato a esempio dal prefetto della disciplina, caro all'economo don Eliseo, portato in palma di mano da don Vitale.

— Eccomi, eccomi! - Serena gridò allegra, affannosa, scrollandosi l'acqua dalle vesti zuppe, come fa un canarino quando esce dal bagno.

Volle buttarsi addosso a Ermanno per abbracciarlo; ma Ermanno indietreggiò:

— Sei tutta bagnata; scansati. [p. 211 modifica]

Vanna le tolse il cappellone, le asciugò il viso col fazzoletto e si allontanò dalla finestra. Quell'acqua che grondava dal cielo interminabilmente, le stringeva il cuore e le irritava i nervi. Dio! quanto era sola, quanto era misera! Nemmeno Ermanno oramai le apparteneva più. Sedè in una poltrona e avrebbe voluto piangere; ma perfino la sua tristezza era fiacca, incapace di ribellione, incapace di lacrime.

— Dormi a casa questa notte? - Serena chiese, accostandosi di nuovo a Ermanno, senza lasciarsi affatto intimidire dal suo cipiglio.

— No, aspetto che mi vengano a prendere e tornerò in seminario.

— È brutto il seminario - ella disse con fare stizzoso.

Il ragazzo non si degnò di risponderle.

Guardava la pioggia e rimaneva immobile, sempre con le mani nelle tasche della sottana e intanto, madamigella «grano di pepe» lo fissava con curiosità poco benevola.

— Mi seccherebbe piovesse domani - Ermanno disse con accento breve.

— Perchè ti seccherebbe? La pioggia è buona; fa crescere i fiori.

— Già, ma bisognerebbe rimandare la processione in onore di San Pier Parenzo. L'albergo delle belle Arti tremerà e vedremo il miracolo.

Serena si mise a ridere.

— Sì, me lo ha detto zia Domitilla Rosa: ma io non ci credo. [p. 212 modifica]

— A che cosa non credi? - Ermanno le domandò in tono aspro.

— All'albergo che trema.

— Sì, trema; ci devi credere. Ogni cento anni trema durante la processione in onore di San Pier Parenzo.

Ella rise più allegramente e disse con malizia schernitrice:

— Portava nelle tasche il terremoto San Pier Parenzo?

Minaccioso, il chierico si avanzò di un passo e, alzando il braccio, quasi volesse batterla, esclamò con ira.

— Stupida, sei stupida - e attendeva che Serena si ribellasse, restituendogli l'insulto; Serena invece cominciò a singhiozzare.

— Perchè piangi adesso? - egli le domandò, e sul viso, indurito dall'adolescenza ruvida e angolosa, un velo di gentilezza gli si diffuse fugacemente.

Serena singhiozzava sempre più forte.

— Piango perchè sei diventato brutto e somigli a don Vitale.

Ermanno avrebbe voluto consolare quella che era stata la compagna de' suoi giuochi e rivolgerle teneri detti; ma si ricordò che la donna aveva indotto Adamo alla disubbidienza verso il Signore, ascoltando i consigli insidiosi del serpente; si ricordò che la donna è un essere d'impurità, nido di malizia, ricettacolo di tentazione, e si allontanò da Serena con dispetto. [p. 213 modifica]

Forse per questa sua colpa, per la sua debolezza pietosa verso «madamigella grano di pepe», piccola, ignara tentatrice, Ermanno non fu degno che il miracolo del palazzo che trema si rivelasse a lui.

Dopo la processione, Domitilla Rosa giurava con voce di appassionata riconoscenza che l'albergo aveva tremato dalle fondamenta, ed essa giurava il vero, poichè tutto l'essere suo si era scosso al passaggio della santa reliquia e Domitilla Rosa aveva veduto tremare i muri cogli occhi della sua fede; anche don Vitale giurava con rabbia, protendendo i pugni, di aver sentito la terra tremargli sotto i piedi; ma egli mentiva, consapevole della menzogna; mentiva e spergiurava per l'onore della Chiesa.

— Dimmi che hai veduto; pensaci, ricordati e ti convincerai di aver veduto - don Vitale diceva al Monaldeschi la sera stessa.

— No, no, non ho veduto niente - Ermanno ripeteva desolato, incapace di asserire il falso, rifuggente per indole dalla menzogna.

— Allora vuol dire che tu sei in istato di perdizione. Confessati - e don Vitale scomparve a gran passi, incollerito al pensiero che i regolamenti del seminario vietassero d'imporre il cilicio ai chierici tepidi e dubbiosi.

Ermanno si presentò contrito a monsignore.

— Vorrei confessarmi - egli disse. - Ho paura di essere in peccato mortale.

Monsignore lo guardò con occhio di tenerezza dolente. [p. 214 modifica]

— Non vi mettete in capo vani timori! La nostra religione dev'essere dispensiera di serenità, non di paure.

— Non ho veduto oggi tremare la casa dei Bisenzi. Forse Dio mi ha reso cieco al miracolo, perchè non mi trovo nella sua grazia.

— I miracoli non costituiscono articoli di fede - rispose monsignore evasivamente - tranquillizzatevi dunque, figliuolo mio! Siate studioso e zelante; vivete in pace con voi stesso. Per ora non v'incombono altri doveri.

Ma Ermanno, testardo, ripetè che temeva di essere in peccato mortale e voleva confessarsi.

— Domani, figliuolo; adesso andate coi vostri compagni a ricrearvi - e monsignore, licenziando col gesto della mano l'allievo a lui caro sopra ogni altro, pensò quello che Serena aveva detto con franca loquela: Ermanno Monaldeschi era diventato brutto e somigliava a don Vitale.